Grand Blanc live @La Gaîté Lyrique, Parigi, 30/11/2023 |
Le tende davanti alla finestra restano aperte per tutta la notte. Il sole si
alza tardi, ma ultimamente mi sveglio stanco, molto prima che sorga, molto
prima della sveglia. Non ho ben compreso questo fenomeno recente, ma ho una
teoria: la vita va troppo in fretta e il mio corpo per compensare ha deciso,
per conto suo, di regalarmi dei momenti di quiete mattutina. In francese si
direbbe proprio un “cadeau empoisonné”, un regalo avvelenato. Nella mia stanza,
dove la luce è quella di un crepuscolo al contrario, mi alzo prima del previsto
con rassegnazione.
I grattacieli della Défense, nel passaggio della linea 13 sopra alla Senna,
sono coperti di bruma. La gente si stringe il cappotto attorno al collo
all’uscita della metropolitana, per proteggersi dalla ventata gelida dello
sbocco d’aria. Nell’aria piovigginosa, in mezzo al viavai di automobili, nessuno
dei volti che incrocio accenna un sorriso. La pioggia ticchetta sul soffitto a
vetri dell’ufficio, alzo la testa dalla scrivania. Il cielo, dietro alle luci
fredde dell’open air, è grigio e scuro. Butto giù un sorso del caffè amaro
nella tazza, che ormai è freddo. Il telefono vibra e un messaggio su Whatsapp alleggerisce
la situazione: “so pumped for tonight!!”. Finalmente qualcosa di un po’
rinfrancante: in questo periodo dell’anno dove le soddisfazioni sono brevi e
passeggere e le delusioni sono un po’ più dolorose del normale, è una
benedizione avere un’amica come Lauren l’Americana che mi spalleggia. Stasera
però sono io a spalleggiarla. “meetup 7PM”, le rispondo.
Da un mese a questa parte Lauren mi chiede spessissimo se voglio andare a
vedere i Grand Blanc. Non ho idea di chi siano e mi sento molto occupato di
questi tempi, perciò faccio l’uomo di mondo e le do risposte equivoche tipo
“vediamo dai”, “eh ci penso”, “boh dai ti dico”. Poi una settimanina prima del
concerto mi chiede di accompagnarla con un tono di voce molto diverso da quello
di chi ti propone di venire a sentire un gruppo che gli piace. Il suo “Please
come with me to the concert” suona veramente come una richiesta di sostegno
amicale, ed è troppo difficile da rifiutare. Per un concerto, si può fare. Ma perché
la mia presenza è richiesta stasera? Non lo posso spiegare se non con una
piccola licenza stilistica inaspettata, ovvero: il mio primo inserto di cronaca
rosa. Prima di parlare di musica e di tutto quello che ci ruota attorno mi
concederò perciò un paio di pettegolezzi.
Se dovessi descrivere Lauren in tre parole direi subito: piena di sorprese. I miei lettori più assidui l’hanno già incontrata: la californiana innamorata della musica francese degli anni ’70 che però si pompa i Deerhoof. Ma Lauren ha sempre tante soprese in serbo, di cui alcune giusto sbalorditive (non le chiedete chi ha votato alle elezioni, mi raccomando), altre di cui invece col tempo ci si abitua, tipo quando tira fuori dal nulla frasi come: “Ho incrociato l’ex-ministro della cultura, abbiamo fissato un appuntamento per parlare di musica”. Tra questi aneddoti talmente sopra le righe che ormai li diamo per scontati c'è una recente storia di passione con una personalità musicale francese decisamente inserita nei piani alti del musicbiz che, tra le tante, ha connessioni con il gruppo che suona stasera.
Avrei risparmiato questi dettagli ai lettori ma so che la mia amica, sotto sotto, ama che si faccia un po’ di sano gossip. Inoltre, questa piccola parentesi illustra bene che al concerto dei Grand Blanc ci sono capitato più per caso che per un interesse musicale profondo. Ovviamente Lauren stasera un po’ vuole e un po’ non vuole rivedere il ragazzo in questione. “It’s complicated”, e i veri amici si vedono proprio quando le cose si fanno complicate.
