giovedì 30 novembre 2023

Un rituale di inizio inverno - Al Festival BBMix con Arab Strap, La Féline e R. Aggs

Arab Strap live @Carré Belle-Feuille (Festival BBMix), Boulogne-Billancourt, 25/11/2023

Introduzione: un inizio di stagione

È fine novembre ed è venuto un gran freddo. Le foglie cadono dagli alberi, e mi godo il loro odore quando si accumulano per terra giallognole e ancora un po’ fresche. Vedere il vapore uscirmi dalla bocca mentre respiro l’aria del mattino mi mette una certa esaltazione: finalmente finisce una mezza stagione dubbiosa e arriva un vero inverno. Vado al mercato e noto con piacere il ritorno di una vecchia amica, l’“endive”, l’insalata belga, compagna fedele delle mie cene invernali. Tiro fuori dall’armadio il piumino canadese marrone chiaro, che mi dà un aspetto serio ma gentile. E poi ovviamente, come con la verdura, mi rigusto un po’ di musica di stagione. L’equivalente delle indivie, il gruppo invernale definitivo, per me sono i Mineral: quel midwest emo sensibile, un po’ tremolante un po’ pungente, descrive l’inizio dell’inverno come non lo fa nessun’altra musica. Metto su The Power of Failing e Five, Eight and Ten mi racconta come mi sento meglio di come potrei farlo io stesso: un po’ malinconico, un po’ preoccupato dal freddo e dal buio che arriva, ma soprattutto emozionato dalla novità e sorpreso da quest’emozione che si rinnova ogni anno come una prima volta. Per un po’, voglio godermi questa energia. Poi, magari, tutte le foglie saranno cadute e i rami degli alberi disegneranno nel cielo scheletri scuri come nella copertina di Burning From the Inside dei Bauhaus. Ma ancora non mi sento “dark”, no. Mi sento elettrico come la scarica di feedback che ti ridesta prima dell’ultimo ritornello di Slower.

Mentre mi godo queste sensazioni di cambiamento del sabato mattina, mi metto a organizzare la giornata. Verso le 19 stasera devo essere a Boulogne. Ottimo: una scusa perfetta per farmi una passeggiata di due ore e passa e attraversare il famoso Bois nell’aria meditabonda dell’“heure bleue”. Poi arriverò alla sala e ci sarà un grande concerto. Ricontrollo la pagina dell’evento per avere l’indirizzo preciso e l’occhio mi scivola su una parola in particolare: festival. Festival, festival, festival… Un festival? In questo momento dell’anno? Cosa?

Era ancora una fine settembre dal sapore estivo quando è stata annunciata la line-up del Festival BBMix. Appena ho guardato il cartellone due nomi, in un’associazione imprevedibile, mi hanno subito fatto saltare sulla sedia: Arab Strap e La Féline, una combo di artisti diversissimi tra loro che, per motivi diversi, volevo assolutamente rivedere. Ancora si usciva fuori di casa con le maniche corte, ai concerti si sudava tantissimo e la parola “festival” aveva quella naturalezza tipica delle giornate d'estate. Ne avevo anche fatti un bel po’ di festival quell’estate, più di quanti ne avessi mai fatti, e in tutto ciò avevo definito la mia politica a riguardo, ovvero: siccome sono sempre esperienze un po’ impegnative, non me la sento di fare più di una giornata e vengo solo il giorno in cui ci sono gli artisti che preferisco. Poi se scopro che lo spirito, la linea editoriale e l’organizzazione generale mi piacciono, tornerò l’anno dopo un po’ più studiato. Perciò a settembre prendo i miei biglietti per il sabato del BBMix con serenità e senza pormi la domanda che invece oggi mi preme: a cosa diavolo assomiglia un festival di periferia a inizio inverno?

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Lacrime di gioia con R. Aggs e la sua danza allegra contro un mondo malato

Arrivo al Carré Belle-Feuille con le gambe un po’ provate. La passeggiata di dieci chilometri e pochissime pause che ho appena fatto mi ha riportato coi piedi per terra, e specialmente la pettata di 45 minuti nel gigantesco Bois de Boulogne, molto meno bucolica del previsto, ha trasformato la mia energia minerale in uno stato meditativo un po’ triste (in sostanza ho attraversato un solo sentiero, costellato di prostitute e parallelo a uno stradone dove le macchine sfrecciano a tutta velocità). Succede.

