mercoledì 6 dicembre 2023

Trovare la pace dove meno te l’aspetti - Il concerto di consacrazione dei Grand Blanc, stella brillante dell’ambient-pop

Grand Blanc live @La Gaîté Lyrique, Parigi, 30/11/2023
Introduzione, o il primo inserto di cronaca rosa di Stereo Totale

Le tende davanti alla finestra restano aperte per tutta la notte. Il sole si alza tardi, ma ultimamente mi sveglio stanco, molto prima che sorga, molto prima della sveglia. Non ho ben compreso questo fenomeno recente, ma ho una teoria: la vita va troppo in fretta e il mio corpo per compensare ha deciso, per conto suo, di regalarmi dei momenti di quiete mattutina. In francese si direbbe proprio un “cadeau empoisonné”, un regalo avvelenato. Nella mia stanza, dove la luce è quella di un crepuscolo al contrario, mi alzo prima del previsto con rassegnazione.

I grattacieli della Défense, nel passaggio della linea 13 sopra alla Senna, sono coperti di bruma. La gente si stringe il cappotto attorno al collo all’uscita della metropolitana, per proteggersi dalla ventata gelida dello sbocco d’aria. Nell’aria piovigginosa, in mezzo al viavai di automobili, nessuno dei volti che incrocio accenna un sorriso. La pioggia ticchetta sul soffitto a vetri dell’ufficio, alzo la testa dalla scrivania. Il cielo, dietro alle luci fredde dell’open air, è grigio e scuro. Butto giù un sorso del caffè amaro nella tazza, che ormai è freddo. Il telefono vibra e un messaggio su Whatsapp alleggerisce la situazione: “so pumped for tonight!!”. Finalmente qualcosa di un po’ rinfrancante: in questo periodo dell’anno dove le soddisfazioni sono brevi e passeggere e le delusioni sono un po’ più dolorose del normale, è una benedizione avere un’amica come Lauren l’Americana che mi spalleggia. Stasera però sono io a spalleggiarla. “meetup 7PM”, le rispondo.

Da un mese a questa parte Lauren mi chiede spessissimo se voglio andare a vedere i Grand Blanc. Non ho idea di chi siano e mi sento molto occupato di questi tempi, perciò faccio l’uomo di mondo e le do risposte equivoche tipo “vediamo dai”, “eh ci penso”, “boh dai ti dico”. Poi una settimanina prima del concerto mi chiede di accompagnarla con un tono di voce molto diverso da quello di chi ti propone di venire a sentire un gruppo che gli piace. Il suo “Please come with me to the concert” suona veramente come una richiesta di sostegno amicale, ed è troppo difficile da rifiutare. Per un concerto, si può fare. Ma perché la mia presenza è richiesta stasera? Non lo posso spiegare se non con una piccola licenza stilistica inaspettata, ovvero: il mio primo inserto di cronaca rosa. Prima di parlare di musica e di tutto quello che ci ruota attorno mi concederò perciò un paio di pettegolezzi.

Se dovessi descrivere Lauren in tre parole direi subito: piena di sorprese. I miei lettori più assidui l’hanno già incontrata: la californiana innamorata della musica francese degli anni ’70 che però si pompa i Deerhoof. Ma Lauren ha sempre tante soprese in serbo, di cui alcune giusto sbalorditive (non le chiedete chi ha votato alle elezioni, mi raccomando), altre di cui invece col tempo ci si abitua, tipo quando tira fuori dal nulla frasi come: “Ho incrociato l’ex-ministro della cultura, abbiamo fissato un appuntamento per parlare di musica”. Tra questi aneddoti talmente sopra le righe che ormai li diamo per scontati c'è una recente storia di passione con una personalità musicale francese decisamente inserita nei piani alti del musicbiz che, tra le tante, ha connessioni con il gruppo che suona stasera. 

