domenica 24 dicembre 2023

Natale con i tuoi - Al cenone indie del Motel con Biche, Alva Starr e Speed 3

Biche live @Petit Bain (Le Noël du Motel), Parigi, 18/12/2024

Nel pieno della mestizia invernale di cui ho fin troppo parlato nei miei ultimi live report (dovuta a un clima schifoso e due o tre cazzate di ragazze, insomma niente di grave), a un certo punto arrivano le feste. Le feste, questa tradizione imposta dall'alto e che deve per forza essere fonte di gioia e speranza: arrivato a una certa età, e dopo che la mia polemicità tipicamente fiorentina si è trasformata in un vago cinismo, questa storia delle feste ha cominciato un po' a starmi sulle balle. Nei miei momenti di massimo distacco dalla realtà può capitarmi di pensare le stesse cose di istituzioni ancora più importanti, tipo la famiglia, questo gruppo di persone che fanno parte della tua vita per puro caso e che per norma sociale sono destinati a essere il tuo fulcro di unità, affetto e valori. A volte davvero mi verrebbe da dire: ma chi l'ha deciso? Poi succede che per un imprevisto devo volare con urgenza in Spagna e ritrovarmi accerchiato da zie e cugini che non vedevo da anni e che non sento quasi mai. E lì mi rendo conto che questi miei punti di vista intellettuali, atarattici e nichilisti non hanno nessun valore: al di là di tutti i costrutti sociali a cui uno possa pensare, la famiglia resta la cosa più importante. Non c'è tanto di più da spiegare.

Torno in Francia dalla mia trasferta madrilena d'emergenza e mi dico che sì, forse posso dare una chance anche a questo fantomatico calore delle feste. Per fortuna gli amici (l'altra cosa più importante) hanno anticipato questo mio desiderio, convincendomi giorni prima a prendere i biglietti per andare al concerto di Biche, un gruppo di indie pop francese contemporaneo (interpretate il “contemporaneo” come volete, io lo applico a sproposito ogni volta che intravedo rullanti ovattati e con loro l’inevitabile legato di Mac DeMarco). Do mezzo ascolto ai Biche e non disdegno affatto il loro sound fresco, elegante e delicatamente psichedelico. Vista anche la location (l’unico e inimitabile Petit Bain), gli opener decisamente promettenti e soprattutto il fatto che con questi amici abbiamo il progetto di strimpellare insieme proprio dell’indie pop francese, accetto l’invito con piacere e senza pensarci troppo.

Il lunedì del concerto arriva, dopo un week-end privo di qualsivoglia emozione natalizia malgrado la mia buona volontà: le luci e le decorazioni per strada e nei negozi non mi comunicano niente, la proliferazione di tronchetti di natale nelle pasticcerie un po’ mi stomaca, e pensare a che regali fare e a chi farli resta una discreta rottura di coglioni. In questo spirito da Grinch, guardo i biglietti del Dice e noto che la serata si chiama “Le Noël du Motel”. Oimè, una serata di natale. Speriamo bene.

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Arrivo al mitico molo del Petit Bain per primo tra i miei compari. In realtà sono arrivato prestissimo, perché sì: arrivare all’apertura è un altro dei miei lati intransigenti e un po’ scorbutici, da Ebenezer Scrooge. La serata è gelida e decido di entrare. La ragazza della biglietteria che, poverina, deve stare a lavorare all’aperto per tutta la sera fa comunque grandi sorrisi a tutti mentre distribuisce biglietti della tombola in allegato al timbro sul polso. Entro in cambusa per ammazzare il tempo ma ancora non c’è praticamente nessuno. Le poche persone in sala, però, sono estremamente sorridenti e sembrano tutte conoscersi. Ogni nuovo avventore saluta i presenti con un abbraccio, e a turno la gente viene a scambiare due chiacchiere con il banchino del merch. Mi sento quasi a disagio, come un imbucato a un pranzo tra parenti di una famiglia di sconosciuti.