***
Amori nervosi nel Palazzo dell’Ambient
Qualche giorno prima dello show mi metto ad esplorare la musica dei Grand
Blanc. Sono un ottimo amico, per carità, ma non al punto di venire a un
concerto di musica che non mi piace (quello mi è capitato di farlo quando ero
un buon fidanzato: errore fatale). Mi convinco fin da subito che vale la pena di
venire perché questi giovani di Metz (città più bella di Francia) non solo
hanno pubblicato tre LP veramente validi, ma secondo me sono in odore di consacrazione.
Il primo indizio che mi fa dire ciò è il biglietto, un po’ costosetto, per vederli
suonare nell’immensa Gaîté Lyrique (dove ho visto gli Stereolab, per dire). Il
secondo indizio è la loro traiettoria discografica recente. Ma andiamo per
gradi.
Il primo full-lenght dei Grand Blanc, Mémoire Vive (2016) colpisce subito per
il suo approccio synth-rock (mi concedo il neologismo) moderno senza essere
avanguardista e nostalgico senza essere desueto. Le drum-machine pestone, i chitarroni
e i sintetizzatori di ispirazione post-punk offrono una memorabile collezione
di canzoni energetiche, cupe ma anche orecchiabili. Il termine “coldwave”, che
non mi è mai stato troppo simpatico, si può applicare abbastanza serenamente al
debutto dei Grand Blanc, visto il suo approccio grintoso e quasi aggressivo. Non
si pensi però che è musica lugubre e squallida all’inverosimile, come quella di
gruppi a cui è affibbiata la stessa etichetta (penso ai crudissimi Oi Boys,
anche loro di Metz): al contrario, i raggi di luce sono frequenti e portano
perlopiù un nome, quello della vocalist Camille Delvecchio, la cui voce purissima funziona
benissimo in contrapposizione con quella ben più rude dell’altro cantante,
Benoît David. Al secondo album dei Grand Blanc, il riuscitissimo Image au Mur
(2018), la definizione “coldwave” sta già strettissima vista la sua sensibilità
pop molto più pronunciata. Pur mantenendo le ritmiche fredde e la spinta rock
anni ’80 del suo predecessore, l’album concede più di un momento radio-friendly
e i tappetti sonori si fanno sempre più volentieri meno ombrosi, regalando
tante incursioni in un nuovo reame di dream-pop molto originale nel
conservare la sua essenza lorena, ovverosia contemplativa, un po’ austera e un
po’ malinconica.
(Per inciso, la Lorena è la mia regione francese preferita in assoluto, ma
ne parleremo semmai un’altra volta.)
Ed è qui che arriviamo al terzo album, Halo, uscito ad aprile 2023. L'ultima
fatica dei “messins” mantiene la predisposizione dei loro lavori precedenti per
orizzonti fonici atmosferici, ma fa la scommessa di esasperarla al massimo. Le
drum machine sono quasi inesistenti, sostituite da arpeggi svolazzanti, e il
suono della band che ha sempre brillato nell’alternanza di voci (quella
femminile eterea ed ipnotica, quella maschile sanguigna e poetica), si sublima
in un ambient-pop intimista, al contempo ricercato e “grand public”. Senza
dubbio stasera, in un decoro di eccellenza, è questo nuovo abito dei Grand
Blanc che sarà celebrato.
