giovedì 23 maggio 2024

Adulti ma mai troppo - Johnnie Carwash, il dopolavoro pop-punk che ti insegna la vita (Special guest: Altwain)

Johnnie Carwash live @La Boule Noire, Parigi, 16/05/2024

Introduzione

I contratti sono stati firmati in gran fretta. Alle 16:44 parte il treno che mi porta dalle profondità del Passo di Calais fino a Parigi, e io con il mio stagista sono stato inderogabile sugli orari. “Vabbè, il ritorno lo compriamo quando abbiamo finito l’appuntamento, no?”, mi ha chiesto. “Ah no”, gli ho risposto con fare da businessman, “Proprio no. Io devo assolutamente montare su quello delle 16:44. Ho impegni in città stasera”. Il ragazzo deve davvero vedermi come un venditore di un certo livello, penso mentre firmo copie su copie di promesse di affitto di parcelle agricole o mentre, ridendo e facendo l’amicone col simpatico contadino nordico, gli lancio un paio di sguardi di sbieco per controllare che stia verificando bene se tutte le pagine sono siglate a dovere. Strette di mano, biglietti da visita, promesse e frasi di circostanza. “Scusate, dobbiamo scappare”; “Grazie mille per la fiducia”; “Vi richiamerò senza dubbio non appena il progetto avanza”; “Alla prossima, spero”. Per un attimo, un attimo solo, tutto sembra ridicolo. Poi monto in macchina e, salutando con la manina, usciamo dalla fattoria. Mi giro verso il mio assistente. “Dieci ettari in one-shot? Let’s fucking goooo!”.

La mia sguaiata esultanza mi rivela qualcosa a cui non so come reagire. Ho appena avuto una scarica di adrenalina dovuta al fatto di essere riuscito a far firmare dei contratti a un cliente in relativa efficacia, e la cosa non riesce ad avere un senso immediato nella mia testa. Sono un po’ tramortito da questa piccola rivelazione: allora è questa la vita adulta? Mi riscuoto e me ne frego, sono comunque troppo contento: contento di non dover stare dietro a questo signore, chissà per quanto tempo, per dirimere le formalità e andare alla firma; contento di essere stato due giorni lontano da Parigi, mangiando un po’ male e dormendo in una città del cazzo, ma tornare a casa con qualcosa di concreto tra le mani; contento, perché no, di avvicinarmi un po’ di più al bonus aziendale di fine anno, grazie a questo documento che attesta della qualità e quantità del mio lavoro. Guadagnare tempo, soldi, fiducia in me: ragioni di gioire nobili, per carità, ma talmente seriose e responsabili…

Sentendomi un po’ in imbarazzo con me stesso, chiedo allo stagista se vuole mettere lui la musica. Il lavoro è finito, si torna a casa, e dopo due giorni che in macchina lo ammorbo con Nirvana, Superchunk e Shellac gli concedo questa regalia. Mette i Green Day. I Green Day sbagliati, ma pur sempre i Green Day. Uno dei gruppi più adolescenziali di sempre. Non può essere un caso. Accelero e mi prometto che stasera faccio baldoria.

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Piccoli piaceri da adulto, grandi dispiaceri da ragazzino

Poche cose mi rendevano contento, da ragazzo, come fare qualcosa di festoso il sabato sera. La settimana era lunga e uscire da scuola dopo quei sei giorni di durissima simil-prigionia, consapevole che la notte avrebbe portato rumore, ebbrezza e risate, era la sensazione di libertà definitiva. Ora che sono un onesto commerciale e ho obblighi meno stringenti su cosa fare del mio tempo e su dove passarlo, capita che la serata di festa che segue una settimana faticosa non assuma tanto i contorni dell’emancipazione giovanile quanto quelli di uno sfogo un po’ working-class: ci si rivendica il diritto di abbandonare la professionalità, o ancora la necessità di accantonare un modo di fare e di essere tristemente produttivista, per anzi regredire e dedicarsi ad attività magari non distruttive, ma di certo non a valore aggiunto: urlare, ballare, scatenarsi, dire cose stupide, bere. Lo ammetto, quel classico: “Ho sgobbato come un mulo, stasera mi dilanio” scevro di qualsivoglia pulsione romantica a volte me lo sento proprio mio e stasera, dopo quattro giornate di fila a girare per piccoli comuni di campagna, ho l’impressione di meritarmelo proprio. Pure se è giovedì.