Avrei risparmiato questi dettagli ai lettori ma so che la mia amica, sotto sotto, ama che si faccia un po di sano gossip. Inoltre, questa piccola parentesi illustra bene che al concerto dei Grand Blanc ci sono capitato più per caso che per un interesse musicale profondo. Ovviamente Lauren stasera un po’ vuole e un po’ non vuole rivedere il ragazzo in questione. “It’s complicated”, e i veri amici si vedono proprio quando le cose si fanno complicate.

***

Amori nervosi nel Palazzo dell’Ambient

Qualche giorno prima dello show mi metto ad esplorare la musica dei Grand Blanc. Sono un ottimo amico, per carità, ma non al punto di venire a un concerto di musica che non mi piace (quello mi è capitato di farlo quando ero un buon fidanzato: errore fatale). Mi convinco fin da subito che vale la pena di venire perché questi giovani di Metz (città più bella di Francia) non solo hanno pubblicato tre LP veramente validi, ma secondo me sono in odore di consacrazione. Il primo indizio che mi fa dire ciò è il biglietto, un po’ costosetto, per vederli suonare nell’immensa Gaîté Lyrique (dove ho visto gli Stereolab, per dire). Il secondo indizio è la loro traiettoria discografica recente. Ma andiamo per gradi.

Il primo full-lenght dei Grand Blanc, Mémoire Vive (2016) colpisce subito per il suo approccio synth-rock (mi concedo il neologismo) moderno senza essere avanguardista e nostalgico senza essere desueto. Le drum-machine pestone, i chitarroni e i sintetizzatori di ispirazione post-punk offrono una memorabile collezione di canzoni energetiche, cupe ma anche orecchiabili. Il termine “coldwave”, che non mi è mai stato troppo simpatico, si può applicare abbastanza serenamente al debutto dei Grand Blanc, visto il suo approccio grintoso e quasi aggressivo. Non si pensi però che è musica lugubre e squallida all’inverosimile, come quella di gruppi a cui è affibbiata la stessa etichetta (penso ai crudissimi Oi Boys, anche loro di Metz): al contrario, i raggi di luce sono frequenti e portano perlopiù un nome, quello della vocalist Camille Delvecchio, la cui voce purissima funziona benissimo in contrapposizione con quella ben più rude dell’altro cantante, Benoît David. Al secondo album dei Grand Blanc, il riuscitissimo Image au Mur (2018), la definizione “coldwave” sta già strettissima vista la sua sensibilità pop molto più pronunciata. Pur mantenendo le ritmiche fredde e la spinta rock anni ’80 del suo predecessore, l’album concede più di un momento radio-friendly e i tappetti sonori si fanno sempre più volentieri meno ombrosi, regalando tante incursioni in un nuovo reame di dream-pop molto originale nel conservare la sua essenza lorena, ovverosia contemplativa, un po’ austera e un po’ malinconica.

(Per inciso, la Lorena è la mia regione francese preferita in assoluto, ma ne parleremo semmai un’altra volta.)

Ed è qui che arriviamo al terzo album, Halo, uscito ad aprile 2023. L'ultima fatica dei “messins” mantiene la predisposizione dei loro lavori precedenti per orizzonti fonici atmosferici, ma fa la scommessa di esasperarla al massimo. Le drum machine sono quasi inesistenti, sostituite da arpeggi svolazzanti, e il suono della band che ha sempre brillato nell’alternanza di voci (quella femminile eterea ed ipnotica, quella maschile sanguigna e poetica), si sublima in un ambient-pop intimista, al contempo ricercato e “grand public”. Senza dubbio stasera, in un decoro di eccellenza, è questo nuovo abito dei Grand Blanc che sarà celebrato.

