mercoledì 27 marzo 2024

Nuovo Cinema Inferno - Tra musica estrema e film d’autore (Bo Ningen suonano The Holy Mountain, Attila Csihar suona Nosferatu)

Babylon Orchester Berlin suona Metropolis live @Babylon Kino, Berlino, 21/01/2024

A gennaio, in una Berlino innevata, mio babbo mi propone di andare a vedere Metropolis di Fritz Lang. Devo ammetterlo: mi piacciono i film ma non mi definirei mai un nerd del cinema quanto posso esserlo per la musica. L’idea di andare a vedere un film muto tedesco del 1927 che dura due ore e mezza, perciò, mi fa specie. È un po’ come avessi un amico che ascolta giusto un po’ di classic rock e di hip-hop alla bell’e meglio e lo invitassi a casa per spararci The Tired Sounds of Stars of the Lid dicendogli ogni cinque minuti: “Senti senti, questa parte che arriva ora è una figata”. E se sono totalmente il tipo di persona che magari si esalta con il suono del synth modulare o la progressione dei droni, non penso che riuscirò mai ad andare in fibrillazione davanti a un grandangolo pionieristico o a una tecnica di montaggio sperimentale. Ho un grande rispetto per i geek del cinema, tanto che, ad esempio, seguo varie pagine su Instagram che divulgano contenuti su film importanti di tutte le epoche, compresi gli anni ’20 (ne consiglio due: @thefilmpope e @artoflightandshadow). In compenso non mi passerebbe per l’anticamera del cervello di spendere il mio tempo libero a guardare vecchi film muti che mio malgrado mi annoierebbero a morte. Ciononostante a questo giro accetto di buonissimo grado l’invito per andare a vedere Metropolis, e il motivo è semplice: ci sarà un’orchestra che suona mentre il film viene proiettato.

Non ho una grande cultura riguardo al cinema muto, né ho una particolare voglia di averla. Che (certi?, tutti?) i film muti avessero una colonna sonora che veniva suonata da un’orchestra lo sapevo, ma non avevo mai provato l’esperienza, e devo dire che l’occasione berlinese è particolarmente calzante, non solo per la coincidenza geografica ma anche perché, oltre che Metropolis stesso, anche la musica che herr Gottfried Huppertz ha composto per esso viene considerata un capolavoro della sua epoca. Concepita sia come accompagnamento e sottofondo alle scene del film, sia come vero e proprio montaggio sonoro in compendio a certe sequenze, la suggestiva colonna sonora che la Babylon Orchester Berlin ha eseguito in quella serata di gennaio in effetti suscita ancora uno stupore quasi infantile quando viene affiancata alle immagini distopiche del mondo ultra-capitalista ideato da Lang. Le scene industriali, inevitabilmente datate e inverosimili ai miei occhi, acquistano tutto un altro sapore quando le percussioni vanno allo stesso ritmo dei macchinari e i fiati emulano il vapore compresso che esce dai tubi di metallo delle fabbriche. Quel che è impressionante delle soluzioni trovate da Huppertz, però, è che non sono soltanto spettacolaristiche ma spesso danno anche una chiave di lettura (emotiva o politica che sia) al film. Ad esempio, in una pellicola dalla morale sostanzialmente socialdemocratica, le scene di rivolta di popolo (l’elemento più “kolossal” del film), sono rese ridicole e bislacche da temi musicali che ricordano una versione loffia dell’inno francese (ho trovato l’estratto!, Metropolis, Op. 29, Act III "Furioso": Die Aufwiegelung der Arbeiter).

