martedì 21 novembre 2023

Life Lately (Novembre 2023) - Alfa Mist, Deerhoof, Superchunk, The Magnetic Fields, Fucked Up


Dal momento dell’apertura del blog di Stereo Totale ad ora ho vissuto una “winning streak” perfetta. Scrivere, in quantità e con ispirazione, non mi era mai stato così facile. Ovviamente, c’è un trucchetto. Se ci fate caso tutte le serate di cui ho parlato finora, susseguitesi con un ordine pressoché perfetto, hanno tantissime cose in comune: band che ho quasi sempre già visto dal vivo, perlopiù francesi o di paesi limitrofi, e tutte che fluttuano in quel magnifico strato di aria tra l’underground e la consacrazione, quella mesosfera nel quale noi piloti della musica “di nicchia” amiamo fare le evoluzioni aeree più audaci coi nostri velivoli. Per un cronista in erba e ancora alle prime armi come me è stata una fortuna inaudita quella di avere un settembre/ottobre strutturato così: ho potuto presentare ai miei lettori qualcosa di nuovo ma che già conosco, e soprattutto parlare di band di cui probabilmente in Italia si sa ancora poco o nulla. Non si pensi però che nella vita vado unicamente a concerti di gruppi garage rock con un bacino di utenza di grandezza medio-bassa. Mi capita al contrario piuttosto spesso di andare a vedere artisti ben affermati, ai quali riviste importanti hanno già dedicato pagine su pagine di interviste, recensioni e retrospettive. Capite bene che diventa molto più complicato scrivere qualcosa di completamente inedito. Non per questo trovo inutile tirare giù sulla pagina qualche riga di testo sul mio punto di vista riguardo a quello che musicisti famosi propongono oggigiorno sul palco. Amo la musica e amo parlare di musica su questo spazio, e siccome su Stereo Totale non esiste una vera e propria “linea editoriale” oggi ci divertiremo a uscire dai sotterranei dei gruppi emergenti per toccare con mano nuove realtà (e nuove sale concerti, e nuovi opening act, e nuovi generi, e nuove persone, e nuove emozioni)…

Ecco perciò “Life Lately” una piccola rassegna che racconta alcuni concerti degli ultimi tempi. Una blog entry magari un po’ più lunga della media, ma anche divisa in piccoli capitoli, in cui ai lettori è concesso anche di andare a guardare solo quello che gli interessa. Ancora non ne so nulla, ma penso proprio che non sarà un unicum e probabilmente diventerà una rubrica frequente.

Cinque concerti. Pronti, via.

***

Alfa Mist – Quando la carovana del jazz contemporaneo arriva in città

Alfa Mist live @La Lune des Pirates, Amiens, 04/11/2023

Quest’estate ho regalato alla mia amica Sophie una finta smartbox di marca Reric, un buono omaggio per un concerto di sua scelta e un’accoglienza parigina di tutto rispetto. Il giorno che Sophie ha “appizzato il Songkick” (gergo da giovani) per vedere quale evento avrebbe potuto riportarla in città, è rimasta scottata dal fatto che la venuta del suo idolo Alfa Mist a Parigi fosse incompatibile con l’agenda della sua vita digionese. Ci viene però segnalata la notizia improbabile che il pianista inglese avrebbe portato la sua band un sabato sera ad Amiens, nel dipartimento della Somme. Della Somme è difficile conoscere molto, a meno di essere esperti della Grande Guerra o di pale eoliche, che nella regione sono presenti in gran numero. Essendo un mestierante dell’energia del vento ho avuto la fortuna di conoscere abbastanza bene questa parte di Picardia, e Amiens, il suo capoluogo, è una bellissima città di media grandezza che respira tutto ciò che caratterizza questa parte del fare Francia Nord-Est: austerità, resistenza, fierezza e anche un po’ di impoverimento post-industriale. Perciò accetto con entusiasmo la proposta di un weekend piccardo a base di nu-jazz, case di mattoni rossi, canali alla olandese e piatti generosi dove la panna abbonda. Amo fare delle saltuarie sortite “en province”, amo ancora di più far incazzare Sophie, che teoricamente “en province” ci vive, pronunciando senza vergogna questa espressione un po’ dispregiativa.

Che poi, faccio tanto il fenomeno ma non è che qua la cultura dei concerti sia tanto dissimile da quella della capitale, è solo un attimo più sana e gradevole: l’apertura dei cancelli anche qui è presto, ma abbastanza tardi da prevedere una cena anticipata sensata, contrariamente a Parigi; le birre costano un pochino di più che al bar, ma almeno sono varie e di qualità, contrariamente a Parigi; la gente è cafona tra un set e l’altro, ma educatissima nel mentre che i gruppi suonano, contrariamente a Parigi. È chiaro che siamo al concerto-evento del mese: la Lune des Pirates, splendida SMAC (statale!) dalla capienza di 250 persone è strapiena al punto che è quasi difficile muoversi, e all’ingresso lo staff non sa più dove mettere i cartelli “sold out” per ribadire il concetto. Quello dell’opening act, il trio dei locali Verb, è quasi un piccolo trionfo. Nonostante la cinica ma giusta definizione di Sophie, “i ragazzi della scuola di musica”, devo dire che non disdegno affatto la performance di questi giovanissimi: intanto hanno la miglior line-up jazz possibile, ovverosia piano, basso e batteria (come il Bill Evans Trio); poi gli devo riconoscere il merito di avere delle composizioni originali carucce, dei temi orecchiabili e qualche idea riuscita (Colonel Macmontgomery, per esempio, si fa ascoltare con interesse), a discapito degli assoli che sono pochi e non particolarmente emozionanti.