Curioso di vedere in cosa si sostanzia questo possibile nuovo fenomeno della musica francese, arrivo molto presto alla Gaîté Lyrique, vero e proprio palazzo nobiliare dalle colonne in porfido rosso, che affaccia su una piazzetta alberata della Parigi bene. Al suo interno, il sontuoso edificio si sviluppa più come uno spazio artistico multidisciplinare che come una sala concerti tradizionale. In compenso, c’è un bar prima dell’ingresso alla zona musica (che sciccheria!), perciò mi metto ad aspettare Lauren con una birra e ne approfitto per leggere la programmazione concertistica della Gaîté, a cui vengo molto di rado. Effettivamente, la proposta musicale è molto specifica e lontana dalle assi principali del mio gusto: tanta elettronica sperimentale (tra qualche giorno vengono Alessandro Cortini, Panda Bear e Sonic Boom), musica contemporanea (noto il passaggio di un’orchestra che suona Steve Reich), un po’ di noise-rock spigoloso e/o modulare (The Psychotic Monks a gennaio vengono a consacrarsi anche loro) e, quando si tratta di abbassare un po’ l’intellettualismo, grandi act elettronici popolari ma sempre un po’ “branchés” (Nicolas Jaar, Jacques, Flavien Berger etc). Una volta esplorata la programmazione del centro culturale, osservo le sue frequentazioni: stasera tanta gente giovane, dallo stile un po’ alternativo. E poi, beh, quel popolare musicista di cui vi parlavo prima, con cui incrocio per sbaglio lo sguardo, con imbarazzo.

Lauren arriva due minuti dopo. È tesissima, un fascio di nervi, e le tremano le mani. Talmente nervosa che anch’io, per proprietà transitiva, mi sento addosso un po’ di quel magone da innamorati. Ci ritroviamo al piano di sopra, al di là del controllo biglietti, a vagare tra l’anticamera, una grande sala bianca e moderna, e il secondo bar, uno stanzone sfarzoso con grandi vetrate e affreschi ottocenteschi. Più che vagare, stiamo evitando ogni tipo di contatto col capellone in questione. Persino i baristi, con cui proviamo ad essere il più scherzosi possibile (uno ha la maglia del Milan, un altro è uguale spiccicato ad Aphex Twin), sembrano accorgersi dello stress che emaniamo. Addirittura mi viene uno dei miei classici tic nervosi: comincio a cantare a ripetizione il ritornello della canzone che ho in testa, che visto il setting un po’ french touch è Daft Punk Is Playing At My House degli LCD Soundsystem.

Per distrarci, decidiamo di andare a vedere l’opening act. La sala dove c’è la musica è un grosso scatolone nero al quale si accede da pesantissime porte simil-depressurizzate. Al suo interno questa Zona architettonica di tarkovskiana memoria, dove la ricezione telefonica scompare nel nulla, appare smisuratamente grande, con soffitti altissimi. Un setting che, più che le sale concerto che frequento di solito, ricorda più il salone delle sonorizzazioni elettroacustiche dell’IRCAM, dove un paio di anni fa io e mio babbo andammo a vedere una composizione di Xenakis che ci lasciò più sdubbiati che altro. Passano pochi minuti, che spendiamo perlopiù a guardarci attorno paranoici, poi si spengono le luci. Il sipario si apre (!) e appaiono Adrien Pallot & Pierre Piezanowski, due musicisti che, con sintetizzatori e chitarra, propongono canzoni relativamente brevi di un’ambient nuda, cruda e senza grandi fronzoli. Non è spiacevole, ma non è né troppo originale né troppo coeso: in certi brani tutto si appoggia sul drone psichedelico (ve li ricordate i Mohave Triangles?), in altri ho l’impressione di ascoltare un vecchio progetto di William Basinski, o ancora degli Stars of the Lid… Sarà, o non ne capisco una mazza io, o davvero il concerto non è niente di eccezionale, o sono ancora un po’ sotto l’influenza stressata di Lauren. Probabilmente tutte e tre, fatto sta che dopo quindici o venti minuti perdo un po’ di interesse e propongo di andare a fumare. Facendoci strada tra la gente ovviamente mi trovo davanti la presenza di quel cavolo di chitarrista che ormai fa sussultare anche me.