Se c’è un tipo di musica che quasi non ascolto e che di certo non tratterei mai su Stereo Totale, è proprio la musica “colta”, termine ombrello per tutte le partiture (medievali, classiche, barocche, contemporanee etc.) che si tramandano tra complessi musicali per essere eseguite in concerti disparati, che raramente hanno una versione “originale” e che quasi sempre sono accompagnate da diciture tipo “Op.” che intimidiscono i profani come me. Avrò sempre, sempre, l’impressione di non capirne abbastanza. Ed anche per questo che non voglio dilungarmi troppo sulla serata al Babylon Kino di Rosa-Luxemburg-Platz che alla fine, nonostante la maestria dei musicisti, ho vissuto più come una visione cinematografica che altro: la mia concentrazione è sempre rimasta sullo schermo e, pur apprezzando molto la musica, non le ho prestato un’attenzione piena come potrei fare a qualsiasi altro concerto. Quel che è certo, ragioniamo io e mio babbo nel briefing serale, è che senza orchestra il film sarebbe stato ai limiti dell’insostenibile, e che in un contesto musicato se ne possono quantomeno apprezzare senza cascaggini il valore storico, le trovate avanguardiste e un taglio registico che ancora oggi può avere dei momenti avvincenti.

Lo so che la mia visione che accantona tutta la musica “colta” in quell’unica grande categoria di musica lontana dal mio interesse è ridicolmente riduttiva. Devo questa disdicevole formattazione personale al fatto che l’interessarmi di musica “popolare”, nella sua sconfinatezza, mi sembra già un’impresa titanica. Ma mi rendo conto che non è una buona scusante, anzi, ammetto io stesso di dimostrare una certa chiusura mentale. Tuttavia, se le colonne sonore dei film d’autore e specialmente quelli muti restano un ascolto piuttosto di nicchia, mentre le immagini e le pellicole restano impresse nell’immaginario collettivo, forse la ragione è che il fascino per gli attori, i costumi, le scenografie e tutto ciò che entra in una macchina da presa è in qualche modo molto più universale che quello per le progressioni armoniche o il contrappunto degli archi e dei fiati. Ed è anche la ragione per cui tanti artisti di musica “popolare” hanno voluto mettere anche loro un’impronta sulle suggestioni che Metropolis genera da quasi cent’anni a questa parte: il lato neobarocco e quasi “glamour” del film è stato esaltato dalla compilation di canzoni synth-pop sbrilluccicanti prodotte da Giorgio Moroder nel 1984 (con ospiti del calibro di Freddie Mercury e Pat Benatar); il lato futuristico e robotico, invece, è il protagonista di un’ora di musica techno modulare ideata da Jeff Mills nel 2000; i temi cupi e inquietanti che permeano molte parti del film (dall’alienazione operaia fino alle stranezze dei doppelganger) sono stati invece ben valorizzati in Vertikal, un originalissimo concept-album post-metal pubblicato dai Cult of Luna nel 2013.

Insomma: non è raro che certi film iconici del passato lascino il segno su gruppi odierni tanto da portarli a dedicar loro opere musicali come lo sopracitate. In compenso, sono in pochi i folli che decidono di lanciarsi nell’omaggio definitivo, ovvero la complessa avventura di riscrivere di sana pianta un’intera colonna sonora. Comporre una colonna sonora per il grande cinema è un’arte complessa, estremamente tecnica, e la maggior parte di quelli che lo fanno di mestiere hanno quasi sempre una formazione musicale prestigiosa, lunga e impegnativa, cosa che invece è risaputo che i musicisti “rock” non hanno quasi mai. Per proporre al loro pubblico la colonna sonora di un film, perciò, questi ultimi devono essere o dei veri virtuosi o veramente bravi a intortare a dovere i loro spettatori. Una cosa è certa: ci vogliono due palle quadrate per osare prodigarsi in una performance di musica popolare rumorosa, della lunghezza di un film, con l’obiettivo di rispettare costantemente i tempi, le atmosfere e le immagini concepite da un regista che, oltretutto, non ha nemmeno lavorato a tu per tu con i musicisti. Ed è quello che penso quando, travolto da una curiosità elettrizzante, compro i biglietti per due proiezioni-concerto che, a distanza di una quindicina di giorni, mi sapranno dare una visione d’insieme più completa su una delle più ambiziose iniziative che un musicista odierno possa intraprendere. E la line-up di questo breve ciclo cinematografico-rock, permettetemelo, è da capogiro, che si tratti di chi suona o ancora di che film viene proiettato.

