lunedì 2 ottobre 2023

“La nostra gente” - Una serata d’intimità coi Johnny Mafia, animali da SMAC (Special guests: Clinic Rodeo, SLiP)


Johnny Mafia live @le SUB, Vitry-sur-Seine, 30/09/2023 (foto del mio amico Paul, mi si indovina a destra davanti al bassista)

Una volta al mese circa mi sveglio con un umore zuzzurellone che mi accompagna per tutta la giornata. Anch'io che con gli anni sono diventato un abitudinario poco propenso alle follie estemporanee mi concedo ogni tanto una giornata fatta apposta per "zonare" e predispongo in anticipo tutto quello che ci vuole per poter fare baldoria senza preoccupazioni. Questo sabato ho tutto già pronto: una pranzo bello abbondante con le zuppe cinesi di Mian Guan (best in town); un pomeriggio intero a Belleville, con tante cose da fare ma senza nessun vero scopo; un aperitivo improvvisato in periferia; un concerto di Johnny Mafia in una SMAC (le sale concerto sovvenzionate dal settore pubblico); e la giornata intera di domani per riposarmi. Insomma, oggi è tutto organizzato per poter esagerare un pochetto nel più totale conforto. Prima di uscire di casa metto su Uptown Girl delle Beths, che è la canzone perfetta per la giornata caciarona di revival rock anni ’90 che mi aspetta: “I’m going out tonight, I’m gonna drink the whole town dry”…

Prima di entrare in meriti musicali, una parentesi semantica: di verbi come “zoner”, in italiano, purtroppo non ce ne sono. Girovagare, vagare, vagabondare, gironzolare? Tutti troppo incentrati sugli spostamenti, mentre chiaramente “zoner”, pur rimandando a un giro senza meta, presuppone una certa staticità geografica. Il più moderno cazzeggiare ci si può forse avvicinare, ma solo se è specificato che si è all’aria aperta, perché cazzeggiare lo si può fare anche in casa. “Ruzzare”, che è toscano, è la parola più simile, perché sottintende anche una certa poca eleganza nell’attività in questione, infatti non ha sempre un’accezione di verbo di movimento ma a volte viene usato per parlare delle cose che noi toscani soliamo dire con troppa leggerezza (e se sei criticato per un commento fuori posto o una battuta offensiva, puoi rispondere: “venvia, e si ruzza”). In summa, “zoner” è la versione rozza di “flâner”, un andare a zonzo con una certa qual malizia, e io oggi ho proprio voglia di “zoner”, soprattutto perché voglio arrivare con la giusta dose di adrenalina e spavalderia a quella grande festa che è ogni concerto dei Johnny Mafia.

I Johnny Mafia li ho visti per la prima volta per puro caso al “Pogo Fest”, serata anche quella tutt’altro che elegante organizzata dai gagliardissimi Pogo Car Crash Control, glorie locali dell’hardcore punk senza fronzoli nel Dipartimento 77 (la Seine-et-Marne, provincia più rurale dell’Île-de-France, dove si trova anche la già menzionata Tournan-en-Brie). Era una serata, sempre in SMAC, che celebrava il punk puro e duro, con gruppi spalla potentissimi come Mss France e il loro hardcore velenoso, o Johnnie Carwash che pure nella loro essenza pop-punk giocosa non le mandano a ridire a nessuno dal vivo. I Johnny Mafia, in questa line-up decisamente confusionaria in fatto di nomi, si distinguevano per una essenza indie rock molto più pronunciata, e un sound garageone bello corposo che prende la parte più adrenalinica di classici degli anni '90 come Breeders o Weezer e la rende al contempo più violenta e più festosa. I quattro ragazzi di Sens, in Borgogna, sopra a un palco appaiono tanto giovani quanto esperti e riescono a trasmettere allo stesso tempo un’energia adolescenziale e una scarica elettrica calibrata alla perfezione, fondendo ingenuità e ingegneria nel migliore dei modi. 