Curioso di vedere in cosa si sostanzia questo possibile nuovo fenomeno
della musica francese, arrivo molto presto alla Gaîté Lyrique, vero e proprio palazzo
nobiliare dalle colonne in porfido rosso, che affaccia su una piazzetta
alberata della Parigi bene. Al suo interno, il sontuoso edificio si sviluppa
più come uno spazio artistico multidisciplinare che come una sala concerti
tradizionale. In compenso, c’è un bar prima dell’ingresso alla zona musica (che
sciccheria!), perciò mi metto ad aspettare Lauren con una birra e ne approfitto
per leggere la programmazione concertistica della Gaîté, a cui vengo molto di
rado. Effettivamente, la proposta musicale è molto specifica e lontana dalle
assi principali del mio gusto: tanta elettronica sperimentale (tra qualche
giorno vengono Alessandro Cortini, Panda Bear e Sonic Boom), musica
contemporanea (noto il passaggio di un’orchestra che suona Steve Reich), un po’ di noise-rock spigoloso e/o modulare (The Psychotic Monks a gennaio vengono a
consacrarsi anche loro) e, quando si tratta di abbassare un po’
l’intellettualismo, grandi act elettronici popolari ma sempre un po’ “branchés”
(Nicolas Jaar, Jacques, Flavien Berger etc). Una volta esplorata la
programmazione del centro culturale, osservo le sue frequentazioni: stasera
tanta gente giovane, dallo stile un po’ alternativo. E poi, beh, quel popolare
musicista di cui vi parlavo prima, con cui incrocio per sbaglio lo sguardo, con
imbarazzo.
Lauren arriva due minuti dopo. È tesissima, un fascio di nervi, e le
tremano le mani. Talmente nervosa che anch’io, per proprietà transitiva, mi
sento addosso un po’ di quel magone da innamorati. Ci ritroviamo al piano di
sopra, al di là del controllo biglietti, a vagare tra l’anticamera, una grande
sala bianca e moderna, e il secondo bar, uno stanzone sfarzoso con grandi
vetrate e affreschi ottocenteschi. Più che vagare, stiamo evitando ogni tipo di
contatto col capellone in questione. Persino i baristi, con cui proviamo ad
essere il più scherzosi possibile (uno ha la maglia del Milan, un altro è
uguale spiccicato ad Aphex Twin), sembrano accorgersi dello stress che emaniamo.
Addirittura mi viene uno dei miei classici tic nervosi: comincio a cantare a
ripetizione il ritornello della canzone che ho in testa, che visto il setting
un po’ french touch è Daft Punk Is Playing At My House degli LCD
Soundsystem.
Per distrarci, decidiamo di andare a vedere l’opening act. La sala dove c’è
la musica è un grosso scatolone nero al quale si accede da pesantissime porte
simil-depressurizzate. Al suo interno questa Zona architettonica di
tarkovskiana memoria, dove la ricezione telefonica scompare nel nulla, appare smisuratamente
grande, con soffitti altissimi. Un setting che, più che le sale concerto che
frequento di solito, ricorda più il salone delle sonorizzazioni elettroacustiche
dell’IRCAM, dove un paio di anni fa io e mio babbo andammo a vedere una
composizione di Xenakis che ci lasciò più sdubbiati che altro. Passano pochi
minuti, che spendiamo perlopiù a guardarci attorno paranoici, poi si spengono
le luci. Il sipario si apre (!) e appaiono Adrien Pallot & Pierre
Piezanowski, due musicisti che, con sintetizzatori e chitarra, propongono
canzoni relativamente brevi di un’ambient nuda, cruda e senza grandi fronzoli.
Non è spiacevole, ma non è né troppo originale né troppo coeso: in certi brani
tutto si appoggia sul drone psichedelico (ve li ricordate i Mohave Triangles?),
in altri ho l’impressione di ascoltare un vecchio progetto di William Basinski,
o ancora degli Stars of the Lid… Sarà, o non ne capisco una mazza io, o davvero
il concerto non è niente di eccezionale, o sono ancora un po’ sotto l’influenza
stressata di Lauren. Probabilmente tutte e tre, fatto sta che dopo quindici o
venti minuti perdo un po’ di interesse e propongo di andare a fumare. Facendoci
strada tra la gente ovviamente mi trovo davanti la presenza di quel cavolo di
chitarrista che ormai fa sussultare anche me.
