mercoledì 6 marzo 2024

Life Lately (Febbraio 2024) - Powerplant, Electric Spanish, A. Savage (Appendice: Festival MOFO, Beautiful Noise, Le Cri du Singe)

Il mese di febbraio è stato senza dubbio pieno di emozioni. Ne posso citare tante: per la prima volta nella mia vita, ad esempio, sono saltato giù da un treno in partenza, oppure mi sono impantanato con la macchina al punto da dovermi far tirare fuori col trattore. Momenti memorabili certo, da raccontare ai nipotini persino, ma anche carichi di ansia e soprattutto completamente impreventivati. Ebbene no, non sono stati questi i momenti salienti di cui vi voglio parlare prima di cominciare l’ormai consueta rassegna mensile di live report.

No, febbraio è stato in realtà scandito circa una volta a settimana, per una serie di colpi di fortuna, da eventi tutti simili eppure sempre romantici, quasi da farfalle nello stomaco: gli incontri con gli artisti di cui ho già scritto in passato. Sono momenti che vengono previsti settimane se non mesi prima, segnati in agenda, preparati in anticipo, eppure sempre un po’ incerti, sorprendenti, a volte totalmente esaltanti, a volte un po’ deludenti. Belli proprio perché tutti diversi.

Sarei bugiardo e ridicolmente finto modesto se nascondessi il fatto che amo parlare con i protagonisti dei miei live report qualche tempo dopo la pubblicazione dei mattoni in questione. L’emozione del momento si sostanzia di tante cose: la possibilità di far capire a un artista che sono veramente toccato dalla sua musica più dell’“oh, bel concerto” smollato frettolosamente al banchino del merch, parlare di progetti musicali e ispirazioni e, posso ammetterlo con candore, anche la soddisfazione nel sentire un po’ di riconoscenza verso il mio impegno nella scrittura.

È da quando ho iniziato a scrivere su Stereo Totale che, ogni tanto, vado con piacere a rivedere artisti già raccontati qua dentro, approfittandone il più che posso per trovare un’occasione di scambiare due chiacchiere. Si tratta di concerti sui quali, ovviamente, non mi attardo a scrivere, e che quindi non finiscono nella rubrica Life Lately (che ha l’ambizione di trattare solamente di musica mai vista su questi lidi). Al massimo, mi limito a postare un estratto del concerto sulle storie di Instagram e mettere la caption “LA NS GENTE”, come ad asserire con fierezza l’affetto e la devozione che porto verso la mia personale e simbolica scuderia musicale. Chi mi segue perciò si sarà già accorto che a fine ottobre mi sono gustato un set esilarante dei Trotski Nautique a metà (solo David Snug, Alda Lamieva non poteva venire quella sera) nei meandri de Les Nautes, una strabiliante mini-sala medievale a bordo Senna con vista Sainte-Chapelle (“bonne ambiance”); o ancora che a fine novembre ho rivisto Ellah A. Thaun esibirsi al compianto L’International (speriamo riapra…), in un concerto esoterico ed ultra-immersivo, in mezzo alla stanza invece che sul palco. 

A febbraio, però, è stato uno spicinio. Talmente tante serate musicali che sarebbe un peccato ometterle da questo piccolo editoriale mensile, ma che sarebbe oggettivamente tautologico (ed autoreferenzialista) parlarne in profondità. Questa edizione di Life Lately sarà perciò come tutte le altre: (tre) live report di concerti di band nuove, siano essere conosciutissime o sconosciutissime. Ci sarà però, in fondo all’articolo, un piccolo appendice con (tre) concerti “bonus”, a cui mi sono recato soprattutto per vedere le mie vecchie fiamme. Tengo a fare una rapida menzione di queste serate non tanto per bullarmi di aver parlato con le superstar, quanto per segnalare eventi degni di nota a cui, oltre che i gruppi del cuore di Stereo Totale, si sono esibiti altri artisti meritevoli. Non esitate a darci un occhio: come al solito ci sono nuove esplorazioni architettoniche e periurbane, piccole riflessioni sulla vita da espatriati e sulle contraddizioni tra lo status di blogger e quello di pubblico pagante. Soprattutto, si parla pochissimo dei gruppi che sono già stati trattati nei miei articoli, e ci sono come al solito nuove fantastiche band tutte da scoprire!

Perché la musica underground è un albero pieno di infiniti frutti e io amo considerarmi come un bachino che, nel cercare di raggiungere la mela che ha notato durante la sua scalata, si imbatte in un ramo biforcuto e spiluzzica un po’ dell’arancia che gli si para casualmente davanti. Ne apprezza il sapore, e perciò mentre si gode la sua agognata mela si guarda attorno e si accorge che c’è un’altra arancia anche più in là. Al che, sul tragitto verso l’arancia, può assaggiare anche la pera che viene poco prima, dopodiché avvicinarsi all’arancia e scoprire con sorpresa che si tratta in realtà di uno squisito mandarino. Ovviamente, in questa pessima metafora, i frutti sono le band, gli opening act, i festival che, più morsicchiamo, più ampliano il nostro palato e le nostre possibilità di godere, nutrirci e, un giorno, diventare farfalle. Ma adesso la smetto perché la metafora è andata troppo lontano. La morale è: tornate a vedere i gruppi che amate, tornate ai festival che avete apprezzato, fidatevi dei collettivi che vi hanno regalato una bella serata: vedrete che ci guadagnerete sempre.

Partiamo con la rassegna ufficiale (e non perdetevi l’appendice: good stuff!).

 

Powerplant – Nuovo dungeon del garage punk: sbloccato

Powerplant live @Glazart, Parigi, 05/02/2024

Il 2024 si è aperto con una brutta notizia, di cui ho già parlato in introduzione: L’International è stato chiuso per problemi di sicurezza. Si dice in giro che il soffitto sia un po’ pericolante, e io mi sento in colpa per lo sfortunato foreshadowing che ho fatto a riguardo nel live report dei La Elite. Lo staff del locale, però, non si è perso d’animo, e sostenuto da tutta la costellazione di sale concerto parigine sta ancora riuscendo a riorganizzare la maggior parte degli eventi a destra e manca. È in questo bel clima di solidarietà (e guarda caso, è appena iniziato febbraio ma fa sorprendentemente caldo) che mi ritrovo al Glazart dopo tanti mesi.

Situato nella parte di più malfamata di quella corona parigina costituita dai lembi di terra compresi tra il tram e la circonvallazione, il Glazart l’ho sempre visto come una sala da veri duri, gente che non ha paura di andare a concerti punk belli sportivi a inizio settimana (è lunedì) e per giunta uscire e ritrovarsi nel vialone dei crackheads. Non a caso infatti la programmazione è piena zeppa di HC dei più mascolini, di quello coi breakdown e i pugni roteanti insomma (per una disquisizione sulle molteplicità dell’hardcore punk vedere il mio articolo sui Pogo Car Crash Control). Stasera per fortuna non è così, e nonostante dalle casse del bar esca una playlist beatdown, il pubblico che si accumula attorno al bar è eterogeneo, sbarazzino e beve molto meno Club Mate della media (chissà da dove deriva la passione per questa bevanda che spopola nel mondo della musica “core”).

