lunedì 16 ottobre 2023

Benelux vs. Mediterraneo (pt. 1/2) - Con Marcel e La Elite al giubileo del nuovo garage punk europeo

Marcel live @Backstage by the Mill (MaMa Music Convention), Parigi, 11/10/2023 

Introduzione

La vita concertistica parigina è senza dubbio piena di emozioni e, se ne si ha voglia, si ha sempre almeno un concerto esaltante al mese. Se gli vogliamo trovare un difetto, però, è quello dell’incostanza. Mi capita spesso di avere periodi in cui per venti giorni c’è il nulla assoluto e poi quella settimana dove si fa fisicamente fatica ad andare a tutte le serate (e magari ci sono persino dei conflitti orari irrisolvibili, manco stessimo al Primavera Sound). Una volta ogni sei mesi circa, poi, capitano quei due giorni di fila irrinunciabili anche se distruttivi, alla fine della quale si è felici ma al contempo non ci si sente per niente in buona salute. Le “due giorni” catartiche non solo concentrano tanto piacere in poco tempo ma sono anche un reminder che noi drogati di musica dal vivo siamo esseri irrazionali e che pur di vivere piccoli attimi di estasi siamo disposti ad andare al lavoro soffrendo di stanchezza, digiuno e acidità di stomaco; e va bene così.

Ogni tanto i concerti per due sere di fila non hanno nessuna correlazione l’uno con l’altro. A settembre dell’anno scorso, per esempio, la combo JPEGMAFIA seguito dai Wedding Present (il trentesimo compleanno di Seamonsters!) mi prosciugò di ogni energia e mi fece far festa indiscriminatamente con il meglio della gen-z statunitense e vecchi inglesacci ubriachi. Qualche mese dopo, invece, il fil rouge era ben più palese: vedere gli Stereolab e poi i Pavement il giorno dopo è stata una fantastica ridiscesa negli anni novanta, un dispendio di forze vitali collettivo (saluto la mia amica Pauline e il mio fido compare Tommaso, venuto apposta da Firenze) che ci ha fatto sognare un’epoca che non abbiamo mai veramente vissuto prendendoci a schitarrate in faccia e trasformandoci in felicissimi zombie.

Mai come prima d’ora, però, la due giorni appare così tematicamente coerente. Questa settimana a Parigi suonano il mercoledì i Marcel, gruppo noise-rock belga che ha debuttato a marzo 2023 con Charivari, album strabiliante pieno di soluzioni acrobatiche, e il giovedì gli spagnoli La Elite, che col loro primo LP Nuevo Punk (dicembre 2022) hanno definitivamente messo la Catalogna sulla mappa delle grandi mete del synth-punk. Due serate completamente diverse che però mi faranno vedere due dei nuovi prospetti più promettenti del garage rock (inteso come ethos più che come genere) e soprattutto osservare le differenze di approccio regionali che possono esistere tra un gruppo dell’operoso Benelux e uno che gode della vita lenta sulle rive del Mediterraneo.