Camminiamo per altri tre metri e poi prendo Lauren per le spalle e la
guardo fissa negli occhi, tra le luci del palco e note lunghissime che
impregnano l’aria. Sembra quella scena di Skins dove Tony e Sid si incontrano al
concerto dei Crystal Castles.
“Have you
seen him?”
“No, what?!”
“Sista, we fucking walked past him. He’s there. You go talk to him now.”
“Well…”
“I’ll wait for you at the exit. Now go”.
***
Meravigliarsi per dimenticare tutto, la lezione di
vita dei Grand Blanc
La nostra pausa sigaretta ha un’atmosfera strana. Il nervosismo ha lasciato
spazio a più spaesamento che altro. Lauren ha spiccicato tre parole in
croce con il ragazzo misterioso. Sono un po’ arrabbiato con me stesso per
essere stato così duro e “forceur”, un po’ deluso da Lauren che se n’è uscita
soltanto con un misero “Coucou, ça va?” e poi se n’è andata, un po’ preoccupato
perché non so come si sente la mia amica, se triste, dispiaciuta o stizzita.
Chiacchieriamo con gente a caso davanti alla Gaîté Lyrique per ammazzare il
tempo e quel miscuglio di sentimenti che ci centrifugano dentro (a me a
velocità standard, a lei biturbo). Come se non bastasse fa un freddo becco.
Non resisto più in quest’aria gelida e un po’ mogia, perciò torno dentro.
Lascio Lauren fuori con gente che abbiamo appena conosciuto, le dico che ci
vediamo dentro alla sala. Appena entro nel cubo della musica, però, mi rendo
conto di quanto sia ambizioso il mio programma: c’è una quantità immane di
gente. Ecco, adesso sono anche incazzato perché vedrò il concerto da lontano.
Provo ad avvicinarmi quanto posso, arrivo a un punto quasi soddisfacente ma non
del tutto. Poi un ronzio di synth. Si spengono le luci e il sipario si apre, ma
non si vede praticamente nulla di quel che c’è sul palco. Il buio è fitto, non
c’è campo e sbuffo di nuovo: mi tocca pure vederli da solo, i Grand Blanc. Poi
si accendono le luci e tutti, ma proprio tutti i presenti, cacciamo un “oooh” di meraviglia tra i più rumorosi che abbia mai sentito
in vita mia.
Sul palco c’è una cresta rocciosa altissima e splendida. In cima, a
qualcosa come tre metri da terra, un’arpa sinuosa. Seduta su uno sgabello,
Camille Delvecchio comincia a pizzicare melodie complesse e sbalorditive. Una
presenza luminosa e paranormale, a metà tra l’inquietante fantasma e le visioni
divine che atterriscono i viandanti. La sua voce, piano piano, passa da
vocalizzi mistici a frasi sempre più udibili, come un corpo che ritorna alla
vita dopo un secolo di sonno. Le sagome dei tre ragazzi sotto di lei sul palco
si fanno sempre più nitide, la chitarra e le tastiere si sentono sempre di più.
Il primo crescendo è estatico, e mi lascia a bocca aperta. Non ricordo di aver
mai visto coesistere delicatezza ed intensità in maniera così naturale, è un
miracolo di purezza. La canzone dovrebbe essere Pillule Bleue, ma se
faccio errori di setlist non me ne vogliate: se di solito mi tengo vivo nella
mente qualche elemento lirico o strumentale dei brani per poi poterli citare di
nuovo nei miei live report, adesso non mi passa nemmeno nell’anticamera del
cervello. Mi faccio soggiogare dallo sbigottimento, e scompare tutto: la
solitudine, le delusioni, la stanchezza, le insicurezze. Un po’ scompaio
anch’io.
Quel che segue è uno dei più bei concerti dell’anno. Delvecchio raggiunge i
suoi compagni scendendo aggraziata dalle pareti rocciose, scenografia che,
passato lo stupore iniziale, non appare più ultraterrena, ma molto elegante.