In effetti, stasera suonano i Powerplant, compagine di synth-punk britannica di cui le persone più disparate e insospettabili mi parlano da tempo. Tra che quando sento parlare di synth-punk mi si drizzano le orecchie, tra che le centrali elettriche sono letteralmente il mio mestiere, tra che in opening act c’è pure un nuovo progetto della batterista di Mary Bell (l’ho già detto che mi piace andare a parlare con gli artisti di cui ho scritto?), l’occasione è troppo ghiotta per non andare a dare un’occhiata. Con Paul, fido compagno di punk alternativo, ci avventuriamo nei meandri di questa giovane serata ed è tipicamente il contesto in cui è facile farsi subito degli amici raccontando l’aneddoto della nostra cover di Playboi Carti in stile Ramones.

La line-up, in pieno stile International, è bella pienotta e interessante. Si comincia con Prise Rapide, trio composto dietro alle pelli dalla sopracitata e alle corde da due cantanti che non conosco. Non hanno ancora pubblicato niente ma ultimamente girano un po’ per locali e su Instagram si autodefiniscono “indie punk con melodie tristi ma elettriche”: abbiamo pochi elementi, sufficienti per essere curiosi. E siccome stasera sono in vena di battute, appena montano sul palco dico al mio amico: “Ma sono i Yo La Tengo!”. Forse è la formazione “trio con vocals maschili e femminili interscambiabili”, forse il fatto che il chitarrista abbia un aspetto al contempo sobrio e da scienziato pazzo come Ira Kaplan, o che la batterista provochi quell’effetto originale e straniante del vedere qualcuno suonare in open, che è lo stesso che si ha con le batteriste mancine tipo Georgia Hubley. Resta il fatto che i tre cominciano a suonare e scopriamo con grande stupore che il paragone inizialmente goliardico ha un suo fondo di verità. Le canzoni di Prise Rapide, su un impianto post-punk essenziale, esplorano le regioni sonore più affascinanti e perigliose della chitarra elettrica, proprio come la band del New Jersey. Perciò, con phaser e overdrive a manetta e dei begli ostinati di basso e batteria sullo sfondo, per una mezz’ora partiamo in mare aperto e, quando il ponte della chitarra viene messo a faccia a faccia con l’ampli, viviamo le prime grandi emozioni della serata. E poi vogliamo mettere la soddisfazione di andare a concerti in cui il primo opening act è un gruppo di cui puoi dire: “Ancora non li puoi ascoltare ma fidati, è un gruppo da tenere d’occhio”?

Come spesso (e logicamente) capita alle serate capitanate da una band venuta dall’estero seguono, dopo il gruppo parigino, le band “provinciali”. Sulla prima a passare, Bingo Crépuscule, non mi soffermo troppissimo perché, devo ammetterlo, sebbene le canzoni mi piacciano anche un bel po’, la performance mi sembra un po’ acerba e non mi cattura. Per chi ama la commistione, ultimamente abbastanza alla moda, dove l’emocore all’antica incontra quel post-punk che flirta con l’HC, il loro Demo 2023 (che bomba è Une balle?) è comunque da non perdere. E alla fine, nonostante (e un pochino grazie a) l’incespichio generale del set, i Bingo Crépuscule il loro nobile obiettivo riescono comunque a farcelo capire bene: un giorno, forse, il record della magnitudo più forte mai registrata sulla scala Curtis (quella che misura la squallida cupezza), potrebbe essere loro. Non so quante persone nella sala conoscano il comune di Aire-sur-la-Lys, nel Passo di Calais. Io ci vado molto spesso per lavoro e devo dire che, se questa fantastica città nordista post-industriale dovesse aggiudicarsi il primato, i ragazzi meriterebbero quantomeno una statua. Fiducioso che Padre Tempo darà ragione ai ragazzi di ASL, applaudo, ma non posso trattenere un’altra battuta (questa un po’ più cattiva): “Hai presente gli High Vis? Loro sembrano un po’ i Low Vis”. Mi scuso.

Altra giro, altra corsa. Far suonare gli Under 45 di Lione penultimi sembra una scelta oculatissima perché, un po’ come gli headliner, hanno un cantante britannico e abbondano di drum-machine. La missione di portare l’atmosfera verso sentimenti un po’ più festaioli delle mazzate deprimenti dell’ultimo set non è semplice eppure riesce. In effetti, le loro batterie super-artificiali, le linee di basso malvagie ma ineluttabilmente groovy, le chitarre a tratti emotive a tratti affilate come coltelli, si sposano benissimo con uno degli strumenti che dalla notte dei tempi funzionano meglio nel punk: un uomo con la vena gonfia che “ragiona” in lingua inghilterrese. Di gruppi così ne abbiamo visti un bel po’ negli ultimi anni e c’è sempre un paragone troppo facile che mi compare sulla punta della lingua, ovvero gli Sleaford Mods. Anni fa Lercio scrisse che il partito Liberi e Uguali aveva cambiato nome perché nessuno vuole essere uguale a D’Alema, e allo stesso modo penso che nessun inglese voglia essere paragonato alla band di Nottingham. Proprio quando sono lì a scervellarmi di nascosto per provare a vedere chi mi ricordano per davvero i lionesi Paul mi suggerisce telepaticamente un: Gang of Four. Ed è vero: più ci si fa caso più si nota che, dietro alla parlantina del cantante e all’effetto discoteca del sequencer, in realtà le canzoni degli Under 45 rendono un omaggio gigantesco al meglio del meglio del post-punk abrasivo  di fine anni ’70. Basta ascoltare White Whale, coi suoi riff taglienti e l’assolo di chitarra tutto acuti, per rendersene conto e riassaporare quell’energia retrò che, sorprendentemente, un po’ manca ai chiacchieroni inglesi degli ultimi anni. Ci uniamo alla festa con nostalgia di tempi andati e mai vissuti e, alla fine del set, l’aria è calda abbastanza per accendere il reattore.

Mentre per gli Under 45 la parte “sintetica” della musica serve a creare l’illusione di non star ascoltando del punk puro al 100% (mentre in realtà è essenzialmente così), i dischi dei Powerplant, per me, sono al contrario dischi di “synth music” travestita da punk. Ne è abbastanza esplicativo il fatto che, assieme a quelle perle lo-fi di People in the Sun (2019) e l’EP Grass (2023), dischi sì urlati e schitarrosi, ma anche trascinati (“carriati”) dalle melodie delle tastiere e dalle festive batterie elettroniche, l’altra pubblicazione-chiave del catalogo della band sia Stump Soup (2023), ovverosia un’ora di dungeon synth e buffe composizioni melodiche miscellanee. Ecco, tutto questo per dire che non sappiamo veramente cosa aspettarci dal concerto: un compendio di atmosfere di sintetizzatore, a volte soffuse, a volte dolci o ancora danzerecce? Oppure una scarica di rock? Sarebbe bello dirvi: “Una via di mezzo”, ma sarebbe anche una bugia. È più bello ancora dirvi: “La seconda, ma moltiplicata per dieci”.