Quando Sophie mi regalò il biglietto per andare al loro concerto al Trianon un venerdì sera di primavera dell’anno scorso, però, non mi rendevo ancora conto di quanto fosse una prova del fuoco per questo gruppo che ha macinato concerti su concerti in ogni parte di Francia (più di 250, leggo in statistiche recenti). Il Trianon, una delle più belle tra le sale montmartriane, è un vecchio teatro del 1800 che ha la particolarità di avere un pavimento in legno molto mobile: basta che il pubblico salti un poco e già ci si sente in catamarano. È anche una delle sale più grosse del quartiere: ci ho visto gente tipo Courtney Barnett e i Yo la Tengo, per rendere l’idea di quanto sia straordinario che di venerdì sera la sala fosse piena zeppa di gente per vedere i Johnny Mafia headliners, a prezzi da Trianon per giunta (25€ mi pare, ma ho rimosso perché del prezzo di un regalo non bisogna curarsene). Non solo, il pubblico era scatenatissimo e giovanissimo (io, a 25 anni, mi sentivo sopra la media). Per un’ora fui convinto che, sotto ai duecento metri quadrati di pogo, la calca sotto palco e la gente che volava giù dal cielo ogni minuto, il pavimento a questo giro avrebbe ceduto.

Uscii dalla sala strabiliato: quei Johnny Mafia che fanno una gavetta costante, con una marea di date in Francia ogni anno di cui varie in regioni semideserte, su quel palco d'onore avevano operato un sortilegio eccezionale. Mi confortò anche la constatazione che ci sono ancora gruppi garage rock giovani che piacciono ai giovani. Evidentemente il culto di quegli anni ’90 arruffati, emotivi e rumorosi perdura anche nei nati dopo l’anno 2000. Di certo Johnny Mafia, se sei di quell’orientamento religioso, sanno smuovere qualcosa in te. Alla Ferme Electrique dell’anno scorso il fidanzato di Sophie (uno cresciuto a doom metal e free-party) mi disse: “Ma com’è che il pubblico poga e salta da ogni parte con della musica così pop?” e gli risposi senza indugio con la criptica frase: “È perché sono la nostra gente”.

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Perciò questo sabato mi metto nelle condizioni di essere soggiogato una nuova volta dall’incantesimo. Incontro le mie amiche e parliamo delle ultime novità mentre aspiriamo noodles su noodles annaffiati da bottiglie di Tsing Tao in formato muratore; andiamo al parco di Belleville a stenderci sull’erba, fumare sigarette e ascoltare Simon and Garfunkel; incontro il mio amico Théo e lo accompagno a mangiare cibo di strada ai baracchini della festa della luna cinese, poi passiamo in fretta dal caffè al pastis in un PMU (ovvero un bar che fa anche centro scommesse) dove ci sfilano davanti agli occhi le scene improbabili dell’incrocio tra Boulevard de Belleville e Rue Faubourg du Temple. Le 18 arrivano senza nemmeno chiedere il permesso, e parto verso Vitry-sur-Seine con un paio di Kronenbourg in saccoccia (sto leggendo Trainspotting e devo dire che riesce bene nel suo intento di dissuadere dall’uso di droghe pesanti, in compenso certi capitoli mettono solo voglia di bere birra nei mezzi pubblici). Scendendo dall’autobus Villejuif-Vitry mi ritrovo in una rotonda ornata da una scultura di Dubuffet alta tre metri: le magie che solo la “petite couronne” (il primo anello di periferia) sa regalare. Incontro i miei sodali e prendiamo l'aperitivo in un PMU frequentato da arabi e tenuto da cinesi, che è talmente squallido da fare il giro e diventare quasi cool.