Ovviamente c’è una spiegazione per questa sensazione: il Motel che organizza questa festa di natale è un famoso bar, l’unico che abbia sentito rivendicarsi la parola “indie” nei suoi statuti fondanti: una nicchia mitica di una scena parigina alla quale non appartengo. La gente che suppongo affiliata al Motel, in sala o sul ponte, è molto affabile verso il suo circolo, ma mi sento un po’ burbero e la cosa non mi scalda particolarmente. In compenso scovo un dettaglio divertente nella descrizione dell’evento, che leggo mentre aspetto la musica seduto nel gradino degli uomini soli (piano piano ci siamo accumulati): tutti e tre i gruppi sono stati, in passato, baristi al Motel. E in effetti, appena i cinque Speed 3 salgono sul palco, cominciano subito i salutini e gli inside joke con alcuni elementi del pubblico. Comincio a intenerirmi: quando vado a vedere i gruppi dei miei amici fiorentini (fanno o free jazz o ska-punk) il mood è più o meno il medesimo.

La formazione che apre le danze è quantomeno bizzarra: cantante, bassista e batterista sono dei tipici ragazzotti un po’ hipster da gruppo indie rock (si segnala l’avvistamento di una maglietta degli Stereolab sul batteria); il chitarra solista, arruffato come pochi, sembra un metallaro degli anni che furono; il tastierista, invece, è il tipico personaggio mattacchione da bar scene, un po’ più anziano degli altri e dalla faccia burlona e gentile. Contro ogni aspettativa, la serata si apre all’insegna del rumore e della sregolatezza: l’indie rock aggressivo di Speed 3, che vuole bene tanto al britpop quanto a una New York d’antan (leggasi: quel folle viaggio che ci porta dalla Factory fino a Casablancas), è una gioia per le orecchie di chi, come me, ama il rock che flirta col noise ancora più del noise rock stesso. Sopra a un sostrato ritmico precisissimo e pulito, una voce strepitante e saturatissima sconquassa gli avventori, e il gruppo tira fuori dal cappello mille trucchetti, tra assoli graffianti e parti di tastiera sempre inaspettate. La band è affiatata e matura, macina musica e sembra tutto tranne che un gruppo che ha un solo singolo su Bandcamp all’attivo. Ma oltre alle tastere-carillon di The Art of Saying No si cela un piccolo universo di trovate divertenti: scream laceranti che rompono le atmosfere mogie di canzoni sulla solitudine, pianoforti boogie che esaltano i crescendi di arringhe politiche contro liberalismo e poteri forti, accelerazioni e sfuriate che ti schiaffeggiano a tradimento mentre ti concedi di gongolare ammaliato da sezioni pop quasi raffinate.

Intrattenuto dal fiume in piena di questi simpatici Speed 3, dimentico persino le mie vaghe sensazioni di isolamento. Intanto gli amici arrivano e la sala si riempie con grande naturalezza. Il gran finale, marcato da una canzone-omaggio al Das Kapital, è l’occasione di ritornare a scherzare tutti insieme, sfottendo l’amica americana (di background repubblicano) citandole i rischi di epurazione che corre con questa vita parigina in linea tangente col marxismo. Nel calore di un Petit Bain finalmente pieno di gente, verosimilmente non tutte del microcosmo Motel, comincio ad avere le prime visioni del Fantasma del Natale Presente e ad assaporare l’allegria del momento con più leggerezza.

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Non passa neanche un quarto d’ora che il palco si rabbuia di nuovo per lasciare spazio ad Alva Starr, l’act che forse mi incuriosisce di più stasera. Anche loro ai loro inizi, si suppone: i singoli su Bandcamp stavolta sono tre, ma due sono “rough demo” e uno è “live” (ciascuno, peraltro, si può acquistare per la modica cifra di mille euro, cosa che trovo spassosissima). Ascoltandoli in streaming, visti i miei mezzi limitati, avevo apprezzato molto il loro indie pop che, seppur soffuso, è attento a non cadere nella rischiosissima trappola di un suono “bedroom” inflazionato e banale. Chitarre trillanti, synth soffici, un groove dimesso ma accogliente e armonie vocali leggiadre, né troppo liriche né al contrario troppo “blasées”, fanno di questo quartetto parigino una piccola perla che, se fossi un talent scout, sorveglierei a dovere. E siccome fingermene uno è il mio passatempo preferito, mi piazzo in prima fila.