Se avete presente i dischi più rocchettari dei Powerplant, potete tranquillamente fare l’esercizio di immaginarvi come suonano live: chiudete gli occhi, visualizzate l’energia punk delle canzoni, amplificatela all’inverosimile, soprattutto grazie a un batterista di una velocità e potenza quasi mai viste. Inoltre tutto quello che nelle versioni studio c’è di testura, le saturazioni, gli sfrigolii e i riverberi, nelle casse del Glazart diventano puro muro di suono, e le melodie dei sintetizzatori, in questo maelstrom sonico, provocano alla fine lo stesso effetto della voce di Bilinda Butcher in Loveless: un etereo anelito, lontano quanto portante. La formula funziona, esalta e trasforma la venue in una bolgia, ma non quella aggressiva delle solite serate hardcore, bensì una festa un po’ nerd, un po’ matta. Nella sala, un po’ mattonosa, ci si sente un po’ in un soprannaturale Dungen del garage punk di cui tanto millanto i miracoli, il pubblico un divertente vortice di personaggi tutti un po’ degni di un fantasy, che riflette benissimo l’immaginario della band. C’è spazio per cantare le melodie alla maniera guascona dei cori da taverna, esaltarsi per un drumming che sembra davvero sospinto da poteri magici (forse la presenza sacerdotale del biondissimo tastierista in mezzo al palco), sfidare i presenti a una tenzone di spallate, tuffarsi dalle scogliere del palcoscenico, eseguire balli tradizionali e via dicendo.

Qualche cervogia era scesa ed è passato un mese perciò non sono esente da errori di setlist, ma tra le melodie saltellanti e le sfuriate assassine di canzoni come True Love o Broodmother, la tenere e scodinzolanti sberle di Hey Mr. Dogman! e Beautiful Boy, o ancora bassline contagiose unite a melodie “quirky as fuck” come quelle di Snake Eyes o Get in the Trunk, il concerto non lascia tregue, se non brevi pause in cui respirare cullati da piccoli intermezzi twee estemporanei e divertentissimi. C’è spazio, nel finale, per una sorprendente strumentale di genere “Carpenter-ambient” che chiude con solennità il concerto caotico a cui abbiamo assistito.

Io le tiritere su quanto tutto ciò che si possa anche forzatamente definire “garage punk” sia per me il futuro della musica elettrica della mia generazione le ho già fatte più volte, perciò non mi dilungo più di tanto a riguardo. Giusto due riflessioni: uno, ai concerti garage punk come quello di stasera, rispetto ad esempio alle serate di HC puro e duro, mi pare sempre che ci sia più diversità umana, che sia etnica, di genere, di età, di stili (i Powerplant, tra l’altro, sfoggiano le migliori magliette della stagione: Guided by Voices per il bassista e Hellhammer per il batterista, senza soluzione di continuità; se ci fate caso la seconda ha senso: il cantante fa spessissimo il suono “HUH!” alla Tom G. Warrior). Due, e forse è la mia sensibilità che mi fa dire ciò, ma a queste serate mi pare sempre che la celebrazione del puro divertimento sia più esplicita, e mai fuggita e nascosta dietro pretesti di “durezza”.  C’è aria di leggerezza e la gente ride, scherza, anch’io non posso smettere di continuare con le battute del cazzo. Vado a parlare ai Powerplant e, miglior sorpresa della serata, i ragazzi mi danno pan per focaccia, con dialoghi degni dei migliori giochi di ruolo sul mercato, che perciò non posso non ritrascrivere.

Al batterista: “Holy cow man, you play so fast!” “I have ADHD” (con la faccia più seria possibile).

Al bassista: “Can I buy your GBV t-shirt? Twenty quid.” “Not for sale. ‘Staying out on your house, watching hardcore UFOs…’” (canticchiando).

Alla fine il tastierista mi fa: “Can I ask you a question? How was the sound? Couldn’t hear much.” “Well, it was… shoegazy.” “Shoegazy foogaezy…” (con aria trasognata).

Stringo la mano a tutti, contento di aver aggiunto una nuova location (la centrale elettrica) alla mappa del mio open world del garage punk contemporaneo.

Quest completata.

 

Electric Spanish – Travolti dall’onda

Electric Spanish live @Les Disquaires, Parigi, 13/02/2024

Oggi, dopo il lavoro, l’ultima cosa che voglio fare è andare a casa. Non succede quasi mai, ma succede. Non l’ho deciso io: dev’essere stato deciso uno strano e rarissimo allineamento di pianeti, o da una microscopica sezione del mio DNA. Sento Paul ed è d’accordo per seguirmi. Mi lascia carta bianca. E perciò faccio una cosa che non faccio quasi mai, ma la faccio: guardare Songkick per il giorno stesso, come fanno i turisti. Un po’ me ne vergogno, un po’ ne sono fiero. Scrollo un po’ e l’eccitazione sta per svanire: non c’è niente che mi smuova l’animo e, quasi rassegnato all’ennesima serata in cui trascino un amico astemio al barretto (questo succede spesso), quando sono a un passo dal rinunciare, appare un nome ancestrale, atavico, che risveglia eco antiche ed esoteriche: Sex Shop Mushrooms.

Dove ho già visto e sentito questo nome, senza saperlo, lo so: su degli adesivi. Adesivi di cui non ricordo precisamente il design, la forma, il messaggio (che sicuramente mi aveva colpito, perché li ho guardati questi adesivi, anche a lungo). La loro localizzazione mi è anch’essa ignota: dov’è che mi hanno strizzato l’occhio? Qualche frammento di ricordo: lavandini, specchi, urinali. Petit Bain? Supersonic? Unica cosa che mi torna alla mente di per certo: un colore rosso, sanguigno, seducente.

Nell’era dei bombardamenti mediatici che viviamo, io la pubblicità opterei per bandirla. Un esperimento politico­-economico quantomeno interessante: da domani vietato reclamizzare prodotti e servizi. Cosa succederebbe? Lascio a voi immaginare la saramaghesca utopia. Purtroppo non sono dictator maximus e concretamente, contro la presenza asfissiante della pubblicità, non posso fare nient’altro che scaricarmi AdBlock (che paura quando ha smesso di funzionare su Youtube), non guardare canali televisivi, evitare le radio commerciali (a volte in viaggio cedo), concentrarmi il meno possibile sui cartelloni per la strada o in metropolitana. Quando le pubblicità, però, hanno a che vedere con musica o concerti, oppure si manifestano in locali musicali sotto forma, per l’appunto, di adesivi, flyer o manifesti coperti di line-up, sorge l’effetto contrario. Mi ritrovo a volerli fissare per carpirne fino all’ultimo dettaglio, cerco i più nascosti e imboscati, subisco con un piacere quasi carnale la magia del marketing, sì, quel marketing casalingo lontano dalle multinazionali. Chiamiamole, se vogliamo, piccole velleità controculturali.