Ovviamente siamo qui per il main act. Prima di parlarne, però, mi concedo di fare un piccolo inciso. Chi mi legge si sarà accorto che, per ora, di musica jazz non si è proprio mai parlato. In realtà il jazz, soprattutto per la natura molto colta della sua critica (inserire copypasta di Scaruffi sulla critica rock), è un macro-genere del quale non mi sento troppo a mio agio di parlare davanti a un pubblico generale. Il rischio è sempre quello di passare per una persona che parla senza saperne nulla. Penso che sia un complesso che in molti hanno, nel microcosmo di chi scrive di musica. Perciò mi concedo questa piccola parentesi che è quasi un’ammissione di colpa: contrariamente al rock, dove mi concedo di fare ponti tra sottogeneri e scuole di pensiero o altri pindarismi, io il jazz lo valuto “a pelle”. Mi piace ascoltare i grandi classici del bebop, del cool jazz, dell’hard-bop e anche mettere su del jazz contemporaneo piacione quando me ne viene voglia (non disdegno un Branford Marsalis, con immenso scorno di amici per cui il jazz rappresenta un mestiere, e che trovano questo tipo di ascolti deplorevole). Non traggo troppo piacere dal free-jazz, dall’improvvisazione libera o dal post-bop troppo avanguardista (The Bad Plus è la cosa più “spinta” che io possa ascoltare). Insomma, per farla breve: quel che amo sono le alternanze di assoli, le forme dei brani immediate, tema-solo-solo-tema, le melodie memorabili, la maestria dei musicisti. Soprattutto quest’ultima cosa: amo vedere un gruppo in concerto e dire: “Porca vacca, come suonano bene”. Sarà una visione semplicistica, ma non ci posso fare granché, a parte, come direbbe qualcuno, “farmi una cultura” e ascoltare nuovi dischi uno dietro l’altro invece di rimettere su la solita vecchia compila di Charlie Parker. Ma non so se mi va.

La bellezza del jazz, nonostante tutti questi discorsi che denotano più insicurezza che altro, è che alla fine è una musica che ci parla anche se non ne siamo o non vogliamo esserne esperti. Ad esempio l’ultimo disco di Alfa Mist, Variables (2023), mi ha molto colpito: un album che sa riprendere forme di swing classiche con eleganza e riuscire a essere sia brillante sia un po’ tenebroso, con quel savoir-faire piovoso che si trova solo nel Regno Unito. La più grande referenza che ho sempre avuto di Alfa Mist però è il suo classicone, Antiphon (2017), un album che è stato su tutti i consigliati di Youtube del mondo, ma che ha oggettivamente grande personalità, proponendo un universo sonoro capace di piacere sia ai puristi del genere sia agli amanti di nuove correnti più easy-listening definite (da chi poi?) con l’etichetta “lo-fi”. Cosa mi aspettavo perciò da Alfa Mist? Fermo restando che non sono un grande esperto dell’artista in questione, quando ho visto il quintetto di inglesini imberbi montare sul palco, con sullo sfondo un bellissimo video di acquerelli in stop-motion, non ho potuto fare a meno di immaginarmi un concerto delicato, pieno di ritmi hip-hop che avrebbero fornito il giusto sottofondo per far brillare il frontman e il suo piano elettrico. E invece.

La performance che segue è quasi abrasiva: la chitarra elettrica si concede spesso e volentieri bending asprignoli, la tromba spinge sugli acuti, il basso elettrico sarà quasi sempre preferito al contrabbasso, creando una coltre di frequenze cupe densissima, e soprattutto l’eccezionale batterista propone uno stile “hard” che non si fa scrupoli a mettere accenti sul crash sconquassando tutti gli avventori della Lune des Pirates. Alfa Mist ha soprattutto il ruolo di mettere dell’ordine e dell’equilibrio in questo esaltante assalto, con accordi dolci e sfumati, ma se vedessimo la band senza saperne nulla faticheremmo a definirne un leader. I momenti solistici del pianista non sono tantissimi, e coincidono, per l’appunto, con quell’approccio moderno e un po’ hip-hop che ha reso celebre Antiphon: è splendido, per esempio, l’intermezzo in dilla-beat di Organic Rust, dove Alfa Mist fa anche un po’ di rap. Ma, per l’appunto, i brevi passaggi che riportano al cosiddetto “lo-fi” sono solo intermezzi, e il resto del concerto è più orientato su una sorta di hard-bop contemporaneo estroso e potente, non privo di dolcezza, ma sempre pronto a esplodere con intensità, come nell’inquieta Variables. Infine, quasi ogni pezzo viene introdotto da uno strumento che, completamente solo, anticipa la canzone per un minuto o più. Tutti i solisti sono fortissimi, e perciò la domanda che sorge spontanea a tutti è la seguente: ma che cazzo ci fanno ‘sti mostri un sabato sera ad Amiens, in questo bugigattolo che non ha nemmeno un backstage?