Camminiamo per altri tre metri e poi prendo Lauren per le spalle e la guardo fissa negli occhi, tra le luci del palco e note lunghissime che impregnano l’aria. Sembra quella scena di Skins dove Tony e Sid si incontrano al concerto dei Crystal Castles.

“Have you seen him?”
“No, what?!”
“Sista, we fucking walked past him. He’s there. You go talk to him now.”
“Well…”
“I’ll wait for you at the exit.
Now go”.

***

Meravigliarsi per dimenticare tutto, la lezione di vita dei Grand Blanc

La nostra pausa sigaretta ha un’atmosfera strana. Il nervosismo ha lasciato spazio a più spaesamento che altro. Lauren ha spiccicato tre parole in croce con il ragazzo misterioso. Sono un po’ arrabbiato con me stesso per essere stato così duro e “forceur”, un po’ deluso da Lauren che se n’è uscita soltanto con un misero “Coucou, ça va?” e poi se n’è andata, un po’ preoccupato perché non so come si sente la mia amica, se triste, dispiaciuta o stizzita. Chiacchieriamo con gente a caso davanti alla Gaîté Lyrique per ammazzare il tempo e quel miscuglio di sentimenti che ci centrifugano dentro (a me a velocità standard, a lei biturbo). Come se non bastasse fa un freddo becco.

Non resisto più in quest’aria gelida e un po’ mogia, perciò torno dentro. Lascio Lauren fuori con gente che abbiamo appena conosciuto, le dico che ci vediamo dentro alla sala. Appena entro nel cubo della musica, però, mi rendo conto di quanto sia ambizioso il mio programma: c’è una quantità immane di gente. Ecco, adesso sono anche incazzato perché vedrò il concerto da lontano. Provo ad avvicinarmi quanto posso, arrivo a un punto quasi soddisfacente ma non del tutto. Poi un ronzio di synth. Si spengono le luci e il sipario si apre, ma non si vede praticamente nulla di quel che c’è sul palco. Il buio è fitto, non c’è campo e sbuffo di nuovo: mi tocca pure vederli da solo, i Grand Blanc. Poi si accendono le luci e tutti, ma proprio tutti i presenti, cacciamo un “oooh” di meraviglia tra i più rumorosi che abbia mai sentito in vita mia.

Sul palco c’è una cresta rocciosa altissima e splendida. In cima, a qualcosa come tre metri da terra, un’arpa sinuosa. Seduta su uno sgabello, Camille Delvecchio comincia a pizzicare melodie complesse e sbalorditive. Una presenza luminosa e paranormale, a metà tra l’inquietante fantasma e le visioni divine che atterriscono i viandanti. La sua voce, piano piano, passa da vocalizzi mistici a frasi sempre più udibili, come un corpo che ritorna alla vita dopo un secolo di sonno. Le sagome dei tre ragazzi sotto di lei sul palco si fanno sempre più nitide, la chitarra e le tastiere si sentono sempre di più. Il primo crescendo è estatico, e mi lascia a bocca aperta. Non ricordo di aver mai visto coesistere delicatezza ed intensità in maniera così naturale, è un miracolo di purezza. La canzone dovrebbe essere Pillule Bleue, ma se faccio errori di setlist non me ne vogliate: se di solito mi tengo vivo nella mente qualche elemento lirico o strumentale dei brani per poi poterli citare di nuovo nei miei live report, adesso non mi passa nemmeno nell’anticamera del cervello. Mi faccio soggiogare dallo sbigottimento, e scompare tutto: la solitudine, le delusioni, la stanchezza, le insicurezze. Un po’ scompaio anch’io.