Va detta un’altra cosa, però: il mood da lavoratore casinista ha più controindicazioni di quello da studente che esce dalla gabbia. In particolare, va detto che lo sfogo dell’impiegato, se lo svago è ben predisposto ma l’umore è cattivo, corre talvolta il rischio di trasformarsi in un tour de force di tristezza alcolica (quantomeno, nelle serate di gioventù il calore dell’amicizia si faceva sempre un po’ sentire). Ho predisposto praticamente tutta la settimana e tutti i suoi infiniti appuntamenti professionali intorno alla ricompensa che è il concerto di stasera: sarebbe un peccato arrivarci mesto, no? Ma il destino vuole che ultimamente io stia suonando molto in una band con la mia amica Lauren e in qualche modo questa convivenza forzata stia portando con sé un ciclo di piccole litigate e immediate riappacificazioni di certo non malsano, anzi, ma dal sapore quantomeno amarognolo. Mentre sono sull’autobus per tornare a casa dalla stazione e cambiarmi (la tenuta “rural business” per andare in città a far festa è troppo anche per me che non tengo allo stile) finisce che le scrivo un messaggio scherzoso, uno sfottò a cuor leggero, e ricevo in risposta un lapidario: “Puoi smetterla di dirmi cose veramente poco gentili?”. Non entro nel dettaglio del malinteso in questione ma, onde trasmettere un’idea del mio stato mentale mentre mi sto preparando a uscire, vi riporto un paio di filamenti dei flussi di coscienza, tutti un po’ diversi, che partono nella mia mente:

1) Vittimismo: “Ma possibile che noi toscani ogni volta che scriviamo una cosa ironica per ridere finisce che gli stranieri ci prendono per degli stronzi patentati?”

2) Giustificazione: “Ok, non ho trovato una formulazione felice, però cazzarola, si vede che non volevo essere cattivo.”

3) Disprezzo di sé: “No, ma in realtà il problema è che non sono proprio capace di comunicare.”

4) Vendetta: “Certo che quando eravamo alle prove ed ho letto che era morto Steve Albini lei nemmeno si è accorta di quanto ci fossi rimasto male, anzi, non ha proprio capito la situazione. Eppure mi ero spiegato benissimo, avevo parlato di tutte quelle volte che ho visto gli Shellac, e poi la sera quando ho detto ‘Shellac’ mi ha chiesto di cosa parlassi… Me la sono legata al dito. Adesso almeno siamo pari.”

Finisce che arrivo alla Boule Noire col muso e un po’ alticcio (il pastis casereccio era per risparmiare soldi per il merch, non mi giudicate). Nella mia testa ci sono due poli di emozioni contrastanti: da un lato questa volontà di staccare, distrarmi e dimenticare che testimonia del mio ingresso nella vita adulta, dall’altro quel turbinio di sensi di colpa, tristezza e risentimento che fin da adolescente torna sempre a far capolino quando ho paura di perdere gli amici che considero fratelli per la vita. Stasera alla Boule Noire suona un gruppo che amo. Si chiamano Johnnie Carwash, suonano un pop-punk dalle influenze indie e twee ma tremendamente elettrico e potente. Questa band ha pubblicato due album, e guarda caso il primo si chiama Teenage Ends, il secondo No Friends No Pain. Bastano anche solo questi due titoli per capire che, nella loro musica, la mia vita ci si riflette abbastanza. 