Continuo a pormi la domanda anche mentre la band attraversa tutta la sala e sale le gradinate per tornare dietro le quinte tra gli applausi, dopo averci deliziati chiudendo con l’iconico e sfizioso funkettone di Brian. Il pubblico della “provincia” è abbastanza in visibilio, anche se c’è chi ha trovato l’approccio live del gruppo troppo estremo. Io non sono d’accordo e controbatto: che fortuna quella di aver visto da vicinissimo dei giovani talenti di questo livello. Una vera e propria iniezione di meraviglia. Torno su quel che dicevo prima: io del jazz amo il lato strabiliante, immediato, forse persino spettacolare, che è quello che stasera Alfa Mist ci ha portato.

Perciò mi do la risposta che vorrei sentirmi dare. Cosa ci faceva il quintetto di Alfa Mist, ad Amiens un sabato sera? Nulla, passavano dalla Picardia con la loro carovana e si sono fermati in città per una sera. 

***

Deerhoof – Nella ricetta dell’allegria c’è sempre un pizzico di rumore

Deerhoof live @La Maroquinerie, Parigi, 07/11/2023

Nei vari shoutout ai miei amici che ormai popolano gli articoli di Stereo Totale c’è un nome che non ho ancora mai citato ed è quello di Lauren. Direttamente da Orange County, California, la mia amica Lauren è al contempo un esempio di francofilia definitivo e un rifugio di sana americanità che sono contentissimo di avere nella mia vita. Ci siamo conosciuti perché lei voleva fondare una band di variété française pura e dura, e cantava cover di Véronique Sanson insieme ai suoi inediti, scritti con grande professionalità. Nonostante la sua missione culturale franco-francese, capii subito che Lauren era piena di sorprese: nella prima sera in cui ci siamo parlati mi ha fatto scoprire i Deerhoof, il gruppo noise-rock più matto che io conosca. Quest’estate era il suo compleanno e quindi le ho regalato il concerto di questo suo gruppo-feticcio, una band che lei ascolta da più di dieci anni. Capita proprio in questo inizio novembre, un momento in cui per varie vicissitudini e per voglia di conoscere nuova gente ci vediamo più spesso del solito. Abbiamo trovato un bell’affiatamento nel rapportarci al mondo esterno: lei, come del resto tutti gli americani, è campionessa di attaccamento conversazioni con gente sconosciuta; io, da semplice estroverso, seguo e mi diverto.

Quando ci incontriamo, stasera, siamo in preda ad un’eccitazione febbrile: è chiaro che ci aspetta uno show unico nel suo genere. Io penso a un’intervista di Stephen Malkmus in cui lui diceva che i Deerhoof sono il suo concerto preferito (e la Fiorentina la sua squadra del cuore!), lei ride e mi fotografa davanti a un cartello in cui i Deerhoof chiedono gentilmente al pubblico di mettere una maschera contro il covid: ma quanto sono strani? Ci raggiunge Pauline, terzo tassello di un trio di amici nato tre anni or sono attorno alla voce di Lauren e che mi fa tanto piacere sia restato unito. Tra che non ci vediamo da un po’ e abbiamo tanto da raccontarci, tra che stasera abbiamo l’aspettativa di vedere qualcosa di grandioso sul palco, decidiamo di saltare l’opening act, un duo dadaista un po’ semplicione, dopo nemmeno due canzoni. Preferiamo approfittare del bar all’aperto della mitica Maroquinerie, uno dei mi locali preferiti a Parigi per varie ragioni: è nel quartiere Ménilmontant (a uno sputo da Belleville e altri luoghi d’interesse), ha la forma di un mini-anfiteatro, ha un bar all’aperto.

Quando l’ora si avvicina scendiamo in sala per vedere i Deerhoof, con la mascherina donataci da loro rigorosamente posizionata sotto al mento (dai su, ma si può mettere una mascherina anti-covid a novembre 2023?). Per chi non li conoscesse, una rapida descrizione della band. Nati nel 1994 a San Francisco, i Deerhoof da quasi trent’anni pubblicano dischi uno dietro l’altro ampliando costantemente il loro sound noise-rock sopra le righe. Attingendo tanto da free-jazz e affini, con ritmiche sbilenchissime e uniche nel loro genere, i nostri sono capaci di tutto: si passa dall’estremamente melodico al rumore puro. Unico fil rouge di una carriera prolificissima, le vocals leggiadre della cantante Satomi Matsuzaki, giapponese trapiantata in California che riesce a infondere bizzarria, ma anche delicatezza e persino eleganza a un universo sonoro pieno di follie e trovate inaspettate. In questi ultimi anni i Deerhoof sono in un momento di grazia, con la pubblicazione di album particolarmente riusciti: quello del 2021, Actually, You Can, è una delle mie release rock preferite del decennio e il recente Miracle-Level (primo album in giapponese, nonché primo album registrato in un vero studio!) riconferma una band che ha ancora tantissimo da dire.