Ora, stasera la controcultura è andata forse un po’ troppo lontano, perché stiamo comunque andando a vedere una band i cui singoli non mi hanno veramente innamorato, però alla fine ci sono pur sempre due band, l’ingresso costa appena cinque euro (sorpresa sorpresa: nessuno ci chiede nulla e, anche se avremmo quasi voluto, non abbiamo pagato). Soprattutto, siamo ai Disquaires, possiamo farci un bicchiere in sala bar in santa pace e se davvero vogliamo cambiare aria c’è il Motel a duecento metro (sorpresa sorpresa: faremo comunque le ore piccole al Motel). Le sorprese più sorprendenti le trovi solo se le cerchi e infatti si scopre che la batterista dei Sex Shop Mushrooms è stata la prima batterista di Paul, il che vuol dire che, quando Paul diventerà famosissimo, una rockstar internazionale (succederà), Nardwuar gli regalerà un disco dei sopracitati Funghi e gli chiederà: “Is it true that she was your drummer when you started playing music?”.

Il concerto del giovanissimo quartetto parigino ha il suo perché: il loro revival grungettone vive di piccole sfaccettature studiate piuttosto bene, tra sezioni di intensità emozionale dalle vocals sbiascicate (Kurt, sei tu?) e momenti di burinità esagerata. Segnalo, soprattutto, almeno quattro o cinque riff così diretti da essere quasi sfrontati, la cui cattiveria ed efficacia richiedeva solo una cosa: che qualche cristiano sul palco facesse il segno del circle-pit. Io, come un cane di Pavlov, ci sarei cascato prima di subito. Il set perciò è gradevole ma anche tanto, tanto rozzo, specie a livello dei suoni che escono davvero come capita. Forse è una scelta dettata dai mezzi tecnici (diamo ai ragazzi il tempo di ricevere i primi introiti), oppure una scelta stilistica, assolutamente rispettabile. Fatto sta che mi permetto di rimandare i Sex Shop Mushrooms a settembre con un’ennesima metaforaccia delle mie: a me il rock piace con una cottura media, e il punk al sangue; il grunge in cottura bleu non so se sono ancora pronto a consumarlo.

Abbiamo vissuto il nostro bel momento conviviale e saremmo anche soddisfatti così: non sembrerebbe una serata di quelle in cui si scovano promesse eccezionalmente sopra la media. Ma il karma dello scouting non funziona così e, mentre dal bancone osserviamo il pubblico con un’aria da finti intellettuali (“Hai visto quante ragazze vestite da gotiche?” “Assurdo, ce ne sono sempre di più” “E quel trentenne sicuramente fatto di ecstasy?” “Di martedì sera, annamo bene…”) dal palco arriva un’inaspettata brezza marina.

Gli Electric Spanish non li avevamo mai sentiti nominare nemmeno per sbaglio, ma hanno un aspetto simpatico: sembrano action-figures che rappresentano quattro tipi di rock diversi, schierati gli uni accanto agli altri in un accostamento improbabile da un bambino che gioca sdraiato sul pavimento. Mentre li squadriamo incuriositi, i ragazzi attaccano e ci arriva addosso una scarica di surf-rock elettrico talmente potente e ben eseguita che bastano trenta secondi per incollarci al palco: occhio, che qua c’è del talento.

La proposta del quartetto parigino è semplice quanto varia ed efficace: un indie-rock marinaro che è variegato ma coerente, fresco ed estivo, curatissimo e al contempo energetico. Quello che funziona meglio, soprattutto, è che c’è una chitarra solista dai suoni spettacolari che rimane staccata dal resto quasi tutto il tempo, rendendo ogni canzone ultra-melodica e smussata (in un mondo dove la parola “indie” spesso rima con “squadrato”). L’impianto di questo sound, parecchio revivalista e parecchio soddisfacente, anche e persino nelle sue referenze facilone, abbraccia tutto il Commonwealth: nell’ottima Black Jacket, volo diretto New York - Los Angeles, si sentono i migliori Strokes d’epoca che se ne vanno in spiaggia, nella strumentale Electric Spanish quelle psichedelie microtonali un po’ Dick Dale un po’ Lawrence d’Arabia, tanto care ai gruppi australiani più sviaggioni (King Gizzard, Psychedelic Porn Crumpets…), o ancora in Middle Class la band butta nella mischia vivaci riff brit-pop anni ’90 e strofe dalla distorsione bella ciotta che invece ricordano quel “quasi pop-punk” di Weezer e compagnia.

Gli Electric Spanish sono un gruppo recentissimo e sconosciuto ai più, ma sembra che suonino insieme da dieci anni (applausi perché ci capita anche di vedere il contrario) e oltre alla pulizia, alla precisione e alla classe hanno un carisma e una presenza scenica rarissima. Saranno la fotta del cantante portoricano, i soli molleggiati del chitarrista virtuoso, la resistenza ferrea ed eroica del batterista o ancora quell’attitudine da hippy iperattivo del bassista (da quanto tempo non vedevamo qualcuno reggere il manico a mo’ di mitraglietta alla Batistuta?). Sarà, ma i ragazzi ci piacciono, ci divertono, ci fanno sognare. A chi potrebbe biasimare alla band di proporre un materiale troppo variegato o persino incoerente non darei mai ragione perché, sia che gli Electric Spanish ci portino in deserti QOTSAni, a una fiera del blues di campagna (Different Song), o ancora a alla jammona infinita da deadheads che chiude il concerto, una cosa rimane invariata: una sensazione di conforto impagabile. Il quartetto di Parigi ha un nome improbabile, eppure me lo sento mio fino in fondo: il benessere che mi trasmettono è identico a quello di quando nei miei ritorni in Spagna mi siedo in un bar e sento sulla mia pelle l’art de vivre semplice e immediato che solo la mia seconda terra sa farmi provare. Questo brivido, in qualche modo, lo sento anche stasera ma nella sua versione più frizzante, elettrica per l’appunto.

La settimana è ancora lunga e, dopo un’ultima ma non di troppo beuta, tocca levare le tende. Casa mia, quella fisica e tangibile, è un po’ lontana. Cinquanta minuti di metro abbondanti, ma passano come se fosse un quartino d’ora. L’ho già detto alla scorso articolo, ma io, quando mi ritrovo nel triangolo d’oro Motel/Disquaires/Mécanique nell’undicesimo arrondissement, mi sento a casa. Detta da uno straniero, non è una frase banale.