Se vi è già capitato di leggere uno dei miei panettoni in prosa ormai sapete che andare ai concerti da solo è una pratica il cui mio apprezzamento spazia dal “non mi dà fastidio” al “mi fa un immenso piacere”. Ecco, in alcune rarissime situazioni lo spettro si allarga e arriva a includere il “mi fa girare i coglioni”, e oggi è una di quelle. Sarà che davo per scontata la presenza di Théo e Maxime, che invece ho scoperto assenti poche ore fa. Sarà che tra una storia e l’altra arrivo a pelo per l’opener (in teoria sarei in ritardo) e non posso nemmeno gironzolare e scambiare due chiacchiere con chicchessia perché la stanza è già buia (conosco, toh, giusto la barista, che mi serve una birra che meriterebbe già di essere l’ultima). Sarà che, in generale, quel che mi trasmette anzitutto la musica di Johnnie Carwash è un certo sentimento di comunanza e complicità che stasera per me si trova da tutt'altra parte.

Quando ho visto il trio lionese nell’estrema periferia parigina, anni fa ormai, in una serata dei Pogo Car Crash Control gremita di gente, ero rimasto particolarmente stupito di quanto il loro riffing coloratissimo e le loro ritmiche superveloci riuscissero in qualche modo a rendere il pubblico coeso, in un pogo furibondo quanto profondamente tenero. Ho ricordo di vedere gente abbracciarsi in mezzo al macello generale, e la cosa ha completamente senso: tutto, in quel che suonano Johnnie Carwash, richiama quelli che considero i capisaldi di ciò che si condivide in un rapporto di amicizia: racconti di dure storie di vita vissuta (tipo quando ti hanno offesa perché indossavi una Slut Skirt), confessioni di problemi sentimentali (Francis Cosmic, il tumulto di una cotta fatto canzone), ma soprattutto l’ammissione delle proprie fragilità (penso a Junk Food, inno dell’autocommiserazione alimentare che dopo le dosi ingenti di patatine fritte degli ultimi giorni sento molto vicino). Persino nella sua identità sonora, la band non fa che evocare col suo dolce rumore le sensazioni di fratellanza che rendono la vita degna di essere vissuta: ogni idiosincrasia sembra quasi una “running gag” tra amici, e perciò i gorgheggi della cantante Manon Tsaheli (quante melodie istantanee che possono essere trascritte solo con: uh-uh-uh-uh-uh-uh), le pause ritmiche calibrate alla perfezione e i finali a sorpresa sono tante delle piccole cose che, come in una bella amicizia, in superficie sembrano solo una piccola dispensa di simpatia ma in realtà costruiscono le fondamenta del sound, o dello stare bene insieme. 

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Altwain: indie rock, tu sì che mi capisci

Ecco, tutte queste cose stasera le sento lontane: non ho nessuno con cui fare una battutina del cazzo, condividere un mio dispiacere, magari scherzando e alzando le spalle ma facendo capire che a volte non è facile. Sono solo davanti a quattro sconosciuti che fanno l’opening act perciò faccio una cosa che ho sempre saputo fare: subire. Quello che arriva alle mie orecchie però ha il potere di rinfrancarmi senza nemmeno toccarmi. Immagini un po’ sfocate degli anni ’90 che non ho veramente vissuto mi scorrono davanti senza nemmeno chiedere il permesso a ogni strummata di chitarra, o a ogni nota lunga in cui il cantante non nasconde la voce un po’ lamentosa, e in queste istantanee intravedo qualcosa di inaspettato: un sorriso. L’indie rock in purezza, intimista e un po’ fragile, mi sorride e mi dice una cosa che ho sempre saputo ma che è sempre bene ricordare: lui mi capisce, e per me ci sarà sempre. Ci vuole così poco, a volte.