All’interno della Maroquinerie, la nostra posizione leggermente sopraelevata ci sembra perfetta per vedere tutto quel che succede sul palco. Purtroppo ci sbagliamo: Greg Saunier, il batterista, è altissimo ma suona bassissimo, e non lo vedremo mai agitarsi sul suo kit ultraminimale (piatto, rullante, timpano, cassa), se non in qualche raro spiraglio della folla. In compenso, appena la musica inizia, mi rendo subito conto che sto ascoltando uno degli interpreti dello strumento più impressionanti della mia generazione: il suo piatto suona come quattro piatti diversi, idem per tutti gli altri elementi del kit, e le note che suona sono tantissime, piene di sfumature, mai dove te le aspetteresti ma tutte sensate. Mentre Saunier impazzisce sulle pelli (è lui il verso solista del gruppo) i due chitarristi shreddano riff impossibili, sinfonici e dissonanti allo stesso tempo. Una musica intellettuale, si potrebbe pensare a un primo approccio, ma non è così: i Deerhoof sono buffi, energetici, simpatici, ed è puro intrattenimento. Le canzoni si susseguono velocemente, una più speciale dell’altra, e se ne vorrebbe sempre di più. Le sfuriate chitarristiche si alternano a, o si fondono con, attimi di pura carineria: My Lovely Cat!, ad esempio, un po’ svolazza e un po’ punge, tra texture melodiche atmosferiche e la discesa dal cielo di chitarre taglientissime; Scarcity is Manufactured suona come una versione math-rock de La Bamba; Be Unbarred, O Ye Gates of Hell produce un sing-along esilarante nella sala (il testo parla delle verdure dell’orto) e alterna un tema principale di musica barocca in distorsione (!) con intermezzi di puro metal (!!!). La musica dei Deerhoof è una vera e propria pozione di buonumore, piena di nostalgie divertenti tipo la cover in tempi dispari della sigla di Supercar (Love-Lore 2) e momenti emozionanti come la sfuriata noise finale, di una violenza sonora che non fa sconti a nessuno.

Usciti dal locale, bevendoci un’ultima birra, notiamo che tutti attorno a noi sono su di giri, esaltati e soprattutto allegri. La gente chiacchiera senza inibizioni di argomenti vari ed esotici e soprattutto dice che ci vorrà almeno una buona notte di sonno per riabituarsi alla musica “normale”. È questo il potere dei Deerhoof: trasportarti in un mondo dove nulla è veramente al posto in cui te lo aspetteresti, dove tutto un po' stupisce, un po’ spaventa, ma alla fine ti mette sulla faccia un gran sorrisone. È un po’ come immagino la droga psichedelica perfetta.

 ***

Superchunk – La musica adolescenziale vince ancora

Superchunk live @Supersonic Records, Parigi, 08/11/2023

Una decina di giorni prima dell’8 novembre ero a un concerto di Trotski Nautique (sì, un altro) e ho parlato con un giovane parigino dalle vedute molto radicali che mi ha detto testuali parole: “Al concerto dei Superchunk non voglio andarci, perché è una musica così adolescenziale che non posso sopportare di vederla suonata da un gruppo di cinquantenni”. Inutile a dirsi, ho detto al ragazzo in questione che è una testa di cazzo.

Sia detto: per me “adolescenziale”, se si parla di musica rock, sarà sempre un complimento: trovo eroica la capacità di trasmettere emozioni pure, crude e vivaci come se le vivessi per la prima volta, o ancora la bellezza di sentire in un’arte “adulta” la voglia di stupirsi ancora delle cose semplici ed efficaci, che si parli di una pausa prima di un ritornello, di una linea vocale arrogante, di una chitarra che si aggiunge all’equazione o di una batteria che raddoppia i colpi di rullante per alzare l’intensità. Se Giovanni Pascoli parlava della poetica del fanciullino, io in molta della musica rock che ascolto vado alla ricerca di quella del diciassettenne. Potrei passare ore ed ore a fare liste di artisti che, nel cercare di trasmettere emozioni “mature” suonano falsi e poco credibili, così come potrei citare un’immensità di gruppi che ancora oggi sono capaci di fare concerti o pubblicare nuovi album in cui non si fa segreto della loro mezza età, e con poche note farci risognare gli anni andati dell’adolescenza, periodo magico e nostalgico per eccellenza.