Entro nel locale, che in realtà è un teatro dal retrogusto comunale. Assomiglia a quello che si dice di Boulogne nella regione: borghese, sì, e anche tanto, ma con un suo lato “street”. Nella grande sala dove di solito si va a prendere aria in mezzo a due atti, i 2 Limited DJ (un gioco di parole rivolto ai 2 Many?) stanno mettendo un disco dei Tropical Fuck Storm davanti al bar. Mi offro subito una birra ma mi accorgo che non posso portarla dentro la sala e mi trovo costretto a ingollarla in fretta e furia, in questo ambiente un po’ inedito, dove sono più giovane della media e forse anche un pochino intimidito.

Lo spazio dedicato ai concerti è bellissimo, un grande auditorium rosso e comodo. L’opening act monta sul palco poco dopo che mi sono seduto, le luci calano e non ci vuole un master in psicologia per accorgersi che l’intimidazione del luogo è arrivata anche lassù. Con la sua zazzerona di capelli, shorts da calcetto, calzini e camicia colorata, quest’artista che non conosco mette subito simpatia. Il tavolo pieno di cavi, aggeggi e altri oggetti esotici riflette quel caos ordinato tipico degli artisti e degli adolescenti, e quando noto la chitarra e il violino a fianco di tutto quell’hardware non ho idea di cosa aspettarmi.

L’artista in questione è Ray Aggs, personalità chitarristica molto attiva nella scena di Glasgow in tanti gruppi situati tra l’indie rock e il post-punk (Shopping, Trash Kit o Sacred Paws, toccherà recuperare), che stasera monta sul palco del teatro sotto al moniker solista R. Aggs. Chi mi legge sa quanto rispetto io abbia degli opening acts: quello di scaldare il pubblico, metterlo nel giusto stato d’animo, aprire le danze, creare interesse e aspettativa, è uno dei lavori più difficili al mondo. Fare bene una o più di queste cose è fondamentale: ho visto serate finire in sfacelo perché gli opening act non erano all’altezza. Ovviamente i modi per portare a termine questa missione di vitale importanza sono infiniti. R. Aggs, in una serata di musica essenzialmente triste, decide di farlo erogando buonumore sugli spalti come se stesse sparando da una pistola d’acqua. La sua musica, essenzialmente indie pop ma dalle solide fondamenta club music, si arricchisce di un chitarrismo dalle melodie rapide, dolci e concise che è semplicemente pieno di vita. La voce naïve ma dalle incursioni intense di Aggs, insieme a certi passaggi di violino, ogni tanto possono dare un’idea di malinconia. Ma non ci si può veramente intristire davanti al suo modo di ballare autentico e soprattutto al suo sorriso schietto, che trasmettono un bisogno sincero di elargire positività, mentre le drum machine e i synth spingono, spensierati.

Chiudo gli occhi e mi immagino sulla pista da ballo. Le canzoni si susseguono, e tutte scaldano il cuore. Alcune le ricordo ancora, ma non le ritrovo sui suoi due simpatici album su Bandcamp, il che lascia presagire l’arrivo di nuova musica (in compenso su Youtube trovate un intero concerto al bar alternativo Chair de Poule nell’undicesimo arrondissement, per rendervi conto del fantastico live act, e una chiacchierata di un’ora e passa con Big Jeff, il più leggendario spettatore di concerti della storia). Dei pezzi che ho sentito dal vivo, sono contentissimo di ritrovare la minimalista New Beat, che mi aveva colpito perché suona come quelle scrollate di spalle finto indifferenti che si fanno ripensando a una vecchia delusione amorosa.

Appena finisce un’altra canzone sorridente, R. Aggs mi prende alla sprovvista facendo il più bel discorso che abbia sentito quest’anno da un’artista sul palco: un momento di lucidità per pensare alla crudeltà del mondo, alla difficoltà di essere artisti e sentirsi a volte inutili, ma persistere nello scopo di diffondere messaggi che ci facciano sentire umani. Non si può veramente spiegare perché, ma mi ritrovo con le lacrime agli occhi come non succedeva da tempo. Non un luccichio, quello succede spesso, proprio le guance rigate. Meno male che siamo al buio (“I’d like to say that it’s nice to see you, but I can’t really see you”).