Alle 20 arriviamo al SUB, la “venue” di stasera, che ha l’aspetto spartano e accogliente che solo le SMAC sanno avere. Un piccolo appunto di urbanistica: in teoria l’etichetta SMAC designerebbe solo le sale concerto finanziate direttamente e unicamente dal ministero della cultura. Se ne trova la lista su internet, sono una novantina e il SUB non ne è una. In compenso, nel gergo degli architetti o degli amatori di musica, si tende a chiamare SMAC ogni sala finanziata dal settore pubblico, di cui molte sono municipali. Le si riconoscono perché sul loro sito rivendicano comunque di essere “scènes de musiques actuelles” (da cui la sigla) ma poi citano il comune. In ogni caso, condividono un elemento fondamentale con le SMAC statali, ovvero la vocazione a essere il più inclusive possibili nel loro fine di diffondere la cultura per tutti. Questo si traduce una programmazione estremamente variegata e, nella misura del possibile, anche abbastanza piaciona. Dal punto di vista architetturale sono tanti i requisiti da rispettare per la comodità dei lavoratori e di conseguenza anche del pubblico. L’entrata e l’uscita sono sempre agevoli, ci sono vari angoli dove ci si può sedere o zone dove il baccano del palco è attutito (tra cui il bar, deo gratia). Stasera il personale sembra molto più rilassato che nelle sale private e pure l’addetto alla sicurezza mi fa grandi sorrisi. Ultimo ma non meno importante, i prezzi popolari: per tre gruppi stasera spendiamo 5€, la pinta di birra costa uguale e soda e vino li fanno a 2€. Insomma, tanto di cappello: la filosofia SMAC è un vero gioiellino delle politiche culturali francesi degli anni ’90, talmente ammirevole che pure il governo dell’ultra-liberale Chirac, quando lo ereditò da Mitterrand nel ’96, applicò il programma con entusiasmo. Molti comuni (perlopiù di sinistra), se il ministero non gliene dava l’opportunità, si sono fatti la loro SMAC seguendo lo stesso identico programma architettonico, come a Vitry-sur-Seine, bastione comunista che resiste ancora nella famosa “ceinture rouge”.

Arriviamo alla porta e già vedo delle facce familiari. “Buonasera Johnny Mafia, è già aperto?” “Sì sì, si può già entrare” (i quattro borgognoni, con fidanzate e soci, non schioderanno dalla scalinata all’ingresso per tutta la sera prima di montare sul palco). Cominciano i giri di vino del “cubi” (il cartone), parliamo di cose da millennial (tipo di quando scaricavamo la musica proprio qui su Blogspot) e comincia la prima band. A questo giro gli opener ce li godiamo come una sorpresa totale.

Il primo gruppo è un duo composto da un uomo e una donna (visto l’andazzo di questo blog posso dirlo: “Gotta be one of my favorite genders”) che risponde allo strano nome di Clinic Rodeo (lo scopriremo molto dopo la fine del loro concerto). Con una batteria bella imponente e una chitarra che percuote le frequenze basse in maniera godereccia, i due propongono un hard-rock scheletrico che copre lo spettro di varie declinazioni del genere mantenendo sempre una bella coerenza sonica. Ci divertiremo, nella pausa sigaretta subito dopo, a discernere delle reminiscenze che ci hanno evocato: chi nella distorsione bella tremolona ci vede gli Stooges, chi non rimane indifferente al grande omaggio che i Clinic Rodeo fanno a Ozzy Osbourne, ma anche certi desertismi che fanno pensare a Queens of the Stone Age e via discorrendo. Il concerto convince: quando il cantante, un rocker dal look retrò e prominenti basette, arringa la folla sul ritmo di Taxidermia, il pubblico si decide ad andare in prima fila; dopo la splendida e misteriosa Girl Big Gun, pezzo dark simil-Bauhaus, il mio amico Costantino mi dice che i 5€ sono già ripagati; i cori di 9. 1.1. Top. Secret, verso la fine del concerto, li cantano pure i baristi. Carisma e sostanza.