Il concerto di Alva Starr è delicato come una mattinata d’inverno dal cielo blu (oggetto rarissimo da queste parti). Impossibile non sorridere, chiudere gli occhi e ondeggiare la testa, per esempio, con le melodie dolci di una canzone come Airlane, talmente aggraziata da far perdonare, o addirittura apprezzare, anche la fortissima somiglianza armonica con Boys Don’t Cry; oppure ancora la micro-hit Go to Congo, che con le sue vocals esotiche e le sue chitarrine un po’ folk un po’ indie anni ’00 (mi si segnala un aroma di Vampire Weekend), ci fa viaggiare tra le Afriche e le Americhe con buffe storie di amori criptici; e ovviamente non può mancare la canzone di natale: I Want a U-boot for Christmas finalmente riaccende dentro al mio cuore un po’ di spirito natalizio. Anche a questo giro, le canzoni nuove sono tante, e tenere quanto lo stage banter un po’ timido del cantante. Il duetto finale e l’abbraccio con Lonny, cantante più affermata e anche DJ più tardi nella serata, è un attimo di grande e sincera dolcezza, in un alternarsi di voce femminile e maschile che ricorda persino i momenti più affettuosi dei Moldy Peaches.

Più che per la famosa “freschezza” con cui vengono incensati solitamente i nuovi gruppi indie, Alva Starr meritano un plauso per l’esatto opposto: il tepore. Nella sala del Petit Bain, a fine concerto, sembra quasi di sentire un odore di legna nel caminetto e di pan di ramerino. Poi una voce annuncia che al piano di sopra c’è la tombola e a quel punto saliamo nella sala del ristorante tutti emozionati: siamo quasi tornati bambini.

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I lotti, uno ad uno, vengono annunciati. C'è un gran vociare tra i tavoli e le sedie della “cantine” (“mensa”), mentre gli astanti, parecchio pigiati, vengono illuminati dalle luci calde della sala. La luna, fuori dagli oblò, si riflette sulla Senna. Mentre i baristi spillano birra, una bambina estrae i foglietti dalla boccia di vetro e una ragazza urla i numeri, lamentandosi di doverli ripetere più volte. Non mancano le tradizionali battutacce, tipo le descrizioni altisonanti dei premi meno ghiotti, o i sempreverdi “’Azzo, quasi!”, “Ambo!”, “È mio, è mio! No, scherzo”. Ci si sente davvero come a una tombola di famiglia.

E la dea bendata ci sorride. Proprio mentre vengono tessute le lodi di uno straordinario, eccezionale cappellino invernale di marca “Le Motel”, con tanto di logo (un tricheco), mi permetto di dire: “Boh, io non la porto mai ‘sta roba” e il mio 903 viene miracolosamente estratto. Tutti i compari mi fanno letteralmente le feste, perché tra noi sono il primo vincitore della sera. Festa doppia, perciò, quando i fidanzatini del gruppo si portano a casa il premio più ambito, un ingresso per due al prossimo concerto dei Beach Fossils. Siamo i fortunati della serata, scherzosamente invidiati dai partecipanti della tombola che incrociamo in un angolo fumatori che ha la stessa atmosfera del ritrovo delle zie in giardino con le loro sigarette prima del dessert, la sera del 24. È la magia del natale.

“Lo senti? Stanno iniziando i Biche!”. Buttiamo i mozziconi nel posacenere e ci dirigiamo verso l’interno, con la stessa fretta del parente a cui è stato chiesto di andare a dare una mano per portare in tavola le fette di panettone. Nella sala concerti, il pubblico è in un silenzio un po’ religioso, un po’ divertito, un po’ commosso, come se stesse ascoltando il coro dei bambini che canta Tu Scendi Dalle Stelle. In realtà, sul palco, illuminato di un colore azzurro come quello dei fiocchi di neve, i cinque ragazzi di Biche stanno suonando la bellissima Kepler, Kepler, una delle canzoni più riuscite del (lui sì) freschissimo LP del 2019 La Nuit des Perséides. A cavallo tra generazioni di pop-rock di foggia inglese, ma con un piglio melodico francesissimo, questi giovani talentuosi sono riusciti a plasmare un sound sognante, appassionato e quasi sensuale. Ponte di congiunzione dei nostri giorni tra Beatles (vedasi le chitarre alla Taxman), i Blur di Parklife e le psichedelie gentili e innamorate degli anni ’60 degli Stereolab, la miscela Biche sa essere originale e al contempo referenzialista, ma senza pesantezza e in maniera giocosa e sbarazzina (in effetti, il cambio maglietta del cantante che, sorpresa, era anche batterista degli Speed 3, spiega tutto: vedasi foto).