Per fortuna posso rimettermi a sesto ridendo un po’. Il finale è un omaggio alla musica house del Regno Unito, sopra le righe e teneramente comico: R. Aggs sbaglia a premere un bottone facendo glitchare tutto e a quel punto “fuck it”, prende la sua stessa musica e ci si diverte, la distorce, accelera i BPM all’inverosimile e ci fa il regalo di proporre qualcosa che nessuno risentirà più suonato così. Il concerto finisce e mi sento riempito di gratitudine. La nuova stagione, forse, mi rende ipersensibile. Ma indipendentemente da questo, mi commuove vedere ancora artisti impegnati in una causa fin troppo sottovalutata, quella di farci capire quanto l’autentica gioia possa essere un’arma potente per migliorare il mondo.

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Lacrime di nostalgia con La Féline e il suo sguardo sulla terra natale

Mi asciugo un attimo e ne approfitto per andare a fare un giretto di ricognizione. Il Carré Belle-Feuille si è riempito, anche di facce familiari. I DJ, che pensavo sarebbero serviti a chiudere la serata, sono lì soprattutto per accompagnare gli intermezzi, e spinnano roba simpatica compresi i Superchunk. Mi accorgo, però, che gli orari del BBMix sono belli serrati: non si ha nemmeno il tempo di fondersi un minimo con l’ecosistema che già bisogna tornare in teatro per un altro concerto. Ma è coerente che il rituale festival del solstizio d’inverno richieda una certa austera disciplina.

A questo giro mi siedo vicinissimo al palco: sono davvero curioso di rivedere La Féline, alias musicale della scrittrice Agnès Gayraud. Quando venne alla Ferme Electrique del 2022, se non ricordo male, veniva per rimpiazzare un gruppo un po’ all’ultimo minuto, ma ero riuscito comunque ad esplorare parte della discografia. Il pop curatissimo e sinuoso di album come il solenne Triomphe (2017) e l’esotico Vie Future (2019), in particolare, mi avevano decisamente ammaliato. Il concerto de La Féline dentro al fienile della Ferme, in compenso, era stato profondo quanto irrisolto: la voce e presenza carismatica della cantante e le sue linee di basso penetranti avevano sedotto praticamente tutti, ma la formazione estremamente scarna (solo un batterista con lei), in una setlist che proponeva canzoni decisamente barocche, aveva portato a un senso di incompletezza o di potenziale non del tutto sfruttato. Poi, verso la fine dell’anno 2022, è uscito Tarbes.

Al contrario dei suoi predecessori, quest’album ha un concept estremamente semplice: è un disco sulla città natale dell’artista, Tarbes per l’appunto, quarantamila anime nell’estremo Sud-Ovest. È un disco con meno florilegi e meno allegorie, più diretto e facile all’ascolto, i cui temi principali sono il ricordo, il passato perduto, le origini, che ovviamente a un trapiantato come me risvegliano sentimenti reconditi. Ed è per questo che sono euforico appena vedo La Féline (vestita di rosso sgargiante come l’ultima volta) che monta sul palco con altre tre persone e attacca con l’opener, Tarbes: a questo giro, con canzoni meno elaborate e più musicisti, penso che sarà un concertone. Sul mio volto c’è sorriso entusiasta quando Agnès Gayraud comincia a cantare: “Ça fait un moment que je ne suis pas retournée à Tarbes […] C’est un peu loin d’où je vis désormais. Les mois passent. La ville où je suis née, oh Tarbes”. Poi, porca puttana, risuccede: “Je pense aux Pyrénées […] Aux années de lycée, quand déjà je savais que je partirai un jour de Tarbes”. Lacrimoni di nuovo.

Gli acuti della cantante occitana sono il grido dell’emozione della mia quinta superiore a Firenze, la consapevolezza di allontanarsi da qualcosa di amato per una sorta di destino che sembra al contempo inevitabile eppure non del tutto sensato. Sono sensazioni quasi inspiegabili, che solo una voce speciale come quella de La Féline possono risvegliare. E così, mentre mi riasciugo questo pianto precoce, parte Une Ville Moyenne, una canzone d’amore verso la città dove si è cresciuti, dalle immagini semplici, da poesia crepuscolare: i gatti, i senza tetto, i muratori, “la folla graziosa delle strade pedonali”. Il pop dalle velleità funk è confortante, di una nostalgia senza tristezza. Mi riò, e finalmente mi posso godere la musica senza essere troppo sopraffatto dalle emozioni.

