lunedì 10 giugno 2024

Primavera Sound Barcelona 2024 - Il pagellone

Andare al Primavera Sound è un po’ come andare a vedere la propria squadra del cuore che gioca una finale europea. Non sai mai bene come andrà, ma l’emozione è sempre tanta.

Si dà il caso che, da cinque edizioni a questa parte (la mia prima fu la 2017, indimenticabile), il Primavera Sound sia ancora imbattuto: nonostante qualche piccolo scivolone, il festival di Barcellona è ogni volta un’esperienza stupenda, la rassegna musicale più interessante dell’anno, il weekend (lungo) più divertente, et cetera. Insomma, il Primavera Sound, da quando ci conosciamo, non ha mai perso una finale. Un po’ come il Real Madrid (ma non ditelo ai catalani, che poi si offendono).

Il Primavera Sound e il calcio, un po’, si assomigliano. Anche il Primavera fa il suo mercato per mesi e, come per il calciomercato, io e i miei amici amiamo fare pronostici, suggerimenti, assecondare o smentire voci di corridoio. Anche il Primavera, quando esce la line-up, schiera le sue formazioni, e ci sono giocatori da cui ci si aspetta tanto (e che magari renderanno poco?) e giocatori che non sappiamo bene che contributo possano dare nel ruolo che gli è stato assegnato (e che magari giocheranno benissimo?).

Anche per il Primavera, dopo che la partita è finita, ci si catapulta a fare le pagelle. Non so quanti di voi abbiano già goduto del rituale della lettura (o stesura) delle pagelle calcistiche post-partita: un momento catartico, dove è possibile rivivere le gioie di prestazioni sportive memorabili così come placare e razionalizzare tutte le frustrazioni dovute agli errori più grossolani dei giocatori.

Un momento magico, ma con una sola parola d’ordine: moderazione. Ebbene sì: le pagelle calcistiche hanno la caratteristica di essere morigerate e i voti, in quasi tutte le testate, raramente superano il 7 ½ (che, solitamente, equivale a una prestazione madornale). Prendere 8 vuol dire proprio aver fatto la partita della vita, almeno una doppietta senza errori. Ecco: le mie pagelle per ogni artista che ho visto al PS seguiranno la stessa linea. Su certi set, vedrete, mi sentirò di dare un giudizio pur non avendo assistito all’interezza del set in questione: non vi preoccupate, il tempo effettivo di ascolto verrà sempre specificato (in maniera calcistica, ovviamente).

Penso di aver chiarito tutto, perciò non perdiamo altro tempo e cominciamo ad analizzare e votare, giorno per giorno, tutti i concerti che ho visto in quest’edizione del festival.

Che si vinca o che si perda, forza Primavera! E Juve merda.

 

Mercoledì 29 maggio – Giorno 0

Arrivare il mercoledì mattina a Barcellona è il miglior modo di vivere il Primavera Sound, non c’è niente da fare. Finché potrò, penso che lo farò ogni anno. Non c'è solo la giornata inaugurale che, anche se a volte non è straordinaria (quest'anno non lo è), è comunque meglio non perdersi. C'è anche il tempo di ambientarsi all'aria locale, installarsi a dovere, riempirsi gli occhi con squarci di bellezza (meravigliose, ad esempio, le strade del Raval) e, dopo un riposino che avrebbe meritato di essere un riposone, andare al Parc del Forum e fare una prima ispezione dei luoghi (come se poi ce ne fosse bisogno). Il mercoledì solo una piccola porzione della gigantesca venue è aperta al pubblico, ma il palco cosiddetto Primavera (ormai Amazon Music purtroppo) oggi offre al pubblico generale (ingresso libero per tutti, festivalieri o no) una trafila di concerti gratuiti di un certo calibro. Purtroppo, una triste coincidenza calcistica, ovvero la Fiorentina che arriva in finale di Conference League, mi porta a perdere il concerto principe della giornata. Ho proprio una sfiga cronica, perché mi è successo anche l'anno scorso. Ma se per una serata doppia con Wu-Tang Clan e Nas, con la Viola che viene detta grande sfavorita, mi sono permesso il peccato mortale di saltare la finale, stasera non ho scuse. Non ci sono Phoenix (gruppo d’i’ cazzo, dai) che tengano e quest'anno l'avversario è assolutamente alla portata: bisogna andare a sostenere i ragazzi. Possibilmente vicino alla sala 2 dell’Apolo dove, appena arriva il triplice fischio dell'arbitro, mi fionderò a festeggiare, o consolarmi, con i concerti del Primavera alla Ciutat, che possono chiudere in bellezza questo mercoledì di prime emozioni primaveriche. Ecco perciò i miei voti ai protagonisti principali della giornata di oggi.