Nella mia testa, faccio defilare qualche nome che aderisce a una poetica adolescenziale. La prima cosa che mi viene in mente sono i gruppi punk californiani, che siano della prima scena melodic hardcore tipo i Descendents o dei loro continuatori morali, sia quelli più emo tipo i Jawbreaker o quelli più skater tipo i Cigar. L’altra scuola che ha reso grande la visione filosofica del sound adolescenziale sono i peripatetici dell’indie/slacker rock degli anni ’90: Pavement, Dinosaur Jr., Teenage Fanclub, etc. Per me i Superchunk sono sempre stati un “inbetweener” tra questi due approcci alla musica, un ponte che connette due mondi che amo alla follia. Ho sempre amato gli inbetweeners (per esempio, preferisco i metallari Helmet o i quasi shoegazers Swervedriver a gruppi grunge più “classici”). Inoltre, i Superchunk mi ricordano quei bellissimi sette mesi passati a St. Louis, Missouri, quand’ero in scambio universitario: fu proprio nel mio periodo “midwestern” che scoprii questa fantastica band power pop, dalle leggere velleità punk e un senso della melodia fenomenale. Inutile dire che ho saltato di gioia quando ho scoperto che il quartetto della North Carolina sarebbe passato da Parigi. “20 euro sono troppi”, mi diceva il testa di cazzo sopracitato. Allora valli a spendere altrove.

Il Supersonic Records, appendice del più celebre (e gratuito) Supersonic Club, è una bellissima saletta con amplificatori e memorabilia da fu record-shop sparsa sui muri. Non c’è tantissima gente e stasera i mei 25 anni abbassano l’età media sensibilmente. La gente con cui chiacchiero nell’area fumatori (un oggetto in via d’estinzione che è nostro dovere proteggere) sono quarantenni in giacca di pelle che hanno già visto i Superchunk dal vivo anni or sono. Li osservo mentre disquisiscono del periodo africano dei The Ex e mi ricordano comicamente i personaggi di Vernon Subutex, l’epopea rock di Virginie Despentes. L’opener non è veramente niente di che ma siccome sono da solo me lo sorbisco tutto. Poi, finalmente, i Superchunk.

Una band che avrebbe meritato molto di più, questo è il mio primo pensiero. Mac McCaughan, le due socie della sezione ritmica e il chitarrista pelato (il meno giovanile della band, perciò il più fiero) hanno un’energia lucente dal primo momento in cui montano sul palco. Le vocals lamentose del frontman non sono invecchiate in nulla e mi commuovono, mentre la batteria picchia (essenzialmente sul ride) e le chitarre sciorinano melodie su melodie. Le canzoni avanzano senza sosta e un secondo pensiero affiora, un po’ come il diavoletto che viene a rompere le palle all’angioletto sulla spalla. È un pensiero che, peraltro, mi sfiora spesso quando ascolto la loro musica: sono tutte belle queste canzoni, certo è sempre un po’ “more of the same”. Ma in realtà, più ci rifletto, più mi convinco che, come si dice a Firenze, “l'è i’ su’ bello”: ognuno può afferrare le sue personali hit da questo vento di melodie che soffia incessante. E perciò vedere i Superchunk è anche un’esperienza mutuata dal proprio vissuto. Io per esempio mi esalto con Hello Hawk (perché adoro Come Pick Me Up, specialmente il suo lato A), un altro giovane fan domanda a gran voce My Gap Feels Weird, riesce a farla inserire nella scaletta e festeggia con tutti quelli nel raggio di cinque metri attorno a lui (evidentemente questa deep cut è una canzone importante nella sua vita, che bella cosa). Scopro nuove perle del loro grande repertorio, tipo On the Mouth, uno sfrenato e oscuro B-side esclusa dal disco omonimo, che mi piace proprio perché mi ricorda quanto l’anima dei Superchunk sia profondamente punk rock. Il finale con Precision Auto (che di On The Mouth invece era l’opener) è davvero un bel regalino: il riff principale andrebbe messo nella versione digitale dell’Enciclopedia Britannica alla voce “teenage angst”. E ci dovrebbe essere anche un video dei Superchunk stasera, agitatissimi sul palco, che trasmettono un’energia che posso paragonare solo a quella di momenti vissuti tra i 17 e i 19.

Come tutte le cose belle, il concerto finisce e ho addosso un'eccitazione inspiegabile. Volevo andare a letto presto, ieri ho visto i Deerhoof, prima del concerto avevo persino sonno. Invece sono qua a farmi una bevuta di troppo con quel matto che faceva richieste poco lontano da me. La batterista e la bassista escono a smontare i loro attrezzi di lavoro e ne approfittiamo per scambiarci due parole. È il momento di giocarmi la mia carta e perciò decido di riciclare una frase che avevo usato nel mio programma radiofonico sulla “college radio” di St. Louis: “Next tour please consider playing Like a Fool, ‘cause it’s the Baba O’Riley of ‘90s indie rock”. Il programma si chiamava “Messy Hair”.

Spero di continuare a spettinarmi con la musica anche quando sarò vecchio.