Faccio un’ammissione di colpa: ho una piccola passione per gli stereotipi, semplicemente perché mi fanno ridere, niente di più niente di meno. Non penso che tutti i belgi e olandesi (e anche i lussemburghesi, via) siano impeccabili e onesti lavoratori amanti del progresso, della tecnica e delle serate in birreria con le gote rosse, né che tutti gli spagnoli siano dei vagabondi caciaroni che amano passare le giornate a sbevazzare su terrazze e panchine. Certo è che, quando ascolto i Marcel e i La Elite uno a fianco all’altro, faccio fatica a non dirmi che molti stereotipi hanno un piccolo fondo di verità, che poi è quello che li rende divertenti. I primi, belgi, in Charivari snocciolano testi colti su politica e sociologia mentre gestiscono con maestria impressionante la dissonanza su strati di percussioni esotiche ben ragionati. Gli spagnoli, dal canto loro, basano tutto l’universo del loro Nuevo Punk su un tappeto estemporaneo di drum machine, un synth, riff di chitarra punk semplicioni, e ci urlano sopra le disavventure di una vita sporca e poco salutare. Purtroppo, il contesto di entrambi i concerti non fa che rafforzare il cliché sopracitato ancor prima di andarci: i Marcel si esibiscono al MaMa Music Convention, una manifestazione di tre giorni strapiena di conferenze e live show che si susseguono tra le varie sale del quartiere Pigalle con una puntualità e una precisione degna di un sistema ferroviario, dove gli addetti ai lavori col “pass pro” bene in vista attorno al collo sono in maggioranza schiacciante rispetto a noi, povera gente che ha fatto la dura scelta di essere pubblico pagante per tutta la vita; i La Elite invece si esibiscono a L’International, bar popolare di Ménilmontant con un sottosuolo che funge da sala concerto/discoteca, tappezzato di adesivi, dal tetto pericolosamente basso per accogliere concerti punk, una sala piccola e un palco alto 50 centimetri, con qualche pilastro piazzato in punti scomodi (ma non si può fare altrimenti), e soprattutto a una serata pagata 10€ e andata sold-out.

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Infiltrati nell’industria: una serata di talent scouting involontario al MaMa Festival

Vado al MaMa con mio babbo che, di passaggio per Parigi, è curioso di vedere un po’ di sale concerto diverse e ha piacere ad accompagnarmi a vedere quello che per me è uno dei migliori giovani gruppi in circolazione. Effettivamente, il formato del festival è decisamente studiato bene, l’accesso ai locali facile e le distanze brevi (inframezzate anche da vari bar, tutti pieni di avventori della convention). Il mio amico Théo, che lavora nella distribuzione musicale (non ho ancora capito il suo mestiere ma ci vogliamo bene lo stesso), è in zona e partecipa a tutti i tre giorni della convention. Lo incrociamo di tanto in tanto, sempre con colleghi diversi, ed è il nostro unico punto di contatto con l’industria. Certo, anche se Théo non fosse qui l’industria la si vede e la si sente: ovunque ti volti vedi gente che fa “networking”; il pubblico è molto calmo, si diverte ma sta anche lavorando; e negli sguardi di certe persone credo persino di indovinare, forse per autosuggestione, un interesse più commerciale che strettamente musicale riguardo a quello che sta succedendo sul palco.

Le prime due artiste che vediamo (completamente a scatola chiusa), sono effettivamente delle potenziali pop-star in divenire, e io e babbo ci divertiremo molto a riscontrare quanto sia aleatorio il successo per gli artisti che propongono musica radio-friendly. La prima è Bamby, che si esibisce nel classicissimo e splendido locale della Boule Noire tra le urla di ragazze esaltate e il silenzio di uomini bianchi che osservano lo show quasi imbarazzati di essere lì, a osservare un potenziale fenomeno di una musica “trendy” per la demografia opposta alla loro. Questa cantante guyanese offre uno show procace in tutto. Glisserò sulla presenza scenica della performer (ci siamo capiti), ma anche solo le strumentali dai bassi twerkanti, il patois caraibico potente e sboccato, gli interventi in voce ragga di un DJ/hypeman particolarmente nutty, tutto urla di un inevitabile ritorno della dancehall di stampo giamaicano sulle scene del pop per le masse. Dopo aver assistito a fenomeni africano-francesi come Aya Nakamura et similia, oppure ancora tutti gli artisti dei nuovi “afrobeats” che hanno rimesso la Nigeria nella parte alta delle classifiche britanniche (Burna Boy, Rema etc.), non è impossibile pensare che una Bamby di turno popolarizzi definitivamente una connessione “post-coloniale” (dire altrimenti sarebbe ipocrita) abbastanza inedita : un ritorno, in Francia metropolitana, delle sonorità da bloc party guyanese. A me la musica di Bamby diverte molto e, in prima fila, faccio gesti di apprezzamento col sorriso stampato in fronte. Mio padre è un po’ più dubbioso e l’avvenentissima cantante se ne accorge: finisce che durante Real Wifey si rivolgerà direttamente a lui avvicinandogli il microfono alla bocca per ottenere la risposta a un sensuale (e un po’ volgare): “Ça va ou quoiiiii ?”, forse pensando che questo signore fuori contesto è un importante discografico accompagnato dall’assistente a vedere la nuova sensazione. Io sono morto dalle risate e quasi quasi resterei, ma è vero che quattro canzoni di dancehall pop sono troppe anche per me. Usciamo convinti che non ci stupiremmo se un giorno Bamby ha una hit radiofonica, ma anche ricordando quel vecchio aforisma attribuito a Lee Perry che diceva che “la dancehall è lo sterco del diavolo”.