E a casa mia si suona il rock. Questo rock.

 

A. Savage – Late capitalism blues

A. Savage live @La Maroquinerie, Parigi, 15/02/2024

In un febbraio strapieno di distorsioni pericolose, decibel ai limiti della legalità e moshpit serviti per colazione ci vuole un attimo di calma e riflessione. E, suggestione abbastanza seducente, spunta in mezzo alle liste dei concerti in città un nome suggestivo: quello di Andrew Savage. Sì, lo so cosa state pensando: ah, il cantante dei…

Penso che il ragazzo si sia sorbito circa centonovantanove articoli e live report in cui viene citato il gruppo in questione. Avendo in mente il personaggio, penso anche che ne abbia le palle strapiene. Perciò, un po’ per fare il bastian contrario, un po’ per rispetto, mi prenderò la licenza di non citare mai, mai e poi mai la band newyorkese. Del resto, è letteralmente citata nell’introduzione del mio blog. Penso basti.

Che dire però di quello che il signor Savage ci ha dato negli anni che furono? Un sacco di cose: le migliori liriche sulle contraddizioni della nostra modernità, e ad accompagnarle una voce iconica, sprezzante e lucida, il ponte di congiunzione migliore che potessimo avere tra l’indie e il punk. Eppure, la vocazione solistica del cantante, sorprendentemente, è un folk rock semplice, dritto al punto e al contempo un po’ stralunato. Alla Maroquinerie stasera. Immancabile.

Alla serata c’è una quantità di americani quasi ridicola, il che ci fa ridere ma anche riflettere sul fatto che forse la musica dei due album di Andrew Savage non ha troppo appeal sul pubblico parigino. In effetti, il Selvaggio nazionale avrebbe cominciato a pubblicare la sua musica solista nel 2017 proprio al momento della sua partenza da quella New York che è linfa vitale del suo songwriting in gruppo (Stoned and Starving?, la risposta del terzo millennio ai Velvet Underground), per tornare nella sua terra natale: Denton, Texas, ovvero l’ultimissimo comune densamente popolato della corona urbana di Dallas, appena prima che la città lasci spazio ai grandi spazi campestri che hanno ispirato migliaia di chitarre ed armoniche a bocca degli USA. I due album usciti sotto il moniker A. Savage, in qualche modo, riportano nell’immaginario rock contemporaneo l’immensità (e la bellezza) di queste vibrazioni bucoliche, in contrapposizione con la musica ultra-metropolitana a cui il cantante ci ha abituati durante tutti gli anni ’10 e oltre (di cui però la penna del nostro si è sincerata di mantenere un po’ l’anima). Forse una parte del pubblico della ville lumière, preso dalle nevrosi della grande città e dei suoi orologi che si intrecciano, non si degna di ascoltare queste ballate vagamente campagnole.

La Maroquinerie è comunque abbastanza piena, nonché concentratissima: non vola una mosca persino durante l’opening act acustico della brava cantante inglese Naima Bock, venuta probabilmente con lo scopo (realizzato) di infondere alla sala un sentimento di intimismo in vista del set di A. Savage, e far capire che è una serata di estrema delicatezza così da tenere a bada i potenziali esaltati rumorosi (e ce ne sono). Una bella voce, qualche arpeggio, un paio di canzoni in portoghese: basta poco per placare gli animi di un centinaio di persone abbondanti. Persino io, che spesse volte degli opener acustici farei volentieri anche a meno, vedo in questo breve set non soltanto una pragmatica utilità, ma anche un piccolo spiraglio di leggerezza che a volte fa proprio bene.

Ovviamente, però, il vero divertimento comincia quando arrivano Savage e la sua banda. La formazione è bella guarnita e oltre al cantautore con la sua chitarra acustica c’è un’intera rock band con tanto di sassofonista-tastierista, che fa subito prova di un affiatamento spettacolare, mentre svolazzano le note di una ballata in cui il lead singer mette nel microfono tutta la sua intensità, sfiorando più volte il grido: Hurtin’ or Healed, l’opener dell’ultimo meraviglioso disco Several Songs About Fire (2023). Andrew Savage ha detto, in un’intervista, che si immagina di suonare queste canzoni in piccole sale concerto che prendono fuoco. Sarà che sono un appassionato di pale eoliche ma a me le canzoni che si susseguono nella scaletta, talmente sono leggiadre (ma con un sottotesto di violenza), fanno immaginare più che altro di star ascoltando il gruppo in cima a un altopiano, col vento che si alza e comincia a scompigliarti i capelli e la giacca: la sensazione è quella di farsi passivamente accarezzare da una forza fresca e piacevole che, quando vuole, può anche avere il potere di spazzarti via. Così, la malinconica e ironica My My My Dear è come quel venticello nervoso che annuncia bufera ma per il momento porta solo un frustrante spleen, la tenera e ipnotica Riding Cobbles una brezzolina marina che, nel momento dello svago da spiaggia, ci riporta all’infanzia, My New Green Coat è quel vento contrario costante e inamovibile contro il quale nulla si può fare mentre, imbacuccati nel pieno dell’inverno, la camminata verso una meta che abbiamo scordato si fonde con il semplice avanzare della vita.

Tutte queste ballate, ripetitive eppure sempre coinvolgenti (l’effetto Zimmerman, ce l’hanno in pochi…), sono rese affascinanti da tanti elementi. Innanzitutto ci sono i testi, una sequela di immagini impressioniste della vita quotidiana, che gettano uno sguardo talvolta nichilista sullo squallore della nostra modernità (“My weekly dinner of popcorn and Coke”), talvolta utopico, decantando un ritorno a una semplicità primitivista, un po’ poetica un po’ politica (“Milling grains into a flour […] Taking part in the resistance […] Wearing nothing made of plastic”). Oltre alle liriche toccanti e originali c’è però anche il comparto suono e luci da centodieci e lode magna cum laude (classic Maroq’), che riesce a far brillare i musicisti come stelle: il basso eccelle e sostiene ogni pezzo con eleganza inaudita, le chitarre hanno un timbro perfetto, i saltuari soli di sassofono sono maestosi e la batterista, precisissima, ci colpisce per il suo tic di scuotere la testa velocissimo mentre suona ritmi lenti e cadenzati.