 ***

The Magnetic Fields – Avremo sempre bisogno di canzoni d’amore

The Magnetic Fields live @Petit Bain, Parigi, 11/11/2023

Il Petit Bain è sicuramente la mia sala concerto preferita in città. Ricordo ancora come se fosse ieri la prima volta che ci sono andato: era luglio 2015 e grazie a mio padre, che lavorava a Parigi, avevo rimediato un piccolo tirocinio di quarta liceo in cui passavo la giornata a sistemare gli archivi dell’università che anni dopo avrei frequentato. In quelle giornate, leggermente monotone, non sapevo troppo come occupare il mio tempo se non ascoltando thrash metal. In un’estate parigina particolarmente calda, ho un particolare ricordo di Beneath the Remains dei Sepultura che suonava ogni giorno. Un bel dì apprendo la notizia che gli Iron Reagan, side-project dei Municipal Waste (forse la band più leggendaria del revival thrash anni 2000), si sarebbero esibiti al Petit Bain. Fu una serata di grandi rivelazioni: non solo scoprii, con grande sorpresa e dopo tante incomprensioni con Google Maps, che può esistere una sala concerti nella stiva di una barca, ma feci anche il mio primo stage dive.

All’epoca non sapevo che un giorno avrei vissuto a Parigi in pianta stabile, ma capii che quel Petit Bain che galleggia sulla Senna nel tredicesimo arrondissement (il più strano, post-industriale e modernamente austero dei venti distretti) sarebbe stato uno dei locali del cuore della mia vita intera. Anni dopo, eccomi qua: al Petit Bain ci vado regolarmente, i concerti qui hanno un sapore speciale e la programmazione è splendida a ogni stagione. Tra l’altro, mentre vedevo un gruppo indie rock che risponde al nome di In My Head alla Ferme Electrique qualcuno mi fa: “Lo vedi il cantante? Si chiama Nico, è lui che fa la programmazione del Petit Bain”. Capelli alla J Mascis, cappello sempre in testa, quest’uomo molto ben riconoscibile è diventato la vittima costante dei miei deliri serali da quando sono stati annunciati i Magnetic Fields al Petit Bain. Ogni sera in cui lo incrocio, da mesi a questa parte (compreso il concerto dei Superchunk), gli dico: “Sei un grande per aver portato i Magnetic Fields al Petit Bain” oppure “I Magnetic Fields? Non penso ad altro, giorno e notte”.

Ovviamente, sono cose che penso davvero. Innanzitutto è davvero sorprendente vedere un gruppo così grande associato a questa sala, di grandezza medio-piccola. Stephin Merritt, il frontman del gruppo, è considerato da molti il più grande paroliere “indie” della storia del pop, e i Magnetic Fields non mancano mai nella conversazione quando le parole “indie” e “pop” vengono pronunciate a prossimità l’una dell’altra. C’è un’altra ragione, però, che giustifica la mia esaltazione per la venuta dei Magnetic Fields al Petit Bain, ovvero che sono il gruppo più importante dell’anno 2023 per me. In una domenica di questo febbraio, in cui non avevo niente da fare se non tante lavatrici, ho cominciato a vedere le prime avvisaglie della fine di una storia di amore che durava da due anni. Era il giorno perfetto per ascoltare 69 Love Songs e da quel momento in poi quel triplo album, praticamente perfetto, mi ha accompagnato e aiutato tantissimo durante un lungo periodo di separazione dalla prima fidanzata della mia vita francese. Il mio amico e consulente sentimentale Paolo, che avete già conosciuto nell’articolo sul Primavera Sound, 69 Love Songs mi aveva consigliato di ascoltarlo circa 5 anni prima. Come al solito, i consigli di Paolo li seguo con grande ritardo ma arrivano sempre al momento giusto.

L’annuncio dei Magnetic Fields a Parigi ha riportato Paolo in città e ci siamo di nuovo dedicati ad attività importanti come l’abbuffata di escargot, o i dodici chilometri di camminata giornaliera minimo. Quando entriamo al Petit Bain è stupidamente pieno: non è sold-out, è proprio oversold. Insieme ai nostri amici securizziamo un buono spot proprio in mezzo alla fossa, e nonostante la calca ci godiamo l’opening act di Ed Dowie, un signore inglese ormai stagionato il cui synth-pop, tenero e timido quanto lui, omaggia in maniera smaccata ma non spiacevole i Magnetic Fields dell’epoca Holiday e Get Lost, con giusto qualche sprazzo di folk britannico (vedasi Dear Florence, canzone che apprezzeremo molto pur non accorgendoci che è un omaggio alla nostra terra natale). Number Eight Wire sembra veramente un b-side dei Magnetici del ’94, e infatti quando, dopo quindici interminabili minuti di attesa, il quintetto newyorkese monta sul palco con sobrietà, Merritt si accomoda sul suo scranno con un’espressione quasi scazzata e dice che ha ancora in testa la melodia della canzone di Dowie.