Si comincia con un film che amo alla follia accompagnato da una band che conosco poco e che mi affascina molto: La Montagna Sacra (1973) di Alejandro Jodorowski suonata dai Bo Ningen. Ho visto il capolavoro surrealista del regista cileno anni fa con degli amici di Firenze, in una serata cineforum un po’ caciarona, consigliati da un amico meridionale che, per sua fortuna, non era avvezzo alle nostre disdicevoli proiezioni (abbondanti in trash italiano e americanate action di bassa lega). Finì che a metà del film eravamo tutti con la mascella per terra davanti a un film che ancora oggi è sorprendente dal primo all’ultimo fotogramma. The Holy Mountain non ha una vera e propria trama ed è quasi privo di dialoghi ma, mandando gli spettatori in overdose di simbolismi, riesce ad essere uno tra i film più avvincenti che conosca. Inoltre, ha una produzione quantomeno funambolistica, basti pensare a quante sculture o arredamenti creati ad hoc o quanti animali più o meno esotici siano stati impiegati nelle riprese, una più scioccante dell’altra. L’idea di avere un gruppo noise-rock giapponese distortissimo, jammone ma al contempo chirurgico e preparato (ascolto un paio di album prima di andare a vederli e cavolo se mi ricordano i Boris della prima metà degli anni 2000…) per sostituire i droni angoscianti della colonna sonora originale (che è del leggendario free-jazzman Don Cherry, non un tiziocaio qualunque), mi seduce completamente.

La seconda serata è il contrario di quella dei Bo Ningen, perché c’è un artista che posso facilmente considerare uno dei miei idoli ad accompagnare un film che non conosco ma le cui immagini occupano già dello spazio nel mio cervello: Attila Csihar che si prodiga in una colonna sonora live di Nosferatu del 1922 del maestro Murnau. Sono talmente ignorante sul tema da pensare, di primo acchito, che si tratti del film che ha reso celebre Bela Lugosi ma invece no, si tratta in realtà di una pellicola tedesca un po’ più antica della quale si tramandano ancora, in tutte le pagine che omaggiano l’horror e la musica dark, i celeberrimi fotogrammi che mostrano l’ombra di un essere umanoide dalle dita lunghissime. I film horror (diciamo dagli anni ’80 in su) mi piaciucchiano anche abbastanza, perciò non sono restio all’idea di vedere uno dei loro capisaldi. Certo, si tratta pur sempre di un film di cent’anni fa che potrebbe riconfermare fortemente le mie incapacità di apprezzamento del cinema pioneristico degli anni ’20. Ma non importa: fremo anche solo all’idea di vedere dal vivo uno dei cantanti che mi hanno regalato uno degli ascolti più sconvolgenti della mia vita, ovvero il primo LP della band black metal norvegese Mayhem, quel capolavoro di De Mysteriis Dom Sathanas (1994). La voce dell’ungherese Csihar, in quel disco e non solo (basti pensare alle collaborazioni coi Sunn O)))), è per me iconica: un insieme di grottesco, delirante, oscuro, nevrotico e malvagio che non si trova in praticamente nessun’altro vocalist del metal tutto. Il “pairing” col film, anche se non l’ho mai visto, mi sembra azzeccatissimo.

Mi imbarco perciò in questa doppia avventura proprio con lo scopo di vedere com’è che due artisti di musica estrema si confrontano alla sfida della colonna sonora, ma anche per sondare le varie maniere con cui la resa audiovisiva di questa impresa può essere restituita. Raramente, negli ultimi mesi, sono stato così curioso di vedere due concerti.