Il tempo, perciò, passa in fretta, tra ballate favolose tipo l’astronomica Black Holes, the Stars and You o l’americanissima e quasi salingeriana Ladies From Houston (dal Thawing Dawn del 2017), ma anche qualche pezzo un po’ più spinto che sì, forse una fiammella lì nell’angolino la accendono. Penso alla potente Elvis in the Army, un folk-punk dai groove assassini, oppure la marcia austera e decisa di David’s Dead, inno anti-consumista che un gruppo me lo ricorda, ma non posso dirlo. Eppure, anche nelle canzoni più rabbiose, Andrew Savage alza la sua voce coriacea, a volumi sempre più alti, ma non esplode mai. Forse è anche questo il fascino di questo progetto: un blues post-moderno che osserva la sua realtà, senza ancora passare all’atto della ribellione: è disillusione?, volontà di testimonianza?, semplice inedia? Non lo so dire, forse un po’ tutte queste cose. Fatto sta che, per la prima volta dopo tanti concerti, ho l’impressione di vedere un cantautore che è veramente figlio del nostro tempo, da tramandare agli storici dopo il collasso della civiltà, se mai qualcuno sopravvivesse.

Finisce il concerto, cazzeggiamo un po’ col solito Paul al juke-box del bar (hanno Amoureux Solitaires, la miglior canzone di tutti i tempi) e ci decidiamo ad andare a dare un’occhiata al merch. Al banchino, sorprendentemente, c’è lo stesso Savage, umile e pacato, un po’ sfavato a dirla tutta. Forse è perché un fanboy statunitense gli sta facendo una testa così e ha fatto pure battute evitabili sulla sua etichetta Dull Tools, forse perché sente nei nostri sguardi l’eccitazione febbrile di chi sa che, in posti tipo il Primavera Sound, la gente che lo incrociasse si farebbe foto come se avesse visto il Papa, forse perché sto canticchiando davvero male la Autumn Sweater che esce dalle casse in sottofondo. Fatto sta che, mentre il mio bro esita sulla maglietta da comprare, il nostro caccia fuori un disperato: “Guys, I really need some fresh air”. Non lo dico per biasimarlo, al contrario, l’aneddoto ce lo fa voler bene ancora di più. L’autore di un disco dalle volontà incendiarie che, dopo un’ora e mezza di suonata, ha solo bisogno di uscire e sentire l’aria della sera sul volto, come vedremo pochi minuti dopo nell’iconico cortiletto della Maroquinerie, può soltanto essere una metafora della sua musica: di facciata, cruda e aggressiva, ma nell’anima, pragmatica e contemplativa.

Fumo un’ultima sigaretta e, insieme a tanti, guardo Andrew Savage mentre osserva il cielo. Un po’ di vento gli smuove i capelli.

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Appendice

MOFO, ovvero andare a un festival quando non si è troppo in forma (Grand Blanc et al.)

I miei amici, entrambi malaticci @Festival MOFO, Mains d’Œuvres, Saint-Ouen-sur-Seine, 01/02/2024

Il Mains d’Œuvres di Saint-Ouen, un po’, è casa. Situato a quindici minuti a piedi dal mio ufficio e pure da quello di Théo, questo edificio sembra un ufficio pure lui, e probabilmente in passato lo è stato. Tutto, nella sua struttura architettonica, parla di riabilitazione, riconversione e compagnia bella. La storia del posto non mi sono messo a esplorarla, un po’ per fatica (non amo leggere di architettura), un po’ per diniego (la mia ex architetta aveva partecipato a un appalto), ma soprattutto per non rovinare il fascino e il mistero un po’ da “backrooms” di questo edificio che si snoda tra enormi sale vuote come negli squat, un bar dal retrogusto di refettorio fantozziano, uscite di sicurezza che oggi sono punti di snodo e di passaggio, cortili industrialeggianti e, la cosa più importante, i sotterranei che ospitano le sale prove. Ho suonato ore ed ore nelle salette del Mains d’Œuvres e, seppur mi sia sempre promesso di andare anche a qualcuno dei concerti che organizzano di sopra, non c’è mai stata occasione. Ma a questo giro il Festival MOFO, che ha luogo ogni anno a inizio febbraio e che si rivendica “Festival de Niches”, ci riporta Grand Blanc in regione parigina, in un contesto più intimo della grande Gaîté Lyrique. Non andare sarebbe quasi offensivo.

Va detto che né io né i miei accompagnatori eravamo in formissima. Gli inizi di febbraio io sinceramente li associo a raffreddori, acciacchi, stanchezze e compagnia. In questo il MOFO va in controtendenza: se il giovedì ci va leggero, con una serata di musica abbastanza placida che termina alla mezzanotte, al week-end fa il matto e imbastisce una line-up che può davvero scuotere dai torpori febbrarini, tra electro-shoegaze denso (Tapeworms), post-rock industriale e alienante (Rien Virgule), glitch-pop imprevedibile (Jenys) e, soprattutto, una pila di club music spintissima fino all'alba. Se il confortevole e catartico Festival BBMix di Boulogne è, come già dissi a novembre, un rituale di inizio inverno, il crudo e intenso MOFO è, per alcuni, un baccanale matto per scongiurare l’ultima parte, forse la più dura, della fredda stagione.

Il concetto è quantomeno affascinante e meriterebbe un approfondimento. Resta il fatto che io, Lauren e Taha non è che ci sentiamo tanto ballerini, sicché veniamo solo il giovedì, perlopiù per a berci la tisanina con quello spettacolo magistrale che Grand Blanc sanno offrire, al contempo rilassante e sconvolgente. E poi poco più. Potrei mentire e raccontarvi di quanto sia stato toccante vedere suonare Kelora, duo di ambient-folk di Glasgow, ma la verità è che ho visto due pezzi perché i miei amici stavano mangiando un hot dog; potrei ostentare l’interesse che mi suscitano i sound collage del belga Ssaliva, ma la verità è che siamo passati dalla sua stanza sonorizzata solo per andare alla zona fumatori; potrei vantare di aver scovato un act underground pepita, Cheval de Trait, che mescola il folklore delle campagne francesi alle atmosfere rave più oscure e lo fa con un’eleganza insperata, ma anche lì devo ammettere che mi sono visto quindici minuti massimo tra una chiacchierata e un’altra e poi, stanco assai, me ne sono tornato a casa.

Cosa mi resta dunque del Festival MOFO, oltre a un incontro con il mio nuovo gruppo pop alternativo francese preferito? Tante cose, che domande! Intanto adesso so che il suono, le luci e gli spazi al Main d’Œuvres funzionano da dio e che se a febbraio dell’anno prossimo voglio fare follie so già dove andare. Inoltre, se voglio scoprire nuova musica di nicchia ho un nuovo posto in cui scavare, e ho imparato che a volte non strapazzarsi a vedere tutti i set di un festival può anch’essa essere la chiave della felicità. Anche perché tutti gli artisti che ho citato prima, anche se non li ho visti in prima fila, li ascolto ancora con piacere.

Perché un concerto dura una sera, sì, ma una line-up è per sempre.

 

Life is beautiful, when you have a Beautiful Noise (Stonks, Eyesore & The Jinx, Marcel)

Stonks live @Supersonic, Parigi, 22/02/2024

C’è una nuova serata in città. E se non fosse per i belgi Marcel, mio gruppo-feticcio, non lo saprei nemmeno.