I Magnetic Fields, e nell’ambiente si sa, suonano musica prevalentemente acustica, e a volumi molto bassi. Merritt ha perso parecchio udito a un concerto degli Einstürzende Neubauten (nostro), perciò facendo di necessità virtù ha fatto riarrangiare tutte le canzoni che contenessero una benché minima distorsione e il risultato, come si poteva prevedere, è splendido. Il loro concerto è un fiume in piena di hit, viene voglia di cantare quasi tutti i ritornelli. Le canzoni, com’è nell’ethos dell’autore, sono spesso molto brevi, e sono tutte toccanti e/o spiritose. Il violoncello, la chitarra, l’ukelele e la voce grave e seriosa di Merritt (compreso il suo stage banter freddissimo e memorabile), tutto crea un’atmosfera intima ed emozionante. Sì, mi arrabbierò con dei coglioni che vogliono comunque cianare in mezzo a tutta questa bellezza, mi salirà il sangue al cervello e tutto quanto, ma niente, nemmeno il più irrispettoso degli esseri umani può rovinare la gioia di subire una raffica di canzoni così perfette. Si ha l’impressione che i Magnetic Fields ci stiano deliziando con un vero e proprio best of che ripercorre la loro eccezionale carriera: qualche puntata ai vecchi The Charm of the Highway Strip (Born on a Train da brividi), Holiday (Take Ecstasy With Me, la canzone d’amore più inquietante che conosca) e Get Lost (All the Umbrellas in London, un viaggio nell’immensità del mondo e del dolore). i, album dal titolo geniale, fa anche lui la sua comparsata con It’s Only Time, ovvero la ballata del fatalismo, e viene tirato fuori il meglio anche dai recenti 50 Songs Memoir (Be True to your Bar, un vero inno) e Quickies (The Day the Politicians Died, che i newyorkesi hanno avuto la fortuna di suonare in Irlanda quando è morta la regina Elisabetta). Ovviamente, c’è spazio anche per tantissime delle 69 Love Songs, con degli highlights pazzeschi: tutta la sala che canta Kiss Me Like You Mean It (Shirley Simms, che voce); il chitarrista che canta Luckiest Guy on the Lower East Side e riesce a tenere la celebre nota lunghissimissima, con la sorpresa di tutti; e poi il miglior momento di tutto il concerto, la palla di cristallo da discoteca che si accende sui versi di Papa Was a Rodeo: “The light reflecting off the mirror ball looks like a thousand swirling eyes”. E poco dopo Merritt guarda ciascuno di noi negli occhi e, beffardo e ironico, domanda: “What are we doing in this dive bar? How can you live in a place like this?”, provocando il nostro riso e facendoci credere, per un attimo, che Stephin potrebbe essere quell’amico estremamente cinico di cui a volte si ha bisogno.

L'encore, costituito dalla fan-favorite A Chicken With Its Head Cut Off seguita da 100,000 Fireflies (dove tutto ebbe inizio) è un tripudio, e non fa che rinforzare un pensiero che non se n’è andato durante tutto il concerto: questi potrebbero restare qui a suonare hit fino a domani. Effettivamente, sono tantissime le canzoni memorabili lasciate fuori dalla performance, e ciononostante il concerto è durato quasi due ore. Non c’è niente da aggiungere, di canzonieri come i Magnetic Fields ce ne sono pochi al mondo, e noi stasera li abbiamo visti qui, al Petit Bain. Si fatica quasi a crederci.

Dopo questo momento fuori dal tempo chiacchiero con Paolo di quello che vorrei scrivere per Stereo Totale riguardo a questo concerto. Il suo consiglio non è pessimo: un articolo di vita vissuta in cui comparo quel che ho sentito alle mie esperienze in Francia, “il paese che mi ha educato all’amore”. Se fosse stata un’altra band, anche anche. Ma coi Magnetic Fields, no, non ce la posso fare. Chi sa scrivere di amore, scrive. Chi non lo sa fare, ascolta.

 ***

Fucked Up – Anche il caos può avere classe

Fucked Up live @Petit Bain, Parigi, 14/11/2023

I lettori più attenti di Stereo Totale hanno già letto un piccolo resoconto di un concerto dei Fucked Up, non uscito dalla mia penna bensì da quella del mio caro amico Tommaso. Si tratta del concerto del mercoledì 29 maggio 2019, cominciato alle ore 1:50 del mattino alla Sala Apolo di Barcellona. Cosa si può dire che non sia già stato scritto in quell’articolo a tema Primavera Sound? Poca roba: che eravamo stanchissimi, quindi allucinati; che c’era un muro di chitarre spessissimo e che a volte era anche complesso capire dove stesse andando quel maelstrom di musica; che la calca umana era altrettanto spessa; che pogammo con Mac DeMarco. 

Effettivamente, annovero quel concerto tra le esperienze mistiche della mia vita: una trance catartica di cui però ricordo molto poco. Ammetto che, da allora, non ho ascoltato i Fucked Up questo granché: giusto un paio di ascolti a Year of the Horse, un gigantesco concept album dove l’hardcore punk incontra le suite di foggia progressive rock (follia assoluta). Quando Tommaso, che ha seguito molto più di me le vicissitudini di questi insoliti punk canadesi, mi ha scritto: “Concerto dei Fucked Up al Petit Bain, vengo a Parigi”, è stata una splendida notizia che mi ha fatto riprendere in mano la loro musica. In particolare, ho recuperato One Day, l’album del 2023, che coi suoi toni “artsy as fuck” e la sua varietà (un po’ groovy, un po’ rock’n’roll, un po’ emo) mi ha conquistato. 