L’affiatamente del gruppo, ora che sono tutti sullo stesso piano e che l’arpa
ha lasciato spazio a una più sobria chitarra, è palese e toccante. Mi emoziono
con Loon, ballata suadente come un canto di sirene, che parla di viaggi
lontani avvolgendo la platea sotto a un manto di arpeggi, e melodie che si
incrociano con una spontaneità tale da nasconderne anche l’intricatezza
tecnica. Un’altra canzone di sette minuti che è passata veloce come un sospiro:
il pubblico è quasi preoccupato di applaudire o urlare talmente l’aria rimane
sospesa. Per fortuna Benoît David prende in mano la situazione e alleggerisce
l’atmosfera raccontandoci un po’ della “lore” di Halo con una buffa voce
sognante: i Grand Blanc che trovano l’ispirazione per il disco sul delta del
Danubio in Romania, poi la trasformazione di una casa nel bosco (“les Parages”,
i Paraggi) nel loro studio artistico e nella loro etichetta, le tante sessioni di
registrazione all’aria aperta… Insomma, tutta una serie di storie suggestive
che aggiungono ancora materia a quello che ormai sono convinto sarà il prossimo
mito del pop alternativo francese.
E che ventata di aria fresca, se così fosse! Il sound di Halo ha una
profondità inedita e tutta da scoprire: seppure le chitarre pizzicate e i
sintetizzatori ambient sono le solide fondamenta di praticamente tutte le
canzoni, le sorprese sono tante: penso alla coda quasi noise (a cui la voce di
David si abbina benissimo) della struggente Orange, o ancora alle
gentili distorsioni di Nuit des Temps e all’assolo di sassofono suonato
dallo “special guest” Adrien Soleiman, sagoma sciamanica che spunta nell’ombra
in cima ai pinnacoli dei Parages. E anche liricamente i loreni possono regalare
tante emozioni insospettabili: nell’intro strabiliante di Ailleurs, con i
suoi synth lancinanti (questi sì, un po’ “french touch”), la citazione a Françoise
Hardy colpisce nell’anima all’insaputa: “Tous les garçons et les filles de mon
âge”… È proprio mentre mi sto facendo accecare dal suo commovente ritornello
che per magia Lauren mi ritrova. L’abbraccio che ci diamo, più che per la
felicità di ritrovarci, è per quella di essere davanti a un fenomeno così
splendido, un’aurora boreale sul palco che ci lascia senza parole. Ci diciamo:
“Hey, this gig is…” “Yeah, it’s…” e non troviamo nemmeno l’aggettivo giusto.
Appena i quattro di Metz escono dal palco rifiatiamo un po’ e possiamo
cominciare a trovarne qualcuno: jawdropping, astounding, flabbergasting. E non
abbiamo nemmeno ancora visto l’encore!
Un encore perfetto è un encore che ti vizia, e anche in questo i Grand
Blanc dimostrano una maestria da veri grandi. Io vorrei sentire Belleville,
composizione new-wave vivace con un poetico testo sull’asprezza della vita urbana (tutto rimanda al quartiere parigino,
ma amo pensare che sia una strizzata d’occhio anche a quell’industriosa
Belleville che sta sulle rive della Mosella). Mi convinco che, visto il sound e
la tematica, non c’è spazio per un pezzo del genere in questo set, e rimango
sorpresissimo di sentirla partire in un riarrangiamento soave e senza batteria.
Questo mitico singolo di Image au Mur, nella sua versione soft, finisce
inaspettatamente con un’esplosione di sintetizzatori conditi di feedback degna
di shoegazers esperti, che ci spettina a dovere. Lauren, lei, voleva
sentire Oiseaux, ma dopo una scossa elettrica del genere sembra
improbabile di tornare alla delicatezza delle corde acustiche. Invece Delvecchio
approfitta del frastuono appena consumatosi per riprendere posto all’arpa, come
all’inizio, e chiudendo il cerchio riaccompagnarci progressivamente verso un
ultimo, placido, lido sonoro dove tre chitarre possono disegnare il
meraviglioso intreccio degli stormi di rondini nel cielo, dandoci un ultima,
serena, estasi.