Già nel passato mi sono soffermato sul Supersonic, sala parigina immancabile quanto intimidante: la mole e qualità della musica che questo posto propone ogni sera dell’anno e sempre gratis è incomprensibile, esagerata, quasi ansiogena. Starci dietro sarebbe un mestiere full-time, e fare del Supersonic un luogo dove “andare ogni tanto, ma sì, anche a caso, si beve una birra e si vedono due gruppi” una potenziale e pericolosissima dipendenza in cui nessuno vuole veramente cadere. Perciò ci limitiamo, ogni morte di papa, ad andare a vedere i pochi gruppi che conosciamo nella punta del mastodontico iceberg della programmazione. Certo però che fare del randomico scouting è una delle cose più divertenti del mondo, quindi forse un giusto mezzo sarebbe anche bello trovarlo, no?

Io e Maxime arriviamo non molto studiati nella sala più avanguardista della Bastiglia e già si respira un’aria di futurismo: pubblico abbastanza geek, gruppi stranieri, biografie musicali parecchio sofisticate e, sul biglietto, due parole seducenti: Beautiful Noise. Non facciamo tanto caso ai chi cosa come e perché dell’evento, interessati perlopiù a vedere Marcel, il cavallo del garage punk su cui punto tutti i miei soldi. Dopo cinque secondi del primo act, però, non tardiamo a renderci conto che tutto quello che c’è attorno all’headliner è lontano dall’essere solo cornice.

Il concerto dei giovanissimi Stonks, soprattutto, piazza un’ennesima bandierina sulla mappa del rock alternativo di stampo Benelux. I quattro di Bruxelles hanno solo un EP in attivo ma già una tonnellata di personalità da vendere sul palco. Il loro sound opera una sintesi ben propizia al mio gusto quando si parla di post-punk ultra-contemporaneo: dalle ispirazioni math della scena inglese (Squid, Black Midi etc.) prendono l’unica cosa che mi piace, ovvero i timbri e le dissonanze, elidendo invece le inutili osticità e lunghezze; contrariamente ai londinesi, tutta questa meravigliosa stranezza la installano in canzoni sì un po’ arzigogolate, ma composte in maniera organica, senza spocchia o sezioni sconnesse e, soprattutto, sempre pronte ad esplodere in sfoghi noise-rock primitivisti. Più insistenze kraut in quattro quarti e meno tempi dispari, più urla potenti e meno spoken-word insicuri: è solo il mio gusto, ma è così che mi piace che venga trattata la materia. Al di là del punto di vista compositivo, però, gli Stonks sono meritevoli anche sonicamente: la chitarra è una sola ma forte e presente, e non lascia mai un momento di vuoto, nemmeno quando svaria sugli acuti, merito anche di un basso che si impone bene nel miscuglio ma senza quelle volontà leaderistiche che nel post-punk revival a me spesso ormai puzzano di vecchio; inoltre, il fatto che tra i quattro membri uno sia un trombettista all’inizio sembra una gimmick ma alla fine non ci si fa quasi più caso talmente la tromba è integrata bene all’impianto rock: tra texture bislacche e un po’ noir (il finale di Minesweeper), riff struggenti (il ritornello di Bunker), esaltanti assoli un po’ jazzistici un po’ post-rock (come in Stuntman) o ancora un volo pindarico freak-ska sul finire (aspettiamo in gloria nuova musica), il valore aggiunto della tromba finisce per essere più emozionale che scenico. I ragazzi scrivono, suonano e si vendono bene: il bundle “EP + pacchetto di Camel gialle etichettate Lussemburgo” a 15€ è tanto illegale quanto irresistibile, così mi porto a casa Class Craic, la loro prima creazione, con un fondo di speranza di poter dire, tra quattro/cinque anni: “But I was there…”.

Si comincia a intravedere il fil rouge della serata quando montano sul palco Eyesore & The Jinx. Sono tre, per la prima volta in Francia, vengono da Liverpool e accidenti se si sente: non capiamo una mazza di quello che dicono (a parte l’apprezzatissimo fanculo al fascismo). Avere due chitarre, una batteria e nessun basso, un po’ come per la tromba degli Stonks, è una scelta che può sembrare più comica che funzionale, ma che nel loro no-wave revival minimalista e radicale, tipicamente inglese, ha la sua ragione di esistere (come ci ricorda anche quella battuta di This Must Be The Place di Sorrentino: “La chitarra ritmica è più interessante di quella solista, è più masturbatoria”). In effetti, il setup è adatto al sound dei ragazzi e, seppur la tentazione di paragonarli alla quasi defunta ondata del “rant-punk” britannico (questa volta sì, concedetemi il paragone facile: Sleaford Mods anni ’10), il risultato è più arguto che squallido, tra ritmiche un po’ spasmodiche (it does not need more cowbell) e riff ossessivi (genuinamente rabbiosi, più che nichilisti). Soprattutto, le canzoni sono sorprendentemente orecchiabili: On An Island colpisce per la cattiveria con cui passa dalla filastrocca alla sferzata punk degna dei migliori Idles, Gated Community è un apprezzabile rock’n’roll post-moderno, l’essenzialista Float Like a Jellyfish (Sting Like a Subtweet) è chiaramente una hit in potenza, et cetera. Devo ammettere che questi pezzi, pronti all’uso e dal sapore proletario inconfondibile proprio come le bustine di Yorkshire Tea del Costco, non sono proprio la mia tazza di tè. In compenso ho amici, inglesi e non, che lo Yorkshire Tea del Costco lo bevono con estremo piacere, perciò mi sento di consigliarveli, con il caveat  e il senso di colpa di aver pronunciato, su di loro, le parole più ingenerose possibili: “Niente male… nel loro genere”.

Per il partito preso a inizio articolo non posso parlare più di tanto dei Marcel, ma è pazzesco quanto siano unici e inimitabili. Oltretutto, ci siamo goduti in anteprima un nuovo pezzo, una cavalcata feroce che promette un ritorno, forse persino nel 2024, che potrebbe essere ancora più estasiante di Charivari. Inoltre, casualità senz’altro divertente, incrociamo per caso uno dei Cheap Teen, che con Maxime ci siamo goduti qualche settimana prima proprio qui. Le molteplici “ciane” con tutti questi artisti garage punk emergenti è perciò il modo più simpatico che ci sia di chiudere in bellezza una serata che ci ha nutriti con tutto lo spettro dei suoni che amiamo di più, a cavallo tra post-punk e noise-rock, il rumore più bello che ci sia.

A questo punto sarebbe meschino non interessarmi a che cos’è Beautiful Noise, ovvero il fautore delle convergenze di stasera. Il concerto di Stonks, Eyesore & The Jinx e Marcel è la seconda serata targata con questo nome: una vera e propria rubrica del Supersonic che si pone per obiettivo quello di scovare a giro per l’Europa le novità più calde del rock più strano, rumoroso e abrasivo possibile. Effettivamente, sembra fatta su misura per me, le line-up passate sono decisamente attraenti, le future ancora di più. Che bello che nell’epoca dell’iperproduzione, dov’è difficile scovare le proprie nicchie e non farsi travolgere dai grandi numeri, il giusto mezzo a volte si riesce ancora a trovarlo. See you soon, Beautiful Noise!