Il quartetto che mi sta risollevando il morale, scopro dopo la ballata più accattivante che ho sentito negli ultimi mesi (I Fall Behind, che suona come una versione da scantinato, nel senso più positivo possibile, di un pezzo di Darklands di Jesus & Mary Chain), in realtà è una one-man-band. Il ragazzo che canta ha registrato da solo un disco (in maniera deliziosamente lo-fi, scopro poi con piacere) e ha deciso di portare al pubblico la sua musica avvalendosi di musicisti usciti da band di tutto rispetto (una di loro suona con Irini Mons, che secondo fonti confidenziali sarebbe il gruppo francese del momento). I pezzi del recente EP Waltz of the Blades suonano da dio nell’impianto della Boule Noire, e trasmettono un’energia emozionale travolgente oltre che una passione smodata e mai celata per il rock dei nineties, il mio (il nostro) preferito. Le canzoni, soprattutto, sono scritte proprio bene e hanno sia una sonorità un po’ retrò che un effetto novità difficile da spiegare: mi verrebbe quasi da dire, con una battuta un po’ sarcastica, che Altwain sono i nuovi vecchi Hoorsees, anche se un po’ più emo e meno festaioli della band parigina che ci regalò A Superior Athlete. Il concerto scorre fresco come un balsamo di tigre sulle mie piccole contusioni interiori, con vari momenti salienti: il Waltz of the Blades in questione, che altro non è che uno slacker rock in tre quarti oscillante quanto schietto, o ancora U Feel Fine, una bomba jangle-pop che, pur essendo sorprendentemente convoluta per il suo genere, ha un impatto roboante.

L’highlight del set, però, è indubbiamente Elliott, canzone dedicata a Elliott Smith nel principio ma, stasera, a Steve Albini. E Altwain, mentre io urlo un po' troppo forte, lo rimarca bene: “Domani nuovo album”, e chi come me l’album in questione lo aspettava da tempo e si ritroverà ad ascoltarlo con uno spirito diverso da quello previsto, semplicemente, sa. L’intro di basso mogia, le corde tese di una chitarra solista sghemba e dal sapore fatato (nel senso di Pixies), la voce che si fa sempre più svuota-polmoni: è tutto molto intenso e chi vuole, se vuole, può vederci uno o più messaggi sulla vita: non si è mai soli, essere tristi è ok, la vita continua e altre banalità che raramente si ha il coraggio di ammettere che banalità non sono. Così com’è l’indie rock: anche il più basilare, il più dritto al punto, senza contaminazioni o influenze esoteriche, senza grandi tecnicismi, che potrebbe essere uscito trent’anni fa e nessuno se ne accorgerebbe, lo si può accusare quanto si vuole di essere banale ma, quand’è fatto bene, non lo sarà mai veramente. E, proprio alla fine del concerto, sento Altwain descrivere un fantasmatico Elliot Smith con le parole: “Messy hair”. Messy Hair era il nome di un show radiofonico di sola musica anni ’90 che tenevo qualche anno fa. Non può essere un caso.

Applaudo, esco dal locale e fa ancora giorno. Fumo una sigaretta e mi accorgo che non sono nemmeno più scazzato. Sono solo un po’ su di giri, perché è quattro giorni che mi vesto da adulto, vendo le performance di un’azienda di pale eoliche a sindaci di villaggi sperduti e firmo contratti. Perché è proprio arrivata l’ora di staccare da tutta questa compostezza. Mi sa che è ora di andare a dilaniarsi.

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Johnnie Carwash: perché noi adulti abbiamo bisogno di pop-punk

In una Boule Noire parecchio pigiata (ebbene sì, sold out) mi approccio a rivedere, finalmente, uno dei miei gruppi del cuore. Non l’ho ancora detto, ma Johnnie Carwash sono una delle band francesi che ascolto di più in assoluto. Quando ho scoperto Teenage Ends nel 2022 è stata una piccola rivelazione: è stato un po’ come avere, dopo anni di bianco e nero, un nuovo punk a colori. In quest’anno domini 2024, il fenomenale No Friends No Pain è venuto a riconfermare la tendenza: i lionesi sono semplicemente di un livello superiore. Non succede così spesso di trovare una band così estrosa, sincera e piena di vita, dal suono così coeso ma che non sembra mai voler rispettare dei canoni preimposti (le canzoni, ad esempio, sono a volte caramelline da nemmeno due minuti, a volte epiche da più di quattro, e in nessuno dei due casi è una forzatura). Soprattutto, non succede quasi mai in un genere che, suo malgrado, è tra i più manieristi e artefatti al mondo: il cazzo di pop-punk. Sia chiaro, io amo il pop-punk, anzi: una delle prime volte che mi sono sentito davvero adulto è stato proprio quando, piallandomi un disco dei Saves the Day mentre bazzicavo Excel, mi sono accorto che durante la mia adolescenza, quella vera, di musica così ne avevo ascoltata troppo poca. Ciò che mi rende ultra-selettivo in materia di pop-punk, però, è soprattutto una questione di natura matematica: il problema della teoria commutativa.