Ratboys live @Amazon Music Stage (Primavera Sound), Barcellona, 29/05/2024

Tropical Fuckstorm. La formula del noise rock perverso ma con un sottotesto sexy del supergruppo australiano (dove per “supergruppo” si intendono più le modalità di come si è formato che la provenienza eminente dei membri) sul palco funziona. Nei dischi, non lo so e purtroppo non so se mi interessa saperlo. Quel poco che ho ascoltato di loro mi ha convinto che sono una band rispettabile ma che non fa per me e il concerto conferma un po' quest'opinione: nel sound dei/delle quattro non vedo troppa coerenza e, per quanto gli “stage antics” tipici del noise rock, da amante del genere, possano farmi godere (si intende tutto quel che è schitarrare a caso fortissimo, aggeggiare in maniera poco saggia controller di pedali e sintetizzatori etc.), le canzoni sono tutte intrattenenti e piene di “roba nostra” ma un po' sparpagliate: ogni tanto partono piccoli colpi di cattiveria post-hardcore, poi dopo una cavalcata alla Sonic Youth, e poi i coretti femminili alla B52s... Fanno bene il loro lavoro ma mancano di personalità. Voto: 6, aurea (et rumorosa) mediocritas

Ratboys. Ho visto i Ratboys nel 2019 in una piccola sala a St. Louis, Missouri. Erano giovanissimi, solidi e molto caparbi nel suonare il loro indie rock semplice, tradizionale ma generoso d'idee. A distanza di cinque anni, eccoli su un palco gigantesco, tre album in più e, si potrebbe supporre, il fardello di dover mostrare a cosa assomiglia la maturità artistica. Eppure la grandeur del contesto non influenza la performance di questo quartetto spiccatamente midwestern, che è fatta di pura passione e sincerità. I ragazzi di Chicago appaiono eternamente giovani e spensierati, la loro tecnica e il loro affiatamento sono ad altissimi livelli ma senza alcuna pretesa di virtuosismi. La spigliatezza della cantante Julia Steiner, dalla voce eccezionale e dalla stage presence giocosa come a un “basement show”, colpisce particolarmente perché ci insegna che il grande indie rock è, innanzitutto, l'arte dell'umiltà. Il finalone con Alien With a Sleep Mask On ci regala il primo grande singalong dell'edizione. Voto: 7+, gente di sani principi

ACF Fiorentina. Ritengo quasi inspiegabile come una formazione di titolarissimi, oramai esperti di partite dove l'unica cosa da fare è imporre la propria superiorità, siano scesi in campo senza un filo di pelo sullo stomaco. Erano forse intimiditi dal clima sicuramente teso che comporta giocare contro una squadra greca ad Atene? Anche se così fosse, non c'è giustificazione a una partita senza nessuna idea di gioco, di puro compitino e priva di agonismo. Si fatica a credere a quello che si sta vedendo quando, ai supplementari, la squadra continua a giocare a lancioni. E quando l'Olympiacos segna, pur non avendo mai avuto né il pallino del gioco né grande brillantezza in attacco, non è nemmeno una sorpresa. La sconfitta, alla luce dell'attitudine mostrata dai giocatori, è meritata. Siamo noi tifosi, semmai, che non meritavamo questo scempio. Voto: 4, senza palle

The Dare live @La 2 de Apolo (Primavera Sound), Barcellona, 29/05/2024

Fat Dog. Il mio amico Tommaso, quello che vive a Londra (detto il Falso; il Vero è quello che già ha scritto su Stereo Totale e ci ha deliziati con le sue pontatine), mi racconta che i Fat Dog suonano praticamente una volta a settimana, nelle varie sale dove rigoglia il rock di domani della capitale inglese (mi colpisce, per ovvie ragioni, un solo nome: il Windmill). Non è difficile capire perché: il loro industrial rock giocoso, pieno tanto di influenze club music quanto di venature progressive rock, entrambe volutamente pacchiane, non è solo originale e fresco ma anche inesorabilmente divertente. Se avessi un locale, non ci penserei due volte a renderli la mia “house band”: fanno ballare, fanno pogare, e hanno in serbo varie sorprese (tra cui spicca una cover di Satisfaction di Benny Benassi) per rendere i quaranta minuti del loro set un po’ piacioni ma decisamente convincenti. Voto: 7-, nuove leve

The Dare. Che cos'è l'electroclash? Non è una domanda facile come non lo è, in realtà, la stessa domanda per ogni possibile sottogenere della musica elettronica. Si potrebbero perdere ore a spiegare l'importanza del dance-punk nella genesi di questa variante più radicale dell'electro, si potrebbero fare lunghe disamine su come i synth ultracompressi abbiano plasmato nel corso degli anni il suono di questa corrente. Si potrebbe però scegliere una strada più facile e riassumere l'essenza dell'electroclash con un'immagine: quella di uno yuppie newyorkese strafatto e arrapato, con la cravatta nera che gli svolazza dappertutto mentre si agita sulla pista da ballo. The Dare è esattamente questo. Letteralmente. E i suoi pezzi, che essenzialmente parlano di sesso e droga, sono un apprezzabile divertissement edonistico da tarda notte. Tra kick stupidamente gonfi, ritornelli caciaroni («I like the Girls who do druuuuugs...») e qualche svogliata suonatina di sintetizzatore qua e là, The Dare ci invita alla sua festa. Una festa che, dietro alle camicie bianche ben stirate e gli abiti da lavoro, nasconde in realtà una vera anima punk. Voto: 7, afterwork dell’alta finanza