Saltando di palo in frasca il secondo gruppo, gli SLiP, ci lasciano abbastanza esterrefatti quando cominciano a bombardare il pubblico di d-beat e power-chords melodici alla Offspring. Costantino mi dirà che con lo skate-punk (o melodic hardcore che dir si voglia) ha una “relazione di amore-odio” e ad essere sincero sono completamente d’accordo. In quanto portatore (sano) di un tatuaggio dei Descendents, però, non posso non dare una chance a chi suona il tipo di musica che, quando eseguito bene, è il metodo di comunicazione a cui sono più sensibile. Ovviamente, in accordo con l’etica ed estetica del genere, gli SLiP hanno una presenza scenica un po’ dimessa ma simpatica nella sua goffaggine. Il pubblico sta un filino più lontano dal palco ma fa un po’ di head-banging e si diverte. Ci sono momenti più e meno riusciti ma la mezz’oretta passa abbastanza leggiadra, e un paio di pezzi più rilassati o orientati sulla ska, tipo Nice Day, danno una buona dose di freschezza al tutto. La chiusa con la cover pop-punk di A Hard Day’s Night ci mette di umore non buono, buonissimo (soprattutto il mio amico Paul, che qualche giorno prima mi ha confessato che è il suo album dei Beatles preferito).

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Il momento tanto atteso è arrivato, e la prima constatazione che faccio è che è la prima volta che vedo i Johnny Mafia in una sala molto più piccola della media e con così poca gente (anche se comunque il SUB è discretamente riempito). Quando, appena iniziano a suonare, non comincia una mattanza sotto palco, ne sono un pochino stupito ma il gruppo stesso sembra non farci assolutamente caso e il quartetto pesta come un martello pneumatico facendo facce spiritate e spiritose. L’incantesimo avviene, e la musica arriva dritta al cuore, procurandomi un’ebbrezza simile a quello che può darmi il primo sorso di un vero negroni quando torno a Firenze: una parte nostalgia (Campari), una parte orecchiabilità (vermut rosso), una parte pura potenza (gin). E uno spicchio d’arancia che è quel non so che che li rende un gruppo riuscito al 100%, quella cosa che chiamo il “forget who we are sound” (in onore a Forget Who We Are dei Cap'n Jazz), che mi fa semplicemente astrarre nella musica.

In effetti, lo ammetto, sono una delle persone più casiniste nella sala, ma del resto mi sono preparato tutto il giorno a questo momento, e, alla quarta volta che li vedo, ormai ho assimilato alcuni automatismi, come quello di saltare fino al soffitto appena parte Sun 41 con il suo iconico ritornello “estivo”, oppure ballare un finto boogie su TV & Disney, canzone finto allegra dal sapore surf rock, e ovviamente fare il gesto dello “shredding” verso il palco quando parte l’assolo in tapping di Trevor Philippe. In compenso, i Johnny Mafia sono ancora un volta capaci di stupirmi, con una scaletta, per esempio, che per la prima volta noto un po’ meno incentrata sul loro ultimo album Sentimental del 2021 (uno dei dischi rock più solidi dell’attuale decade). Alcuni pezzi che credevo immancabili nella scaletta, come Aria o il singolone romantico Love Me Love Me, non saranno suonati a beneficio di brani risalenti al primo album Michel-Michel Michel del 2016, criminalmente poco considerato (tanto che pure il SUB nella descrizione dell’evento ha il lapsus di scrivere che i Johnny Mafia hanno inciso due album in carriera, poi nel paragrafo successivo si corregge e si riferisce a Sentimental come al loro terzo lavoro). Black Shoes, che è sempre un piacere ascoltare dal vivo (ed è la favorita del mio amico Paul), ci prende alla sprovvista con le sue scariche di feedback, e la splendida Kim Deal, che riprende persino i fischi di La La Love You dei Pixies, è forse la prima volta che la sento dal vivo e mi innamora.