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Bo Ningen suonano The Holy Mountain live @La Station – Gare des Mines, Parigi, 29/02/2024

Arrivo alla Station – Gare des Mines preciso per l’apertura cancelli. Non sono mai venuto in queste periferiche contrade: il passaggio sopraelevato che attraversa la circonvallazione a Porte d’Aubervilliers porta sensazioni di inquietudine post-moderna, e l’edificio un po’ “délabré” pare un Berghain de noantri. In quanto ad atmosfera, il luogo mi sembra perfetto per ospitare un evento tra l’oscuro e il frizzante come “Bo Ningen – The Holy Mountain Live Score”. Perciò entro nella sala carichissimo per la proiezione e scopro con sommo sbigottimento che non ci sono posti a sedere. Non solo: il palco è ovviamente provvisto di un telo da proiezione, ma quest’ultimo non è posizionato molto in alto rispetto al palco e perciò è parzialmente coperto dalle aste dei microfoni panoramici. Non voglio lamentarmi perché ho pagato appena quindici euro che sono oggettivamente un nonnulla. Resto, però, quantomeno perplesso: l’esperienza di andare al cinema e restare in piedi per tutto il film, in più con una pletora di elementi che mi ostacolano la vista, non mi è mai capitata, e forse un motivo ci sarà.

In realtà, il cine-concerto di stasera sembra organizzato molto più per essere un concerto che un cine. C’è pure un gruppo locale a fare da opener, Pam Risourié, un quintetto che propone uno shoegaze essenziale e senza troppi fronzoli. Rifletto, col compare Paul, sul fatto che di gruppi di shoegaze nudo e crudo non capita quasi più di vederli, quantomeno nelle serate un po’ indie a cui siamo ormai più avvezzi, e francamente è un peccato, perché anche se ormai è quasi impossibile trovare ancora dei fattori novità in questo genere una bella scarica di feedback eterea ed emozionale ogni tanto è necessaria per purificarsi di tuttolo stress metropolitano che ci ricopre. E perciò, pur non sguazzando nell’originalità, ci godiamo una mezz’ora di dream-pop dalle chitarre ben stratificate che ci mette in pace con noi stessi, e non solo perché i volumi sono terapeuticamente alti, ma anche perché la voce effettata del cantante arriva dritta al cuore, gli arpeggi melodici trasportano la mente nell’etere e le ritmiche essenziali e monotone portano alla trance. Un pezzo come You Are The Sound, ad esempio, anche se suona come un vecchio B-side degli Slowdive, ha il potere di levigare l’anima. Perché, tra tutti i sottogeneri rock rumorosi, nessuno come lo shoegaze assolve la funzione di terme dello spirito.

Il concerto è stato bello ed emozionante, non abbiamo nulla da ridire a riguardo, ma non possiamo esimerci dal commentare: a cosa serve mettere un opening act di questo tipo prima di un concerto così sui generis per visual, concetto e immersività? Anche solo la sua lunghezza: se veramente i Bo Ningen suonano per tutta la durata del film, c’abbiamo da stare in piedi le prossime due ore. Ma se la musica fosse cibo, io sarei Poldo Sbaffini, quindi mi preparo all’abbuffata e non mi lamento. La sala è discretamente riempita, ma abbiamo trovato una postazione piuttosto corretta per vedere lo schermo eppure, dannazione, per quanto il setup venga rimaneggiato le aste dei microfoni restano lì dove sono. Perciò, appena i quattro giapponesi montano sul palco e si mettono a sedere, con una parte delle loro teste che coprono ancora di più la visuale, applaudiamo sentitamente, ma sotto sotto siamo pensando che l’organizzazione della serata ci lascia un po’ dubbiosi.