Quanti sono i gruppi che ho provato ad ascoltare a fondo, non riuscendo mai a entrarci dentro perché, purtroppo, cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia! Posso fare degli esempi: Suffer dei Bad Religion, che in teoria è un capolavoro del suo genere, è un disco che non posso soffrire (ahah) perché mi dà costantemente l’impressione essere preso per il culo da una band che ha una bagaglio di idee musicali miserrimo ma che è bravissima a riproporle a ruota per farle sembrare un “signature sound” (diceva un grande cuoco veneto: “Stessa merda de prima, disposta in modo diverso”); un gruppo come gli Anti-Flag, che invece le canzoni interessanti le sapevano scrivere, possono anche sciorinarmi un universo sonico tutto nuovo ma bastano pochi minuti di ascolto affinché le infinite invettive politiche di Justin Sane diventino indistinguibili da un Ugandan Knuckles qualsiasi che mi urla nelle orecchie: “El gobierno te miente”!

I gruppi pop-punk che amo, perciò, fanno essenzialmente parte di due categorie: ci sono quelli che sono talmente originali nel sound che non mi importa che siano ripetitivi (penso ad esempio ai Cigar, che suonano in modo talmente rischioso da far passare il songwriting in secondo piano), oppure quelli che magari hanno un sound semplice ma sanno accostargli una giusta varietà stilistica e tematica (dite quello che vi pare, ma il periodo d’oro ’99-’01 dei Blink-182 altro non rappresenta che questa maestria ed equilibrio). Cosa succede quando i due fattori (sound strabiliante; capacità di saper svariare) si sommano? Penso che l’esempio chiave siano i Descendents, un gruppo talmente fondamentale che me lo sono tatuato sulle gambe. Poco sotto, ci sono Johnnie Carwash. Per farvi capire il livello.

E quando vedo gruppi di questo tipo in concerto è come se fossi travolto da un’incontrollabile alluvione di buonumore. Mi mette di estremo buonumore il fatto che, come ai concerti degli anni ’50, ci sia un presentatore: Johnny Chômage, un sedicente hard-rocker tutto cuoio che annuncia la band come se parlasse di personaggi mitologici; mi mette di buonumore il setup: il batterista Maxime Frain, tra i più impressionanti in circolazione, picchia talmente tanto sul suo ride/crash che non ha neanche bisogno di metterci un panoramico vicino, basta il microfono del bassista Bastien Boudet (che fa le seconde voci su un panoramico: what the fuck?); mi mettono di buonumore gli abiti che sono tutto tranne che da veri duri: una salopette “sotto la quale gira la voce che non ci sia nulla”, un paio di shorts da bagno, un abito rosso da pic-nic sul lungo-Saona. Ma quando parte la musica mi accorgo che c’è altro, oltre al buonumore. Ci sono i riff e le melodie, c’è il rumore, c’è l’energia, distillati con sapienza e inebrianti. Ma ci sono anche i testi.