Entriamo al Petit Bain e mi sento a casa. Chiacchieriamo col batterista dei Fucked Up che sta vendendo merch, e anche lui si ricorda il veglione di quattro anni e mezzo fa: “Oh, yeah, the super late concert? Time of our lives”. Ci godiamo l’opener Alvilda, quattro ragazze pariginissime (tutte con la frangia, aiuto) che fanno un rock leggero e sbarazzino dove l’omaggio incessante ai Ramones incontra uno style yé-yé francese anni ’60/’70 molto simpatico. Sotto al palco io sono abbastanza ammaliato (chi mi conosce bene sa) ma Tommy mi fa tornare in me facendomi notare che le canzoni sono veramente tutte uguali. Un po’ ha ragione, e perciò andiamo al bar a chiacchierare mentre risuona in sottofondo un vecchio disco di punk newyorkese degli anni ’70 sul quale si è infiltrata Jacqueline Taieb (segnalo comunque un inedito carino delle Alvilda: Paris Été, che penso sarà nel loro prossimo LP e che forse si vuole un sequel spirituale di Le Printemps à Paris). 

Mentre discutiamo di quanto sia bello, apprezzabile e “nostro” avere un opening act che non c’entra una mazza con l’artista principale entrano sul palco i Fucked Up con un intro funky improbabile. È sempre bello vedere una band per una seconda volta vari anni dopo. È altrettanto bello rivedere una band per una seconda volta in una situazione completamente diversa. Quando i due fenomeni si verificano contemporaneamente, però, può sopraggiungere un forte senso di straniamento. Stasera quello che c’è è che la sala non è pienissima (in realtà è un’affluenza media, ma tre giorni prima c’erano i Magnetic Fields e ora so come può essere il Petit Bain strapieno) e la gente non è scatenata come quelli che a Barcellona avevano dovuto aspettare ore e ore per un agognato concerto di musica cattiva. Ma anche il suono dei Fucked Up mi pare diverso. Tommaso mi fa notare che le chitarre sono una in meno (nel 2019 erano tre) e quindi più distinguibili. La presenza scenica, quella non è cambiata: Damian Abraham, gigante barbuto, è un mattatore e un matto, le sue urla sono intense quanto i suoi contorsionismi sul palco e la sua vitalità esuberante scalda l’atmosfera come una palla di fuoco.

Ci metto un paio di minuti a riabituarmi al sound dei Fucked Up che è sì violento, sì volutamente dispersivo ma, me ne accorgo adesso per la prima volta, anche raffinato. C’è una bellissima armonia tra gli strumenti, e uno studio compositivo sopra la media, con canzoni ben strutturate e sempre sorprendenti ma mai del tutto spiazzanti, insondabili e gratuite come ricordavo. I loro brani sono ancora molto caratterizzati da ampie sezioni strumentali riflessive e dal sapore krautrock che fanno rifiatare dopo le potenti aggressioni di Abraham e soci, ma stasera abbiamo modo di godere anche di pezzi più concisi ed eclettici, che mi ricordano l’operato di altri pezzi grossi del “punk songwriting”, se vogliamo chiamarlo così, come i mitici Les Savy Fav (c’è anche una piccola somiglianza di cantanti) o gli Hot Snakes del compianto Rick Froberg (ex Drive Like Jehu, riposa in pace).

Sono cambiati loro, siamo cambiati noi, insomma: i 50 minuti sfrenati dei Fucked Up al Petit Bain sono una prova di maturità, sia loro che nostra. Il quintetto canadese gioca col pubblico, tra teatralità, cambi continui di voci (quella della bassista è davvero bella), crescendi e decrescendi. C’è spazio anche per degli originalissimi riff armonizzati, la “signature” di One Day, che sanno essere gioiosi tipo quello della quasi Deerhoof-iana I Think I Might Be Weird, o emozionanti come quelli di Broken Little Boys, la canzone in scream più delicata dell’anno. Pur riconoscendo poche canzoni ho comunque un po’ di reminiscenze della bolgia del 2019, solo che questa volta non mi ritrovo a sballonzolare in un oceano di corpi, ma a ballare: facendoci caso, mi rendo conto che la gente che si agita nel pit, più che dimenarsi, sta riflettendo le vibrazioni della musica come su una pista da ballo. L’ultimo pezzo, Baiting the Public, ha una bellissima jam space-rock che funge da outro, e la mossa di sottrarre strumenti uno dietro l’altro, fino a lasciare uno scheletro di batteria a salutare il pubblico, è eseguita con eleganza. Ma non può finire in maniera così riflessiva, ed ecco che per l’encore i nostri vengono a darci un’ultima scossa con quello schiaffone sul viso che è Police (una delle più belle canzoni anti-sbirri degli ultimi anni).

La soddisfazione è palese, e la riversiamo sul solito, povero Nico, che è sempre un gentiluomo. Uscito dal Petit Bain un po’ frastornato, specchiandomi nella Senna d’argento, penso all’unico momento in cui il mitico Damian Abraham si è mostrato un po’ commosso, nel vortice di rabbia che attornia la sua musica. “We went around today, we walked like three hours… You got a beautiful city here, guys”.

Quando hai così tanta musica, e bella così, non posso dargli torto: abbiamo davvero una città bellissima.