Una seconda pop-star in potenza la vediamo nel sorprendente (e ripido) scenario del Théâtre des Trois Baudets poco distante. Dopo aver visto una musica forse troppo nera per noi, è il turno di un paio di canzoni di una musica quasi troppo bianca (e sicuramente troppo francese), il pop leggero dalle velleità funkeggianti di Clair. La cantante francese è accompagnata da musicisti estremamente tecnici e ricorda terribilmente Angèle (una mia bestia nera) non solo nella voce e nelle linee vocali, che già è molto, ma in tante altre cose che rendono la somiglianza “troppo”: l’aspetto fisico, la capigliatura bionda, persino il maglioncino. Ancora una volta, però, ci ritroviamo a dire che un pezzo appiccicosissimo come Danser ou Créver non ha molto da invidiare a canzoni simili che ci vengono propinate alla radio.

Decidiamo che il pop ci basta e avanza e che è tempo di affidarci al buon vecchio valore sicuro dell’indie rock. Entriamo nella terza sala senza sapere cosa aspettarci dal Backstage by the Mill. Il fatto che si trovi sul retro di un bar irlandese nel quartiere “a luci rosse” della città non promette granché bene, penso mentre attraversiamo un O’Sullivan pieno di anglo-sassoni festaioli. In realtà l’accesso si fa tramite un vicolino cieco (Cité Véron) dove, in fondo, scopriremo più tardi una targa che commemora la vecchia residenza artistica di Jacques Prévert, Boris Vian e il loro cane, “i tre Satrapi”. E da questo Shady Lane entriamo in una sala ampia e vivace dove TH Da Freak, sul palco, stanno suonando Flies, una canzone lo-fi indie rock spettacolare, per l’appunto di Pavement-iana memoria. Il quintetto bordolese l’ho già visto una volta in una SMAC a Chelles, comune di remota banlieue Est. Hanno tre chitarre, ma non si sente molto, e hanno alcuni pezzi eccellenti come il sopracitato, alternati però a lunghi momenti di pura inutilità. Assistiamo agli ultimi minuti del concerto non pienamente convinti e mi chiedo persino se l’incostanza non piaccia all’industria musicale: anche un pezzo grosso come Alex G a ogni nuovo album ci regala tre o quattro tracce eccezionali e tre quarti di musica skippabilissima, e a pochi questo sembra disturbare. Appena finisce il concerto una ragazza con cui avevo condiviso il ritorno in treno dal Primavera Sound quest’estate e che incrocio spesso ai concerti indie più leggeri mi dice: “C’était trop bien”. Faccio lo sdubbiato ma mi pareva che lei si fosse definita una fan sfegatata di Alex G, il che confermerebbe le mie teorie. La discontinuità come affermazione dell’insicurezza (che è poi uno dei temi fondanti di questi artisti)? Chissà.