Il quartetto di stasera è composto dallo stesso batterista della Ferme, dallo stile discreto ed elegante, i sintetizzatori suonati da un’altra bravissima cantante e una chitarra blueseggiante che sa aggiungere quella vena di inquietudine tipica di quando il sound de La Féline si fa un po’ oscuro. È il caso, per esempio, di Place de Verdun, ricordo di una tumultuosa passione giovanile da vecchio film erotico francese, oppure Va pas sur les quais de l’Adour, una tenebrosa descrizione delle passeggiate che tutti noi abbiamo fatto almeno una volta in luoghi poco consoni allo “struscio”, senza sapere bene perché né per come. Ma Tarbes, che è il fulcro del set di stasera, è molto altro: sono le storie medievali delle nostre città, come quella di Jeanne d’Albret, canzone dall’epica tragica sulla regina protestante che bruciò la cattedrale (secondo la versione di Gayraud, lo fece lei stessa personalmente); è la malinconia di vedere le cose cambiare quando si torna a casa, come nella dolceamara Tout Doit Disparaître; sono le tradizioni che abbiamo nel nostro DNA anche se non le pratichiamo veramente, come quella della lingua occitana: la versione a cappella a due voci di Fum è da pelle d’oca.

Il concerto de La Féline, insomma, è toccante e mi entusiasma. Il finale è splendido: l’elegia de La Panthère des Pyrénées, omaggio alle nostre geomorfologie interiori e alle topografie della terra natale: pendii, creste rocciose, massi, animali mitici. Il crescendo è mistico e sensuale (come diceva il Maestro del pop sofisticato) e amo pensare che trasporti i presenti sulle proprie montagne del cuore: io personalmente mi immagino a fluttuare sopra al Passo dell’Abetone nell’Appennino Tosco-Emiliano. Allo stesso modo, la scanzonata Dancing parla della pista da ballo un po’ dubbiosa che ognuno di noi ha avuto in gioventù (ci si vergogna di parlarne, di questa, contrariamente alle montagne).

Sotto le note della strumentale vellutata de La Route de Pau, Agnès Gayraud e soci si prendono una pioggia di meritati applausi. “Bràva!”, le urlo, e a questo giro non è tanto perché voglio distinguermi dalla folla (in francese si usa “bravó” per dire “brava”, “bravi”, “brave”), ma perché mi sento davvero un po’ ritrasportato in quel labile concetto che è “la mia terra”. Ormai, dopo tanti anni qua in Francia, non saprei bene cosa vuol dire. Di sicuro, però, non è un luogo dove si dice “bravó” per applaudire i grandi artisti. Mi concedo almeno questo piccolo moto di fierezza, tipica di noi toscani, ma, si dice a giro, un po' anche degli occitani.

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Niente lacrime con gli Arab Strap e la loro autentica tristezza

Il prossimo concerto è tra quindici minuti e la coda al bar (per comprare birre “da shot”) sembra infinita. Onestamente, meglio così, la birra nemmeno mi va. È una serata più sentimentale che festaiola, e mi va di restare ancorato a questa comoda sedia reclinabile, a guardare Aidan Moffat con la sua barbona bianca che sistema il palco con faccia seriosa.