Poi, però, comincia il film. E la potenza delle sue prime esoteriche immagini (L’Alchimista che taglia i capelli alle sue adepte) mi fa dimenticare tutto. Soprattutto, la musica è suggestiva tanto quanto il film: l’ostinato ritmico di Mon-Chan, batterista ipnotico, fa da tappetto per le psichedelie chitarristiche e modulari degli altri membri, scorribande sonore talmente volatili che al primo ascolto di The Alchemist ci troviamo a pensare che non sia una composizione, ma una jam. E invece no: i cambi repentini di scena e di musica sono di una sincronia eccezionale, tanto che dal pubblico partono urla e applausi anche se la band non si ferma (saranno pochissime le pause, in concomitanza con due o tre linee di dialogo). Durante la prima indimenticabile sequenza di peripezie del protagonista (la figura cristologica accreditata come Il Ladro) che si reca nella città della perdizione, il groove funky e le chitarre alienanti di City 1: The Capital sono talmente originali e potenti (la grancassa nell’impianto scassa tutto) che è difficile scostare lo sguardo dai talentuosissimi rocker che hanno congegnato tali canzoni (e che occupano così tanto spazio nel campo visivo). Al contempo, gli occhi terminano inevitabilmente sulla pellicola di Jodorowski, talmente sono surreali e disturbanti le sue immagini (il nano mutilato, il circo delle rane che esplodono, le figure inquietanti dei soldati con le maschere a gas)… Insomma, il fatto che la band copra parte dello schermo e che lo schermo mostri qualcosa di così totalizzante finisce per non far primeggiare nessuna delle due componenti dello show, facendoci godere di entrambe.

I Bo Ningen hanno una maestria tutta loro nell’inventare musiche che immergano lo spettatore nel film, e alternare sezioni dark ambient (Wax Dummies, con le sue vocals bisbigliate da reparto psichiatrico) che si sposano bene con le scene più metaforiche ed emotive (Il Ladro viene “clonato” in centinaia di statue con le sue sembianze), a sezioni estremamente ritmate di un kraut/noise-rock che aizza gli spettatori e li esalta nei momenti di massima adrenalina visiva. Appena Il Ladro entra nella torre dell’Alchimista e attacca lo sconquassante freak-funk di The Duel, il bassista e leader della band Taigen Kawabe si alza persino in piedi coprendo metà dello schermo ed è come se facesse parte del film e fosse entrato anche lui nelle mistiche stanze fuori dal tempo ideate da Jodorowski. Se al cinema avremmo detto al musicista: “Per favore, levati di lì”, stasera viene invece la tentazione di dirgli: “Sei un grande per esserti messo in mezzo, continua a trasmetterci quest’energia”! I colpi di musica vanno persino a tempo con il combattimento: dal pubblico salgono urla, come attorno a un ring.

Il concerto scorre senza annoiare mai, ed è pieno di sorprese. Penso ad esempio alla sconquassante pedalata poliritmica di Venus, che fa tremare tutta la stanza mentre assistiamo alla geniale rottura della consecutio temporum che avviene attorno ai tarocchi roteanti, introducendo nuovi personaggi uno dietro l’altro. O ancora la lisergica Uranus, dove il synth si prende nuovi aleatori spazi melodici, in una techno analogica trascendentale che fa saltare sul posto più di una persona in sala. E come dimenticare, poco dopo, le potenti scosse stoner metal di Pluto, ovvero il mio primo headbanging serio davanti a un film.

I Bo Ningen, insomma, svariano tra generi in maniera sempre stupefacente ma al contempo naturale e soprattutto favolosamente coerente con il susseguirsi delle scene. Ci sono persino sezioni che omaggiano in maniera palese le dissonanze della soundtrack originale di Don Cherry, come le sbilenche improvvisazioni (che poi in realtà rispettano con precisione millimetrica il montaggio) di Journey, l’inizio dello psichedelico viaggio verso la Montagna Sacra. Il film sta per volgere al termine e le gambe sono provate. Va detto: il comfort non è stato troppo di casa stasera. Eppure, se gli Spinal Tap esaltavano comicamente “the great discomfort of great rock’n’roll”, stasera mi sento di dire che anche un film come quello di Jodorowski, ostico e conturbante quanto rivelatore (“it should change your life, not necessarily for the better”) è adatto a una visione un po’ dolorosa e catartica. The Climbing, il crescendo inebriante (e rumorosissimo) che accompagna l’arrivo alla cima, provoca persino un piccolo mosh-pit: ormai siamo all’estasi di massa. E poi, finalmente, arriva lo spiazzante finale del film, che disorienta tutti. I Bo Ningen ringraziano, annunciano che tutta la musica sentita stasera uscirà su un album di lì a poco e, sui titoli di coda, suonano un main theme arabeggiante che è tra le più belle cose che io abbia ascoltato quest’anno (è rimasto inedito, speriamo venga pubblicato presto).