Quel che segue è uno dei più bei concerti dell’anno. Delvecchio raggiunge i suoi compagni scendendo aggraziata dalle pareti rocciose, scenografia che, passato lo stupore iniziale, non appare più ultraterrena, ma molto elegante. L’affiatamente del gruppo, ora che sono tutti sullo stesso piano e che l’arpa ha lasciato spazio a una più sobria chitarra, è palese e toccante. Mi emoziono con Loon, ballata suadente come un canto di sirene, che parla di viaggi lontani avvolgendo la platea sotto a un manto di arpeggi, e melodie che si incrociano con una spontaneità tale da nasconderne anche l’intricatezza tecnica. Un’altra canzone di sette minuti che è passata veloce come un sospiro: il pubblico è quasi preoccupato di applaudire o urlare talmente l’aria rimane sospesa. Per fortuna Benoît David prende in mano la situazione e alleggerisce l’atmosfera raccontandoci un po’ della “lore” di Halo con una buffa voce sognante: i Grand Blanc che trovano l’ispirazione per il disco sul delta del Danubio in Romania, poi la trasformazione di una casa nel bosco (“les Parages”, i Paraggi) nel loro studio artistico e nella loro etichetta, le tante sessioni di registrazione all’aria aperta… Insomma, tutta una serie di storie suggestive che aggiungono ancora materia a quello che ormai sono convinto sarà il prossimo mito del pop alternativo francese.

E che ventata di aria fresca, se così fosse! Il sound di Halo ha una profondità inedita e tutta da scoprire: seppure le chitarre pizzicate e i sintetizzatori ambient sono le solide fondamenta di praticamente tutte le canzoni, le sorprese sono tante: penso alla coda quasi noise (a cui la voce di David si abbina benissimo) della struggente Orange, o ancora alle gentili distorsioni di Nuit des Temps e all’assolo di sassofono suonato dallo “special guest” Adrien Soleiman, sagoma sciamanica che spunta nell’ombra in cima ai pinnacoli dei Parages. E anche liricamente i loreni possono regalare tante emozioni insospettabili: nell’intro strabiliante di Ailleurs, con i suoi synth lancinanti (questi sì, un po’ “french touch”), la citazione a Françoise Hardy colpisce nell’anima all’insaputa: “Tous les garçons et les filles de mon âge”… È proprio mentre mi sto facendo accecare dal suo commovente ritornello che per magia Lauren mi ritrova. L’abbraccio che ci diamo, più che per la felicità di ritrovarci, è per quella di essere davanti a un fenomeno così splendido, un’aurora boreale sul palco che ci lascia senza parole. Ci diciamo: “Hey, this gig is…” “Yeah, it’s…” e non troviamo nemmeno l’aggettivo giusto. Appena i quattro di Metz escono dal palco rifiatiamo un po’ e possiamo cominciare a trovarne qualcuno: jawdropping, astounding, flabbergasting. E non abbiamo nemmeno ancora visto l’encore!

Un encore perfetto è un encore che ti vizia, e anche in questo i Grand Blanc dimostrano una maestria da veri grandi. Io vorrei sentire Belleville, composizione new-wave vivace con un poetico testo sull’asprezza della vita urbana (tutto rimanda al quartiere parigino, ma amo pensare che sia una strizzata d’occhio anche a quell’industriosa Belleville che sta sulle rive della Mosella). Mi convinco che, visto il sound e la tematica, non c’è spazio per un pezzo del genere in questo set, e rimango sorpresissimo di sentirla partire in un riarrangiamento soave e senza batteria. Questo mitico singolo di Image au Mur, nella sua versione soft, finisce inaspettatamente con un’esplosione di sintetizzatori conditi di feedback degna di shoegazers esperti, che ci spettina a dovere. Lauren, lei, voleva sentire Oiseaux, ma dopo una scossa elettrica del genere sembra improbabile di tornare alla delicatezza delle corde acustiche. Invece Delvecchio approfitta del frastuono appena consumatosi per riprendere posto all’arpa, come all’inizio, e chiudendo il cerchio riaccompagnarci progressivamente verso un ultimo, placido, lido sonoro dove tre chitarre possono disegnare il meraviglioso intreccio degli stormi di rondini nel cielo, dandoci un ultima, serena, estasi.