 

Alla ricerca del nostrismo perduto (Les Baltrink’, Branle Bas 2 Combat, Les Critters)

Un punk attempato con la coppola @Le Cri du Singe, Montreuil, 24/02/2024

Chi ha letto il mio recente live report su Les Baltrink’ sa quanto, in quello che ho scritto, si fatichi a distinguere nel mio giudizio musicale quanto della mia soggettività sia puramente estetica e quanto di essa sia un prodotto della situazione sociale ed emozionale in cui mi trovavo la sera in cui li ho visti. A volte capita e non me ne vergogno: questo è un diario di bordo, non giornalismo.

Così come nella mia serata al dive bar non mi ero esaltato davanti a certe band (Spaghetti Sluts) perché mi sentivo a disagio nel contesto generale, allo stesso modo davanti a Les Baltrink’ mi era parso di vedere un astro nascente del punk parigino e mi ero goduto il set al massimo perché finalmente mi sentivo libero dopo una serata di inadeguatezza. Quanto del mio giudizio sulla band era dovuto ai miei propri sentimentalismi, quanto invece era il gusto del mio orecchio di appassionato di HC? Ci vuole una prova del nove per decretarlo e il concerto a Montreuil del giovane quartetto questo sabato sera casca proprio bene.

Per chi non conoscesse Montreuil, AKA il “ventunesimo arrondissement” di Parigi, si tratta del comune di prossima banlieue più sinistrorso (quantomeno nello spirito) che si possa immaginare. A volte progressisti e petalosi, a volte radicali e autoritari, questi 892 ettari di città sanno sempre regalare delle buffe sorprese in termini di vita notturna, e stasera non è da meno: quando arrivo al Cri du Singe, locale mal referenziato su ogni sito internet esistente, lo stupore di trovarmi davanti a un'entità indefinita che oscilla tra il mini-squat e la sala concerti professionistica mi disorienta. Il comparto sonoro è eccellente, ma il palco non esiste; il corridoio è elegante e arredato in modo eccentrico, ma dopo uno sguardo più attento ci si accorge che è una sorta di serra con dei buchi nei vetri del soffitto; il bar è funzionale, ma non prende cash e vende le stesse bottigliette di birra che puoi comprarti per i cazzi tuoi al supermercato. È un centro sociale o solo uno spazio culturale dentro al quale si può fumare? Io e quel bombarolo veneto di Costantino (che gli squat li conosce anche meglio di me) non lo capiremo mai per tutta la serata. In compenso, almeno quello: il set dei Les Baltrink’ che apre la serata mi accoglie appena varco la soglia della sala e ci metto pochi secondi a capire che i quattro sono definitivamente la nuova “local band” hardcore punk su cui fare la mia puntata.

Una volta che i miei dubbi sono stati dirimti (viva la lingua italiana…), quello che di musicalmente notevole poteva succedere è già ampliamente successo. Il resto della serata merita comunque di essere raccontato rapidamente per due ragioni principali. La prima è che per la prima volta ho incontrato un artista sulla cui musica non ho necessariamente speso grandi complimenti, ovvero un membro degli Spaghetti Sluts. È stato un evento breve ma decisamente interessante: la ruota dei miei controlli emozionali è andata in tilt, con la freccia che non sapeva dove schizzare tra l’imbarazzo l’orgoglio la paura la serietà la strafottenza la tristezza. Per fortuna ci siamo trovati bene: che io non avessi nessunissima intenzione di stroncare chicchessia la band l’ha capito bene e ha trovato il mio report simpatico. Inoltre, a posteriori, non disdegno la musica degli Spaghetti Sluts, ed è anche e soprattutto per questo che l’ho raccontata e anche linkata. Onestamente, non mi permetterei mai di parlare esplicitamente male di un gruppo underground, ché già non è facile per loro. Questo non vuol dire nemmeno che Stereo Totale è uno spazio di adulazione: mi capiterà sempre di lanciare una critica, un’osservazione sarcastica, un sospetto di storcitura di naso, ma mai e poi mai sconsiglierò in toto un artista emergente che sono andato a vedere. Piuttosto, preferisco tacerlo.

La seconda riflessione che ci facciamo io e Costantino è di ordine più nostalgico. Entrambi espatriati, entrambi cresciuti in contesti in cui l’intrattenimento ce lo fornivano perlopiù gli ambienti di sinistra, col nostro bagaglio di ricordi adolescenziali, io di Firenze e lui di Vicenza, così diversi eppure così simili… Ritrovarsi a centinaia di chilometri dalle nostre rispettive culle, eppure sempre in una stanza piena di giovani esuberanti dove suona un oi! simpatico ma non per forza troppo conforme ai nostri gusti (per me è quasi un eufemismo) ci riporta in qualche modo uno strano sapore di casa. I due gruppi che seguono il concerto dei Baltrink’ ve li cito più per folklore che per vera e propria passione: Branle Bas 2 Combat, un trio di punk con la coppola un po’ stagionati ma già ultra-melodici (lo giuro, non abbiamo fatto un sing-along di The Kids Aren’t Alright in fondo alla sala mentre suonava un riff simile) e soprattutto ultra-piacioni: mille “cheap tricks” esilaranti stasera, tra canzoni sulla birra (“La bière… c’est mon frère !”), sul pogo, sugli insulti (“Enculé… bâtard !”) e ciononostante un momento di commozione al ricordo dei compagni che non ci sono più (riposa in pace “Patoch”, chiunque tu sia); Les Critters, sulla stessa vena ma un po’ più creativi nelle sezioni ritmiche e negli assoli, ci offrono forse meno risate ma anche più momenti di melodic hardcore adiacenti al nostro gusto, che vedremmo bene sia a Radio Onda d’Urto che a un Warped Tour immaginario nella “ceinture rouge”. Me la pogo serenamente su canzoni comme Johnny o Pleine Lune, che magari non mi ascolterei a casa ma che per un attimo hanno un sapore di madeleine di Proust. È proprio nei momenti in cui ti sforzi di più a reprimere le tue origini che loro vengono a te.

Non c’è vergogna ad ammetterlo: a volte il contesto conta tanto quanto, o persino più della musica. Specie per noi stranieri, una serata che ci fa sentire in un posto in cui non siamo inadatti vale oro. I gruppi underground, che la loro musica ci piaccia tanto o no, possono avere questo e tanti altri poteri magici.

Perciò viva i gruppi underground, e guai a parlarne convintamente male. Prometto di non farlo mai. Viviamo in un mondo troppo crudele per fare del male alla nostra gente.