Usciamo dalla sala, per usare un inglesismo, con la testa esplosa, dopo le due ore più intellettualmente stimolanti dell’anno. Montiamo sul tram, io verso Ovest e Paul verso Est. Entrambi, arrivati a casa, rideremo scrivendoci che sui mezzi pubblici sembrava di essere a un cineforum: si sentiva discutere di cinema e di musica da ogni parte. L’album è uscito due giorni dopo: lo riascoltiamo e non solo è fantastico, ma è anche uguale spiccicato, in ogni sfaccettatura, alla performance che abbiamo visto live. Di una serata piena di dolci interrogativi (perché c’è un bel gruppo shoegaze a suonare?, boh, godiamocelo; perché non ci hanno messi a sedere?, boh, saltiamo) ne resta uno principe, ovvero: perché diavolo l’uscita di questo album che tutto sommato è un evento, per un gruppo giapponese di fama internazionale, ha fatto l’oggetto di due soli unici e singoli concerti, di cui il primo in anteprima mondiale a Parigi? Boh. La vita è bella.

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Attila Csihar (Void ov Voices) suona Nosferatu live @Club de l'Etoile Cinéma, Parigi, 15/03/2024

È venerdì sera e sono un po’ stanco dal lavoro. Ho bisogno di una scossa e perciò comincio a immaginarmi la serata di stasera. Finalmente, per la prima volta, vedrò Attila Csihar vestito in maniera tenebrosa come lui sa fare che urla nel microfono mentre sullo sfondo un vampiro assetato di sangue attacca le sue vittime gelandomi il sangue nelle vene. Per quello strano fenomeno tipico dei film horror (c’entrano la mistificazione della realtà e senza dubbio il rilascio di endorfine), la prospettiva di cominciare così il weekend mi mette di buonissimo umore.

Non vengo mai in questo quartiere: appena scendo dalla metro e vedo l’Arc de Triomphe mi viene quasi da ridere pensando a quanto cozzino la potenziale rozzezza del concerto di stasera con la finezza dei ristoranti e degli interni di ogni palazzo che sbircio mentre cammino verso il Club de l’Etoile. La venue di stasera non è una sala concerto ma un piccolo cinema d’essai. Appena vengo accolto con grandi sorrisi dal personale che mi indica dove andare per raggiungere la platea, mi appare in maniera lampante che la serata di stasera è una perfetta sintesi di quel che ho potuto vedere a Berlino e dell’esibizione dei Bo Ningen alla Gare des Mines: un cine-concerto dove ci si sente più al cinema che a un “gig”, ma dove la musica estrema può avere le sue cose da dire. Il pubblico ovviamente è super-metallaro e, anche se non parlo con nessuno, mi dà una confortevole sensazione di casa. E non è l’unica cosa confortevole che c’è stasera: la mia bella poltrona rossa è parecchio comoda, e il bar giusto accanto serve lattine di birra a basso costo che si possono consumare direttamente al proprio posto. Praticamente, manca solo un massaggio.

Sono sbarcato in questo cinemino senza fare particolari studi preliminari su chi sia l’artista e cosa faccia dicendomi che diavolo, saranno dieci anni che ascolto i Mayhem, mica ce n’è bisogno. Peccando di superbia, però, perché della carriera recente di Csihar solista mi sono perso un tassello fondamentale. Eppure c’è scritto chiaro e tondo nel manifesto della serata: il cantante stasera presenta Void ov Voices, un nuovo progetto dark ambient in cui la sua voce, mediata dall’uso di loop e marchingegni vari, produce una gran varietà di sfumature ritualistiche, tra droni, throat singing e gli stili canori a cui ci ha abituato nella sua carriera di leggenda del black metal. Il primo e per ora unico album della serie Void ov Voices, che si chiama Baalbek, è uscito un anno fa ed è un’opera piuttosto interessante, spiccatamente sperimentale, dove convivono sia un raffinato senso del macabro, sia un certo misticismo spiritico. Non sarebbe stato male ascoltarlo prima di venire al Club de l’Etoile, ma non si può fare tutto nella vita.