Il concerto è finito e tutto il pubblico è in visibilio. In una situazione normale direi a Lauren, forse con toni un po’ petulanti: “Eh sì, me lo sentivo proprio che questo era il loro concerto di consacrazione!”, ma non me la sento di dire nemmeno una parola. Mantengo solo un grande sorriso e biascico qualche: “Great, great”. La sensazione che ci sentiamo addosso, soprattutto, è un totale distacco da tutte le manfrine di inizio serata. La lezione di vita dei Grand Blanc è stata chiara, immediata ed efficace: l’immensità e la bellezza hanno il potere sovrannaturale di rimettere a fuoco le nostre ansie e difficoltà quotidiane, trasformandole in qualcosa di piccolo, se non irrisorio. Il concerto di stasera (sembrano stereotipi ma è vero) ci insegna che a volte per stare meglio con noi stessi c’è solo bisogno di ritrovarsi a tu per tu con la foresta, il crinale, la terra, gli uccelli, o persino i fiori (come ci ha insegnato poco fa Benoît David prima di attaccare Fleur). In assenza di elementi naturali, può bastare la dolcezza delle corde di metallo dell’arpa, il suono che esce dal legno della cassa di risonanza della chitarra o persino un synth ben calibrato su frequenze trascendentali. A suonarle, però, devono essere dita talentuose, e stasera quelle dei Grand Blanc ci hanno fatto il regalo di prestarle al servizio della nostra meraviglia. La meraviglia, sì, e un nuovo sentimento di pace.

È con una leggiadria inaspettata e che mi mette di buon umore che la mia amica del cuore va a parlare con quel ragazzo che tanto le piace mentre beviamo l’ultimo bicchiere. Sotto la luce sofisticata della hall della Gaîté Lyrique, getto anch’io uno sguardo più duraturo verso al chitarrista del cuore di Lauren: si vede che, nonostante passi la vita ad accompagnare famose cantanti su grandi palcoscenici, è una persona gentile e dolce. Niente di cui stupirsi visto che è anche amico dei Grand Blanc, che sembrano veramente dei pezzi di pane (questa la mia impressione anche quando li ho visti “in borghese” fuori dalla venue mentre ero in fila per entrare, intenti a confezionare il tenero foglio di ringraziamenti che hanno srotolato sul palco).

Torniamo a casa, entrambi verso il dipartimento 92, e la metro è sorprendentemente affollata ma, in pace con noi stessi come siamo, non ce ne accorgiamo nemmeno. Parliamo di come ci sentiamo ultimamente, di cosa vogliamo fare nei giorni seguenti. Lei chiederà un nuovo appuntamento al tipo che era tanto stressata di rivedere, io continuerò la mia vita di tutti i giorni e vedrò come va. Sono contento, quantomeno, di avere un’amica così speciale con cui condividere sia i momenti di angoscia e di smarrimento sia quelli di bellezza e serenità, sempre con la stessa vicinanza e la stessa fiducia. 

***

Conclusione

Sono le sei del mattino, il giorno dopo, quando mi sveglio ancora una volta assetato. Bevo dell’acqua, provo a riaddormentarmi, ma mi ritrovo a rigirarmi nel letto per un’ora. Ancora una volta, mi alzo con rassegnazione. La giornata sembra il clone di quella di ieri: i grattacieli nebbiosi della Défense sopra alla Senna, il vento freddo all’uscita della metro, i volti seri e incappucciati dei passanti, la pioggia sul vetro, il caffè freddo.

Una sola cosa è cambiata: dentro di me sento che da qualche parte, là fuori, ci sono amore e infinita bellezza. Basta questo a tenere viva una luce. Metto su la musica. Accenno un sorriso.