Non mi sembra cambiato per niente da quando ho visto gli Arab Strap in concerto l’ultima volta. Certo, era tanto tempo fa, e un’esperienza sensoriale del tutto diversa. Eravamo al Primavera Sound, avevo appena visto i Descendents (momento più bello della mia vita?) e Paolo quasi trascinò quel mucchio di stracci e sudore che rimaneva di me a vedere questo gruppo scozzese che non conoscevo, a parole sue “iconico degli anni ‘90”, di cui non sapeva veramente spiegarmi il genere. Ancora una volta, e sono due articoli di fila che lo dico, grazie Paolo. Quello che vedemmo quel giorno fu un concerto penetrante in tutti i sensi: ricordo ancora le drum machine a volumi altissimi che suonavano come bastonate, e la voce di Moffat che, pur non capendo niente di quel che diceva, mi raccontava storie sulla dura banalità, e la banale durezza, della vita. Dopo un concerto di musica adolescenziale, speranzosa (avevo perso la voce cantando Hope), ecco che mi piombò addosso l’immagine che avevo dell’età adulta. Dischi effettivamente iconici come The Week Never Starts Round Here e Philophobia in realtà sono stati pubblicati quando i due Arab Strap avevano 23, 25 anni, e raccontano della vita sociale studentesca, di relazioni un po’ casuali, di amici di amici, di feste e di eccessi: tutte tematiche giovanili, ma private di ogni tipo di spensieratezza. Persino The First Big Weekend, che a prima vista sembra una divertente epopea di cazzonaggine da liceale, in realtà è una canzone sul sentirsi fuori posto, incapace di divertirsi, tormentato da un sentimento di inadeguatezza sociale, in cerca di oblio… 

Nonostante la profondità dell’essenza della loro musica, gli Arab Strap possono avere anche un lato festoso e quella sera a Barcellona furono capaci di dosarlo come si deve, dimostrando di saper essere dei veri mattatori. Accompagnati da tanti musicisti, di cui anche un violino, i due scozzesi fecero uno show storico, emozionante e ricco di intrattenimento. Primavera Sound: Live in Barcelona (2017) degli Arab Strap è l’unico live album tratto di un concerto a cui ho assistito, o almeno l’unico che consideri davvero rilevante. È registrato benissimo ed è pure gratis su Bandcamp. Difficile trovare scuse per non scaricarlo.

Stasera tante cose sono diverse da quel giugno di sei anni fa. Non è solo che siamo in un teatro, o che è inverno. Stasera gli Arab Strap ci portano uno show che si chiama Philophobia Undressed. Il loro album di culto del 1998, Philophobia, verrà suonato per intero e, anzi, “denudato”, anche se non so cosa vuol dire. Due cose vanno specificate: uno, Philophobia è uno dei dischi più tristi che conosca. Due, ormai ho pianto a tutti i concerti di stasera, e anche per motivi abbastanza inspiegabili e imbarazzanti: ho un vero timore di cosa sta per succedere.

Ma poi, finisce che non verso nemmeno una lacrima. Non è che la performance non sia profonda o sentita, no. È che si può piangere di gioia, di rabbia, di commozione, di disperazione e di mille altre cose, ma è davvero difficile piangere di pura e semplice tristezza.

Gli Arab Strap montano sul palco in due, come nella loro formazione originale. Non ci sono fronzoli né arrangiamenti particolari: Aidan Moffat canta, manda delle basi semplicissime (basso, drum machine e un paio di strumenti al massimo) e suona un piatto e un timpano; Malcolm Middleton non molla mai la sua chitarra e disegna musica. Non è minimalismo, è essenzialità. La loro musica, non per caso, è indefinibile: indie sì, ma troppo poco energetico per essere rock e troppo poco orecchiabile per essere pop; elettronica sì, ma né veramente club, né veramente sperimentale. È musica che non vuole appartenere a un genere, ma il cui solo obiettivo è quello di comunicare.

Parte Packs of Three e piombiamo subito in un oceano di nichilismo. Moffat parla di dispiaceri sessuali con una tonalità che ti stringe le budella e il suo accento scozzese, che sei anni fa nell'euforia generale mi era sembrato un elemento di “novelty”, oggi mi appare come uno strumento, per l'appunto, di messa a nudo. Tante band scozzesi ci hanno insegnato che di cantare in “BBC English” ne sono facilmente capaci. Cantare nella stessa maniera con cui si parla nella vita vera è la scommessa di chi accetta di portare gli ascoltatori nella propria quotidianità. E nello squallore degli aneddoti di chi è cresciuto troppo in fretta nella Glasgow a cavallo tra anni ‘80 e ‘90, fa male catapultarcisi. Il bello di Philophobia, però, è che la sua musica è deprimente ma mai repulsiva, e nel dolore si aprono tantissimi spiragli di lancinante bellezza: il riff che arriva alla fine di Here We Go è cupo ma dolce come una carezza, la coda distorta che nobilita il mogio spoken-word di New Birds è esaltante, il lungo tappeto sonoro di Islands è un barlume di speranza (“There’s land ahoy”). In molti, me compreso, hanno detto che in fondo Philophobia è un disco slowcore, ma anche questa definizione gli sta stretta: ci sono canzoni che sono persino vivaci, come Not Quite a Yes, un bilancio crudo sulle contraddizioni di quello strano costrutto sociale che è la seduzione.