Sul palco, accanto allo schermo, un’assistente accende le candele posizionate su un altarino ornato di simboli pseudo-satanisti. È il segnale che la musica sta per cominciare: si spengono le luci, appaiono i primi titoli sullo schermo e la tensione è palpabile. È perciò un po’ spaesante veder salire Attila Csihar sul palco non con solennità, bensì con una certa qual timidezza, evitando di interferire con la proiezione in maniera un po’ goffa e ingobbita. Soprattutto, il cantante è vestito e truccato come l’iconico Nosferatu interpretato da Max Schreck di cui tra poco vedremo le malefatte: pallidissimo, gli occhi infossati, una grande testa pelata. Il travestimento è grottesco, sì, ma in maniera un po’ demodé e quasi comica. Dal pubblico si sentono salire un paio di risolini nervosi.

Il film inizia con un’introduzione tratta da un libro fittizio a caratteri gotici, che annuncia la storia degli eccidi che colpirono la città tedesca di Wisborg. Subito Attila comincia a cantare ed effettivamente ricevo quello per cui sono venuto: seppur moltiplicata in mille canali diversi su frequenze variabili e dissonanti, la voce dell’ungherese è inconfondibile, i suoi rauchi vocalizzi di gola austeri e potenti. Osservo per un attimo il cantante che aggeggia con i suoi FX e contorce suoni nel microfono e, per quanto abbia il suo perché, mi rendo subito conto che il focus dell’evento è comunque quello che appare sullo schermo. L’emozione per la musica è comunque forte e la curiosità per il film sale.

L’horror, nel 1922, era ai suoi inizi e l’espediente narrativo dell’incipit idilliaco che viene turbato da un evento esterno non può mancare. Le prime scene che mostrano il contesto sereno della vita quotidiana dell’agente immobiliare Hutter, da poco sposato con la sua mogliettina Ellen e ben insediato in una graziosa abitazione, sono però le prime a farmi sorgere dei dubbi sulla performance di stasera. In effetti, nonostante Csihar sia anche bravo a variare i sentimenti dei suoi vocalizzi da una scena all’altra (prodigandosi ora in nenie gregoriane, ora in sussurri schizofrenici, o ancora in scream laceranti), il sostrato drone vocale inquietante di Void ov Voices rimane sempre presente pure nelle scene più innocenti, e sentire dell’ambient dalla forte connotazione black metal mentre si osserva una scena di sbaciucchiamenti mal invecchiata, per quanto possa essere “artsy” la cosa, mi lascia perplesso.

Sono molto più riuscite le scene successive: l’interpretazione in chiave growl delle risate di Knock, il malefico notaio che invia Hutter a firmare contratti con il Conte Orlock (ovverosia Nosferatu), oppure le cupe atmosfere dei Carpazi e del castello del Conte, scenografie suggestive e ben adatte all’accompagnamento musicale che il cantante dei Mayhem sta intrugliando, chino sui suoi accessori e il microfono fisso nella bocca. Eppure, seppur le transizioni sonore quando ci sono tagli narrativi e di montaggio importanti siano piuttosto nette, l’impressione è quella di star assistendo, più che a un concerto o a una vera colonna sonora, a un’installazione che omaggia le grandi tradizioni improvvisative contemporanee, installazione certo ragionata, munita anche di un canovaccio congegnato con intelligenza, ma pur sempre estremamente concettuale. Che sia l’iconica voce dell’idolo Attila Csihar ad accompagnare il film, a un certo punto non basta più. Inoltre, la pellicola è tanto vecchia, tanto lenta, e la dark ambient è pur sempre ambient e ne ha lo stesso valore avvolgente. Finisce perciò, con grande vergogna, a sonnecchiamenti e sobbalzi. A più riprese, sentendomi colpevole di star sprecando l’occasione di vedere un evento unico nel suo genere, mi ridesto e provo a prestare tutta la mia attenzione alla regia di Friedrich Wilhelm Murnau, ma dopo una decina di minuti di inquadrature fisse del mostruoso e inespressivo Nosferatu, o dell’eroico e troppo espressivo Hutter, ritorno inevitabilmente a ripetermi quell’“è troppo per me” che già avevo constatato davanti a Metropolis e cedo di nuovo. A differenza del film di Lang, però, stasera non c’è un accompagnamento musicale baldanzoso e spettacolare che mi mantenga pimpante. Mi arrendo perciò alla constatazione che non sono fatto per apprezzare il cinema degli anni ’20 e, dopo aver comunque visto un buon 70% della pellicola, la schermata di fine mi appare quasi come una liberazione. Me ne vado dal Club de l’Etoile un po’ frastornato e, soprattutto, con nuovi spunti, purtroppo negativi, sul bilancio finale che posso fare delle ambiziose iniziative di cine-concerto che la vita culturale parigina può offrire di quando in quando.