Scoprirò, l’indomani, che la serata di Vitry-sur-Seine è l’ultima di un tour estivo che non lesina in ampiezza (inizio giugno - fine settembre) e che prende l’ironico nome di “Halliday tour”. Effettivamente, si ha l’impressione di aver definitivamente concluso il ciclo di promozione di Sentimental, che ha ormai raggiunto il suo piccolo status di culto. Al concerto al SUB, con il palco così basso e così vicino (per poco non mi prendo la punta del basso sul viso), ci si sente in intimità coi Johnny Mafia, che si divertono come hanno sempre fatto nelle piccole SMAC di periferia e parlano al pubblico con il cuore in mano del periodo che stanno vivendo. L’emozione è palpabile quando ci raccontano del volo che parte il giorno dopo da Charles de Gaulle per portarli a suonare la loro prima extra-europea a Seoul, dove lo Zandari Fest, showcase internazionale, li ha voluti portare come rappresentanti della Francia. Poi, all’encore, ci deliziano con un paio di canzoni nuove, coerenti col loro sound ma ancora più evolute, con trovate chitarristiche originali e un songwriting che, tra momenti di spigolosità e il solito senso della melodia, convince tutto il pubblico.

Va detto che, nell’intimità di una piccola sala comunale come in un grande Trianon gremito di fan, i Johnny Mafia sono sempre fedeli a loro stessi. La rivendicazione campanilista della loro città natale, Sens “capitale del mondo”, non manca mai. Del resto, Sens è stata per secoli la seconda arcidiocesi più influente del mondo cristiano dopo quella di Roma e possiede la prima cattedrale gotica della storia, e poi del sano campanilismo lo si apprezza sempre. Colpisce sempre anche quel loro modo di vestirsi casuale, da “slacker rockers” degli anni ’90: la highlight sarà senza dubbio il chitarrista con i suoi pantaloni beige di chissà quale vecchio completo accoppiati a una maglietta bianca della Protezione Civile del Comune di Brugnera. I pochi intermezzi parlati sono sempre spiritosi e spontanei, tra le constatazioni metereologiche (si suda parecchio) pronunciate a mo’ di frasi fatte o le riflessioni sui reality show, di cui il cantante si dice un grande appassionato (Secret Story è in realtà il nome del Grande Fratello francese). Insomma, i Johnny Mafia sono semplicemente quattro ragazzi adorabili che fanno un grande garage rock e che ci credono fino all’ultima nota, senza perdersi in inutili trucchetti da palco, e basta questo a renderli una delle migliori live band francesi della loro generazione.

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Il concerto è finito, sono madido e non propriamente sobrio. Cazzeggiamo ancora un po’ dentro al SUB. Dietro al bancone del bar vedo gli SLiP, che con l'accordo del barista vengono a servirmi da bere (!), al che non posso fare a meno di mettere la caviglia nuda a un’altezza pericolosa per i miei legamenti affinché vedano Milo Goes to College impresso sulla mia pelle. Escono dal bar e chiacchieriamo due minuti dell’XtremeFest, rassegna skate punk improbabile in una miniera di ferro riabilitata vicino a Albi. Incontriamo la batterista dei Clinic Rodeo completamente trasformata rispetto alla strega sabbatica che avevamo visto sul palco, e compro il loro album in maniera estemporanea (“situazionista”, dirà Costantino, ed effettivamente Guy Debord sarebbe fiero di come ho approcciato la giornata di oggi). Alla fine usciamo e i Johnny Mafia sono al loro solito posto, come se niente fosse. Non posso fare a meno di andare a parlare con mister “Protezione Civile”, che si chiama Fabio Amico ma non parla italiano e anzi è più borgognone di un manzo stufato nel vino rosso. Fabio è simpatico e disponibile ed ascolta i miei piccoli deliri alcolici di fine serata tipo “il Trianon è stato un nuovo Woodstock” con divertimento misto a vero interesse.

Finisce settembre e inizia ottobre. Torno a casa senza sapere se il mio pass Navigo (My My Metro Card) funziona o no. Allungo le gambe sui sedili del bus e ascolto Chief Keef. Una volta al mese fare lo “zonard” fa bene all’anima, e non c’è pretesto migliore che un po’ di rock rumoroso.