Un’altra cosa davvero impressionante di Philophobia è come sia un album tristissimo e lungo più di un’ora ma che in realtà è ben digeribile e scorre in fretta. Ogni canzone è un piccolo pugno nello stomaco, ma sempre nuovo e che ti lascia sempre la curiosità di vedere come sarà il successivo. “It’s not the most cheerful record”, dice Aidan Moffat in glaswegian, facendo ridere nervosamente tutto l’uditorio. I Would Have Liked Me a Lot Last Night colpisce particolarmente in profondità: sarà che ho appena letto Trainspotting, sarà che mi ritrovo a pensare che è stata scritta 25 anni fa da due ragazzi di 25 anni, e che ho 25 anni in questo momento… Resta una canzone di un’attualità disarmante, che racconta tutto ciò che non vorrei diventare e che ho paura che i miei amici diventino, una dichiarazione di annichilimento spaventosissima. Philophobia finisce di divorarci i sentimenti con la closing track The First Time You’re Unfaithful, donandoci, dopo tanta inevitabile volgarità (sesso, droga, gelosia…) una prova di delicatezza e di coscienza di sé: “You said you know what I’m like”…

Sentire Philophobia è stato un privilegio irripetibile, e non me ne frega nemmeno granché di pretendere una First Big Weekend (per quello posso aspettare il PS 2024). L’encore ci vizia comunque con due canzoni del repertorio “quasi-ballabile” degli scozzesi: The Turning of Our Bones, coito inquieto e perverso, e la struggente The Shy Retirer, grande classico nonché una di quelle rare canzoni che sanno rendere la house music tragica.

Il concerto termina ed è stato molto apprezzato da tutto il pubblico. Sondo rapidamente i volti dei miei vicini di posto: sono tutti seri, non contriti ma sicuramente segnati. Chi è venuto da solo, come me, non sembra volersi attardare nell’atrio tra bevande, DJ e merchandise. Dopo il set degli Arab Strap, accogliere il freddo delle strade di Boulogne e crogiolarci nella consueta solitudine della metropolitana sembra un buon piano per sentirsi bene.

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Conclusione: la stagione continua

La giornata di oggi, e la musica di stasera, dipingono perfettamente la parabola delle sensazioni dell'arrivo di un lungo inverno. All'inizio un entusiasmo che sfida l'intimidazione del freddo con ottimismo. Poi, subito dopo, una languida malinconia che però dà ancora un sentimento di conforto inspiegabile e domestico. Infine, l’accettazione che la semplice e pura tristezza esiste, e che bisogna viverla senza artifici se non, al limite, un briciolo di fiera rassegnazione. In questo trambusto emozionale, il Festival BBMix ha avuto il ruolo di fautore della catarsi, come le tragedie in un teatro greco: la serata di oggi è stata un vero e proprio rituale di purificazione.

Durante il suo set, a un certo punto La Féline dice che anni fa era venuta al BBMix per vedere gli Young Marble Giants. È lì che mi sono incuriosito davvero alla filosofia del festival e ho esplorato le vecchie line-up. A parte che ci sono stati headliner da capogiro, tutti con un'essenza squisitamente invernale, ma poi hanno tutti come fil rouge il concetto stesso di catarsi: Swans, Spain, Boris, James Chance & The Contorsions, Wire, Faust… Andare a un festival per ritualizzare l'arrivo della stagione più dura dell'anno e accettarla con naturalità mi sembra un concetto bellissimo. Magari l'anno prossimo sarà tramite scariche di drone e shoegaze, ritmi sabbatici e ossessivi oppure ancora con la crudezza di uno slowcore scheletrico. Poco importa: l’idea mi convince e l'anno prossimo presenzierò. 

Ma l'anno prossimo è ancora lontano. È cominciato un lungo inverno, e probabilmente non sarà facilissimo. Ma la stagione continua.