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Marcel, uno spiritello rumoroso venuto da Nord-Est

Non ho troppo tempo per dibattere di queste elucubrazioni con gli esperti del settore perché i sodali di Théo mi raccontano rapidamente che si occupano di jazz o di elettronica, quindi non troverei un terreno fertile. Ma soprattutto, i Marcel stanno per salire sul palco e sono venuto essenzialmente per loro. In vista della sfuriata noise-rock della serata mi carico a birra, parlo con gente a caso, veloce e forte, e sono già visibilmente in fibrillazione ben prima che i belgi salgano sul palco. Quando cominciano a suonare dopo un intro di can-can (il Moulin Rouge è a due passi) ammattisco definitivamente. C’è qualcosa nel suono dei Marcel che semplicemente mi fa diventare indemoniato, che poi è la definizione stessa della parola “charivari”: un rituale collettivo che oscilla tra la manifestazione di rabbia e la goliardia carnascialesca. Durante il concerto mi ritrovo a vivere entrambe e persino il fatto di essere circondato da persone decisamente serie mi sblocca ancora di più l’istinto di trasformarmi in un satiro danzante simile a quello che si vede sulla copertina dell’album, alternando balletti scemi a sing-along furiosi.

Sono 45 minuti di fuoco dove vengono macinati tutti i miei pezzi preferiti di Charivari (forse proprio tutto il disco, addirittura). Sono splendide le canzoni noise/garage rock più classiche, come per esempio Six Seconds, che mescola un’immediatezza punk a un’orecchiabilità improbabile nel marasma di distorsioni, o ancora Nechayev & Sons, dal riffing dissonante degno di maestri del post-hardcore, nella cui alternanza di pause e sfuriate non si può non leggere un’esortazione a fare casino (devo aver fatto cadere della birra a qualcuno, ops). Il cantante della band, Amaury Louis, è estremamente istrionico e rende anche questi pezzi più “tradizionali” uno spettacolo per gli occhi mentre viene operato un assalto per le orecchie. Ma i Marcel amano svariare e proporre piccole follie inaspettate, come quella batucada post-punk impossibile che è bbl, dove le reminiscenze brasiliane hanno anche un sapore di marcia militare, o ancora il lirismo sintetico di Eurovision, marcata da pindarismi vocali con l’autotune che ricordano anche il Casablancas dei The Voidz. Il tempo vola e mi diverto tantissimo, canto a tutto spiano (in Blue Danube No More alzo le mani e forse l’accendino al cielo mentre ripeto la nenia “It’s your time to cry…”) e quando il set finisce sono convinto, ancora più della prima volta che li ho visti alla Ferme Electrique, che siamo davanti a un gruppo esageratamente promettente.

Dopo il concerto sento l’avviso di varie persone, e molte sono rimaste colpite soprattutto dalla giocosità della performance. Ancor più della varietà nell’uso di strumenti esotici ed effetti sonori inaspettati, quel che è davvero impressionante dei Marcel per me è come possano essere al contempo buffi e potenti, simpatici e spaventosi. Un pezzo come Intimité per esempio, col suo boogie no-wave cantato in un francese nervoso e scattante, racchiude tutte queste contraddizioni e le esalta, dando davvero l’idea che i Marcel siano una di quelle band che capitano poche volte a generazione.

Mentre sbollisco assistiamo all’inizio del concerto degli olandesi Tramhaus, che stasera ci vengono venduti come un nuovo astro nascente del revival post-punk. I ragazzi sanno fare bene il loro mestiere e convincono, ma il loro songwriting, che non mi catturava sui dischi, purtroppo non riesce a trascendere nemmeno nella versione live. Make it Happen, loro omaggio “western” alla città di Rotterdam, resta un pezzone dal retrogusto Doors rimarcabile, ma il resto non mi fa innamorare.

Mentre guardiamo il concerto pronti a partire incrocio un paio di Marcel e scambio due parole con il batterista, che ha suonato tutto il set col dolcevita addosso (!). Questo ragazzo di nome Ulysse, che ha martellato come un matto e non ha una goccia di sudore (in sottofondo sta risuonando il secondo miglior pezzo dei Tramhaus, I Don’t Sweat), mi fa il più bello dei complimenti: “Per restare motivato e credibile di fronte a tutti questi professionisti del settore guardavo te mentre suonavo”. Ormai, con persino la loro maglietta addosso, mi auto-consacro groupie del gruppo e provo un vero piacere, quando mi dice che hanno suonato tantissime volte con gli olandesi, a pronunciare di fronte a lui la parola “Benelux”, che trovo buffissima.