C’è, ad esempio, l’accettazione della propria condizione, qualsiasi essa sia. I’m a Mess? Sì, a volte sì: sono mezzo ubriaco, da solo, fuori c’è ancora il sole e domani in teoria lavoro ancora. Stuck in my Head? Beh, sì: mi è bastato irritare brevemente una persona per diventare tutto un’elucubrazione. Anxiety? Mi capita: poco fa ero convinto che la serata sarebbe finita a guardare il mosh-pit da un angolino e tornare a casa completamente depresso. È incredibile come cantare a squarciagola i ritornelli di queste canzoni, dalle melodie semplici e viscerali, abbia un effetto terapeutico sui propri malesseri.  Ma la musica di Johnnie Carwash non è solo coscienza di sé. Sono, come dicevo anche prima, i racconti dei momenti tra i peggiori della nostra vita che ci fanno dire: “Dai, tutto sommato potrebbe andarmi di peggio” (“Public Toilet you’re so closed / I hate you you are the worst”). È affrontare con audacia i nostri peggiori imbarazzi, quelli che a distanza di anni ci fanno ancora bestemmiare dal nulla quando ci ricordiamo di quanto siamo stati ridicoli (Napoléon mi ricorda troppo una rara volta che a scuola rifiutai il corteggiamento di una ragazzina cotta di me; e, per fortuna un po’ meno, delle svariate volte che è successo il contrario). È anche scavare in questi ricordi e in questi sentimenti più infantili e scoprire che alla fine non siamo poi così tanto cambiati (I Wanna Be In Your Band racconta di quel misto tra ammirazione e invidia nei confronti della gente “cool” che ci circonda; un po’ l’ho pensato anche stasera, mentre fumavo da solo e, vedendo certi personaggi ricorrenti ridere in circolo, mi sono detto: “Loro non lo sanno che c’è un tizio che scrive mallopponi in italiano sulle loro serate”).

E poi, infine, la musica di Johnnie Carwash è puro e semplice benessere: è pensare a un sole che sorride mentre ululiamo le melodie di Sunshine (l’intro più svergognata nella storia dei sophomore albums: le linee vocali di Tsaheli sono semplicemente geniali); è cantare cori iconici saltando da tutte le parti (è mai riuscita a non funzionare U Want Me Dead, la prima canzone di Johnnie?); sono le tastiere suonate dal batterista in U’re a Dog, che fanno pensare a vecchi videogiochi della nostra infanzia. È anche, ogni tanto, rallentare, riprendere il fiato e ammirare la vita da lontano, come nella bellissima e toccante WALIAG, dolce ballata indie pop che in mezzo a una tempesta di BPM vertiginosi e distorsioni assassine riesce a non stonare affatto.

Può sembrare un controsenso, ma è la musica più adolescenziale che esista che ci può fornire gli strumenti per vivere bene le difficoltà del passaggio all’età adulta. Ammettere i nostri problemi e i nostri errori, relativizzare, rifiatare, stare bene con noi stessi sono cose di cui, crescendo, si ha sempre più bisogno. E il buon pop-punk, queste cose, ce le può dare tutte. Ma soprattutto, il buon pop-punk ci ricorda sempre che, alla fine, non bisogna avere paura di invecchiare, finché riusciamo ad accettare noi stessi. Perché, come ho già avuto modo di affermare in passato, in noi stessi resterà sempre, finché lo vorremo, almeno una piccola parte di pura emozione adolescenziale.

Ma non basta. A volte ci vuole anche un po’ di sano menefreghismo che ci aiuta a non farci abbattere troppo dalle fatiche del lavoro, dagli scazzi con gli amici, o da tutte le altre cose da adulti. Ci pensa la sequenza finale del concerto di Johnnie Carwash a riassumere questa filosofia: Teenage Ends, certo. Ma I Don’t Give a Shit.

Non può essere un caso. 

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Conclusione

Qualche parola per concludere, anche se non ce n’è bisogno.

Uno: mi scuso per la qualità orripilante della foto che ho fatto. Ho imparato di nuovo, dopo l’episodio Mary Bell, che dalla Boule Noire è praticamente impossibile uscire con del materiale audiovisuale decente. Tanto peggio.

Due: ringrazio la gioventù del comune di Barga per avermi imprestato l’espressione, anche se non gli ho fatto onore: non si dice “dilaniarsi” ma “dilaniassi”. Per chi si preoccupa per me, mi sono dilaniato, sì, ma con responsabilità e moderazione. Il giorno dopo ho persino lavorato discretamente bene. 

Tre: Steve Albini avrebbe sicuramente disprezzato quest’articolo, e a me avrebbe fatto piacere. Per quanto poco può valere, dedico tutte le mie parole ed emozioni alla sua memoria.

Ultima cosa: quest’estate, a un festival vicino ad Albi, Johnnie Carwash suonano lo stesso giorno dei Descendents. Ripetermi così tanto diventa quasi ridicolo ma porca vacca, non può veramente essere solo un caso. 

Ci vediamo lì.