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“Qual è la miglior maniera di imbastire la proiezione di un film concomitante con un’esibizione musicale?” è la domanda alla quale, implicitamente, avevo voglia di rispondere quando mi sono deciso a scrivere questo resoconto di un piccolo ciclo cinematografico un po’ singolare. Come quasi tutte le domande che mi spingono a riportare le mie impressioni e riflessioni e a condividerle su internet, più scrivo più finisco a rendermi conto che in realtà è una domanda un po’ idiota. Che si tratti di vedere un film in un grande cinema con l’orchestra nella fossa come se fossero gli anni ’20, di spararsi due ore di concerto noise-rock in piedi osservando le visual con un po’ più di attenzione del solito, o ancora di osservare una pellicola mentre un artista ambient improvvisa una colonna sonora giusto accanto allo schermo, di nessuna delle tre esperienze potrei dire che non siano state organizzate con cura, raziocinio e un profondo rispetto sia dell’espressione dei musicisti sia della settima arte.

La verità è che la sensibilità di ciascuno influenzerà sempre la sua visione di un concerto, e che quando due mezzi di comunicazione vengono a fondersi in un unico evento la proposta artistica acquista non solo il doppio della complessità ma anche una serie di rischi nei riguardi dell’apprezzamento del pubblico. È questa in fondo la grande sfida di serate in cui la musica estrema come il rock sperimentale dei Bo Ningen e la dark ambient vocale di Attila Csihar osano fusioni con film non di certo per le masse come La Montagna Sacra e il primissimo Nosferatu. Far coincidere nel diagramma di Venn gli amatori di un cinema talmente d’autore con una musica talmente di nicchia può essere un’impresa difficile.

Il caso dell’esibizione di Void ov Voices ne è un esempio lampante: da appassionato di black e drone metal posso apprezzare l’idea, il concetto e anche tutti gli elementi della realizzazione di una serata in omaggio a un capolavoro del primo cinema espressionista tedesco, ma da persona incapace di emozionarsi davanti a vecchi film degli anni ’20 mi scontrerò sempre davanti al limite invalicabile della mia ignoranza, restando recluso in un reame di noia della quale sarei quasi tentato di vergognarmi ma che mi ritrovo obbligato ad accettare.

Eppure, quando ci si ritrova ad amare tanto la musica quanto il film che la accompagna, quando il formato non è né un concerto tradizionale come ne vedo ogni settimana, né una seduta al cinema che può indurre rischiosi attacchi di sonno, è lì che ci si rende conto di quanto sia grande il piacere di ritrovarsi in mezzo alla stretta intersezione del diagramma. Trovare la propria nicchia è bello, ma una nicchia in una nicchia è un’esperienza capace di rimanere impressa per sempre. E se ogni istante, che sia esso del film o del flusso della colonna sonora, porta in sé sia lo stupore sia quella sorta di ancestrale terrore, quello del treno che esce dalla galleria dei fratelli Lumière, è lì che lo sposalizio tra musica estrema e cinema d’autore è veramente riuscito.