Il concerto è finito e tutto il pubblico è in visibilio. In una situazione
normale direi a Lauren, forse con toni un po’ petulanti: “Eh sì, me lo sentivo proprio
che questo era il loro concerto di consacrazione!”, ma non me la sento di dire
nemmeno una parola. Mantengo solo un grande sorriso e biascico qualche: “Great,
great”. La sensazione che ci sentiamo addosso, soprattutto, è un totale
distacco da tutte le manfrine di inizio serata. La lezione di vita dei Grand
Blanc è stata chiara, immediata ed efficace: l’immensità e la bellezza hanno il
potere sovrannaturale di rimettere a fuoco le nostre ansie e difficoltà
quotidiane, trasformandole in qualcosa di piccolo, se non irrisorio. Il
concerto di stasera (sembrano stereotipi ma è vero) ci insegna che a volte per
stare meglio con noi stessi c’è solo bisogno di ritrovarsi a tu per tu con la
foresta, il crinale, la terra, gli uccelli, o persino i fiori (come ci ha
insegnato poco fa Benoît David prima di attaccare Fleur). In assenza di elementi
naturali, può bastare la dolcezza delle corde di metallo dell’arpa, il suono
che esce dal legno della cassa di risonanza della chitarra o persino un synth ben
calibrato su frequenze trascendentali. A suonarle, però, devono essere dita
talentuose, e stasera quelle dei Grand Blanc ci hanno fatto il regalo di
prestarle al servizio della nostra meraviglia. La meraviglia, sì, e un nuovo
sentimento di pace.
È con una leggiadria inaspettata e che mi mette di buon umore che la mia
amica del cuore va a parlare con quel ragazzo che tanto le piace mentre beviamo
l’ultimo bicchiere. Sotto la luce sofisticata della hall della Gaîté Lyrique,
getto anch’io uno sguardo più duraturo verso al chitarrista del cuore di
Lauren: si vede che, nonostante passi la vita ad accompagnare famose cantanti
su grandi palcoscenici, è una persona gentile e dolce. Niente di cui stupirsi
visto che è anche amico dei Grand Blanc, che sembrano veramente dei pezzi di
pane (questa la mia impressione anche quando li ho visti “in borghese” fuori dalla venue mentre ero in fila per
entrare, intenti a confezionare il tenero foglio di ringraziamenti che hanno
srotolato sul palco).
Torniamo a casa, entrambi verso il dipartimento 92, e la metro è
sorprendentemente affollata ma, in pace con noi stessi come siamo, non ce ne
accorgiamo nemmeno. Parliamo di come ci sentiamo ultimamente, di cosa vogliamo
fare nei giorni seguenti. Lei chiederà un nuovo appuntamento al tipo che era
tanto stressata di rivedere, io continuerò la mia vita di tutti i giorni e
vedrò come va. Sono contento, quantomeno, di avere un’amica così speciale con
cui condividere sia i momenti di angoscia e di smarrimento sia quelli di
bellezza e serenità, sempre con la stessa vicinanza e la stessa fiducia.
***
Conclusione
Sono le sei del mattino, il giorno dopo, quando mi sveglio ancora una volta assetato. Bevo dell’acqua, provo a riaddormentarmi, ma mi ritrovo a rigirarmi nel letto per un’ora. Ancora una volta, mi alzo con rassegnazione. La giornata sembra il clone di quella di ieri: i grattacieli nebbiosi della Défense sopra alla Senna, il vento freddo all’uscita della metro, i volti seri e incappucciati dei passanti, la pioggia sul vetro, il caffè freddo.
Una sola cosa è cambiata: dentro di me sento che da qualche parte, là fuori, ci sono amore e infinita bellezza. Basta questo a tenere viva una luce. Metto su la musica. Accenno un sorriso.
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