Che i Biche siano un gruppo sopra la media nel loro genere è chiaro fin da subito. Ma c’è una cosa ancora più evidente: stasera i Biche stanno suonando esclusivamente per amici e parenti. Lungi da loro, perciò, l’idea anche rispettabile di fare uno showcase esaustivo del repertorio o di raccontare qualsivoglia aneddoto informativo su album, singoli, collaborazioni e altri successi. Non ci sono discografici o personaggi influenti all’ascolto, e anche se ci fossero stasera l’unica cosa che conta è passare un buon momento con i propri cari. Gli outsider come me, pur divertendosi e godendosi la musica, non capiscono nemmeno granché di quel che succede: ad esempio, una loro amica che non sappiamo chi sia (nota a posteriori: è la cantante di En Attendant Ana) monta sul palco e canta la maggior parte delle canzoni col gruppo, che del resto funziona benissimo a due voci; il quintetto, inoltre, ci delizia con tante novità e pezzi mai sentiti. Ovviamente, c’è spazio per diversi fan-favorites: penso alla dolce Le Laboratoire, così ondeggiante che anche il Petit Bain sembra per un attimo muoversi sulle onde: un finto walzer dai retrogusti krautrock che tutti sogneremmo di ballare con la nostra ragazza dei sogni in una sala del liscio creata apposta per nerd come noi. Nonostante la solidità impressionante della band sulle canzoni già rodate, però, sono proprio i pezzi inediti a brillare. “Non lo so se vi piace, quando ai concerti partono le canzoni nuove…”, dice il fascinoso Alexis Fugain, leader della band. Stasera piace a tutti: tra le varie novità, apprezzo particolarmente una cannonata synth-pop a 200 bpm (complimenti al tastierista per la resistenza delle dita) e la gagliardissima e ritmata L’Engranage, che non necessita di più cowbell ma che aspettiamo in gloria in un prossimo disco.

Nella spensieratezza di questo cenone musicale di natale coesistono sia il divertimento naïf dell’infanzia che la gratitudine, più adulta, del sentirsi in famiglia. Il set di Biche passa in un baleno e nei volti del pubblico si indovina solo ed esclusivamente una piacevole soddisfazione. C’è chi come me, ad occhi socchiusi, si lascia ipnotizzare da canzoni colorate come le lucine che lampeggiano sull’albero; c’è chi sorride, chi ride; c’è chi canta, chi balla, chi ruzza e chi se ne sta fermo, anche a braccia conserte, a godersi un gruppo che potrebbe (meritatamente) essere destinato a grandi cose, e che, malgrado un’aura di sofisticatezza che può ingannare l’occhio inesperto, ci ha mostrato di essere capace di trasmettere un’intimità senza artifici. I ringraziamenti finali sono sinceri come quelli che si possano fare a chi ti ha offerto un bel regalo, e suonano proprio diversi dalle classica formalità dell’etichetta da palcoscenico. Di rimando, pure dal pubblico si sente montare più di un “merci”.

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Come ad ogni cenone che si rispetti, ci beviamo un ultimo digestivo che forse è di troppo, ma che avrà il merito di farci dormire serenamente. Ci facciamo due risate con la gente del pubblico e poi, presi da un inizio di sonnolenza dopo l’abbuffata indie di stasera, decidiamo di tornarcene a casa. Prima di andare alla fermata della metro ci fermiamo simbolicamente sul lungosenna come farebbero gli ospiti sul pianerottolo e salutiamo questo nuovo parente, il Motel, a cui promettiamo di rendere visita appena potremo. Da dietro, il Petit Bain ci fa anche lui ciao ciao con la mano, in modo meno solenne perché tanto ci vediamo già spesso.

Tra pochi giorni parto per Firenze e gli amici con cui ero stasera non li rivedrò per qualche settimana. Ci auguriamo buone feste e, per una volta, pronuncio queste frasi universali, trite e ritrite, credendoci davvero. Buon natale, buon anno, state bene.

A volte mi sembra tutto forzato e stupido. A volte vorrei che le tradizioni non esistessero, e che certi giorni, certi periodi, si potessero vivere senza caricarli di significati che mi lasciano indifferente. Poi, un po’ vittima degli eventi, un po’ spinto da una forza invisibile, ti ritrovi a passare dei momenti speciali come quelli di stasera e ti rendi conto che a volte certi principii astratti sono più forti di te. A capodanno non so cosa faccio, ma so che lo passerò con chi voglio. Il natale del Motel invece, come da proverbio, l’ho passato con i miei.