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Fine della prima parte: tristi constatazioni sullo stato attuale della party music francese

Oramai abbiamo tutti avuto una buona dose di musica di qualità e anche di un certo intellettualismo, e l’ora tarda indica che è tempo di andare a ballare. La gente nel Backstage by the Mill è sempre più alcolizzata e chiacchierona, purtroppo per i Tramhaus che stanno facendo un bel concerto dietro al brusio generale. Serpeggia nell’aria un esodo verso un luogo festivo, uno tra i più iconici al mondo: il Moulin Rouge. Se un giorno ci andate, non aspettatevi di trovare al suo interno un decoro da dipinto di Toulouse Lautrec: la sala concerto è grande, ben allestita su due piani ma moderna e quasi anonima. Sono circa le 23:30 e la Machine du Moulin Rouge è strapiena di gente, perlopiù giovani del mestiere, che assistono alla fine del concerto de Les Clopes (“Le Sigarette” in lessico famigliare). I pochi minuti che vediamo della performance sono quasi raccapriccianti: sette (!) persone sul palco che non compicciano granché, tutte vestite di occhialoni da sole bianchi, ritmi di drum machine che accompagnano bassline post-punk banali e testi stupidi sulla gioventù francese. Attention Dépression è resa ancora più imbarazzante della sua versione studio da un estensione del dialogo tra cantanti sulla tematica del: “Sono nella merda posso dormire da te stasera?”, il tutto infarcito di gergo da giovinastri tipo “sous-loc” (il subaffitto) o un “verlan” romanticizzato in maniera spicciola (senza che poi ce ne sia ormai più bisogno). Non capisco l’appeal ma le gente sembra divertirsi. Mio padre, a cui ho insegnato un po’ di slang di internet negli ultimi anni ma che ancora non l’ha imparato bene, a questo giro mi guarda e dice: “Cringe, no?”, e stavolta ha completamente compreso.

Finisce che babbo torna a casa e io faccio una decisione distruttiva per la mia salute, che è quella di prendere un altro bicchiere e restare per un ultimo concerto. Sono al bar che scherzo con la barista sul fatto che “quanto lo vuoi diluito il pastis?” è una di quelle domande che a noi stranieri sembra assurda, tipo “quanto la vuoi cotta la baguette?” (“al sangue”), e arriva Théo che mi dice che il gruppo che sta per suonare secondo lui diventerà famoso. I Dalle Béton la loro micro-fama da gimmick band in realtà se la sono bella che guadagnata: di recente ho visto un video infografico su Instagram (su Konbini o qualcosa del genere) che parlava dell’originalità delle loro performance, e hanno anche suonato all’ultima Fête de l’Humanité (gigantesco festival del Partito Comunista Francese, dove ogni anno suonano act di rilievo nazionale e internazionale). La particolarità di questa band sarebbe quella di costruire un blocco di cemento (una “Dalle Béton”) sul palco.

La prima cosa che tengo a dire è che, nonostante la betoniera che girava, un paio di impastate di calce e il rituale test della cazzuola, il blocco non è stato colato, quindi quel che si dice in giro è una fake news. In secundis, che ormai mentre comincia quest’ultimo concerto i bicchierini buttati giù cominciano a essere tanti. Ciononostante, so di per certo che quando un closing act danzereccio mi piace davvero non importa quanto io sia sano e quanto me ne ricordi dopo: qualsiasi sia il tasso alcolemico io ballo, mi diverto e considero il concerto memorabile. Purtroppo non posso dire nessuna di queste tre cose per Dalle Béton perché, nonostante tutto indicasse che erano la party band della serata, non ho ottenuto niente di quel che mi aspetto da una party band.

Va detto, lo show è simpatico: sul palco ci sono attrezzi da cantiere, i musicisti portano dei gilet catarifrangenti e l’idea anche se lontanissima dall’essere originale è quantomeno spassosa. Certo è che lo stage banter è proprio stantio: al momento del cono segnaletico in testa mi sono abbastanza vergognato e per il resto i quattro, che propongono in teoria una musica umoristica, non possono fare di meglio che un audacissimo (si fa per dire): “Abbiamo sentito che c’è molta gente del music business ma noi ce ne freghiamo il cazzo”, o ancora: “Ho visto che c’è una conferenza domani che si chiama ‘Il marketing musicale può salvare il pianeta?’, no comment”. La musica non ha neanche lei niente di esaltante, si tratta di un accrocchio di dance-punk industriale senza niente di distintivo, e le poche linee vocali che il cantante si degna di regalarci tra un cazzeggio edile e l’altro sembrano costantemente rifugiarsi in convenienti soluzioni nostalgiche (nel senso che le hai già sentite su Radio Nostalgie). Quello che mi convince meno, però, sono i testi e i concetti fondanti delle canzoni: una sequela di sloganacci che servono essenzialmente a far sentire l’uditorio “di sinistra ma non radical chic” (anzi, non “bobo”, bohémien bourgeois, cosa che tra l’altro io rivendico di essere). Mentre si susseguono liriche di una banalità disarmante su temi come le piccole défaillances di uno dei mondi del lavoro più performanti del mondo (come in CPF, canzone sul conto professionale per le formazioni), o ancora una critica priva di argomenti delle nuove strutture associative sperimentali (ai frequentatori di questi famosi “tiers-lieux” viene detto autoritariamente: Mange Ton Compost), o, la peggiore di tutte, una canzone che non sarebbe satirica nemmeno su Marte intitolata 49.3 (che sarebbe un cavillo dell’esecutivo per far passare le leggi più facilmente un po’ come i decreti legge, e che ha fatto passare la riforma delle pensioni)… Insomma, mentre vengono sciorinati questi testi tutto tranne che sagaci mi viene da pensare che tutti i presenti, questi giovani del music biz che sprizzano divertimento da tutti i pori e cantano i ritornelli a gran voce, devono star espiando qualche colpa. Non vedo nessun’altra spiegazione.

È sentirsi parte di un movimento sociale popolare inesistente che li esalta a tal punto? O forse ascoltar parlare di sigle burocratiche provoca l’ebbrezza artificiale del conoscere le piccole difficoltà dell’età adulta? O ancora, tornare a citare frasi ascoltate a una qualche manifestazione risveglia istinti festivi agli astanti? Non lo so, ho l’impressione che la musica dei Dalle Béton abbia come unico obiettivo quello di far indentificare il pubblico con un proletariato immaginario, e questa cosa mi mette una certa tristezza.

Sono ormai ubriaco (ops) e passo il concerto a mentalizzare queste considerazioni mentre all’esterno faccio battutacce a Théo. Mi sono divertito tantissimo oggi ma mi sento desolato dalla constatazione che uno strumento potente come può essere una party music politica sia affidato a un gruppo di così poca profondità (e nel mentre penso ai Devo, che portavano anche loro i coni sulla testa).

Alla fine, dopo altri bicchieri di troppo e un paio di sfoghi anch’essi eccessivi, mi decido di tornare a casa. Mentre mi compiaccio del fatto che il miglior gruppo della serata già lo conoscevo senza avere contatti con l’industria musicale, gli dei del music business mi puniscono per la mia boria. Sto sputando nel piatto in cui mangio e allora un fulmine mi colpisce, facendomi cadere il cellulare dalle mani. L’LCD va in frantumi, ma nemmeno mi arrabbio: lezione imparata e meritatissima. 

Abbasso la mia hybris. Viva il MaMa. Viva la musica garage punk, che non è antitetica al mercato musicale. Viva anche il mercato musicale, e abbasso la musica finto garage e finto punk, che si finge antitetica al mercato solo quando è sul palco, mentre in realtà ci sguazza.

Ah, e viva Marcel!