 

Giovedì 30 maggio – Giorno 1

Cominciano, finalmente, le giornate ufficiali. Il Parc del Forum diventa un gigantesco agglomerato di palchi e comincia il più grande divertimento del Primavera Sound: seguire, e talvolta improvvisare, la propria “ruta”, ovvero la sequela di concerti e di spostamenti annessi e connessi che ci sballottolano di palo in frasca nel gigantesco perimetro della venue più bella del mondo, questo straordinario parco di cemento, post-portuario e post-industriale, pieno di “staples” iconici come il pannello solare gigante, il grande auditorium triangolare, l’anfiteatro vista mare, la spianata dei main stage… Non fatemici ripensare, che già mi manca. Piuttosto, andiamo a dare i voti a tutti i gruppi che sono entrati nelle mie rute.

Freddie Gibbs & Madlib live @Estrella Damm Stage (Primavera Sound), Barcellona, 30/05/2024

Viuda. Cominciare la prima giornata ufficiale del festival con una band spagnola è quasi tradizione. Farlo a un palco che si chiama “Steve Albini stage” è quasi dovere morale. E l'idea di avere della darkwave gotica per rinfrescarci sotto al torrido sole delle 17:15 sembra, sulla carta, quasi brillante. Le spagnole che compongono il quartetto Viuda, tra tastiere anni '80, canti disperati e un drumming pestone, sono coerenti nel loro revival ma anche terribilmente banali, poco incisive, spesso imprecise. Un paio di canzoni più lunghe, jammose e riflessive, nonché le interessanti vocals in asturiano, rendono il concerto un pochinino meno noioso sul finale. Ma neanche i regionalismi e le ipnosi sonore riescono a mascherare il songwriting un po' piatto di una band ancora lontana da una vera professionalità. Per dirla con le parole di Paolo che, sbarcato da El Prat, mi raggiunge proprio a questo concerto: “Ah, quindi è questo il famoso deathrock... Una merda!”. Voto: 5, dead rock

(uscito al 35esimo minuto) Voxtrot. I texani dalla carriera più frammentaria della storia sono in qualche modo sbarcati al PS, e con loro tutto un repertorio di canzoncine indie-pop leggere e fresche, ma che nascondono anche una certa qual intricatezza, lunghe e piene di sezioni come sono. La qualità del materiale va dal decente al bellino, senza mai avere estremi seppur con qualche pezzo nettamente sopra la media (tipo The Start of Something). È un buon modo (un “vero” modo) di iniziare questa calurosa giornata, tra chitarrine trillanti e altre amenità. Peccato per il cantante che si crede Elvis Presley e risulta un po’ antipatico. Voto: 6-, redivivi

(uscito al 30esimo minuto) Arab Strap. Ho già scritto abbondantemente di Arab Strap in queste sedi. Certo, era il tour in onore di Philophobia, c’erano solo due persone sul palco e faceva un freddo becco. A questo giro, i nostri scozzesi preferiti decidono di montare sul palco in gran numero e lontani dal loro minimalismo originario, per propinare principalmente il materiale del loro nuovissimo album, I'm totally fine with it 👍🏻 don’t give a fuck anymore 👍🏻, titolo che ancora non so se sia bellissimo od orripilante. Dimentichiamoci dunque dello slowcore e dei pezzi con code infinite, volte perlopiù a rinforzare concetti profondi tipo che Malcolm si è preso la candida. Diamo anzi il benvenuto a un lato quasi festoso degli Arab Strap, dove la club music incontra riffoni rock a volte anche belli cattivi e dove quell’omone di Aiden Moffat, sudato come solo un glaswegian in vacanza in Spagna può essere, cattura la nostra attenzione con la sua presenza feroce riconfermandosi, oltre che un genio delle tristezze del Nord, anche un mattatore da festival e leader indiscusso di una delle band più solide del momento. Voto: 7, Braveheart

Freddie Gibbs & Madlib. L’ho già detto e lo ripeto: per me Freddie Gibbs è semplicemente il rapper più bravo al mondo, punto. Magari non farà, come alcuni suoi esimi colleghi, profonde dissertazioni sociologiche sulla condizione della comunità afro-americana, ma nessuno come lui è capace di raccontare così bene le situazioni del commercio di crack e cocaina, che poi sono profonde dissertazioni sociologiche sulla condizione della comunità afro-americana. Il suo show con il leggendario produttore Madlib, dedicato ai dieci anni dell’album Piñata, è un tripudio di gangsteraggine e i due campioni dell’hip-hop contemporaneo sono disinibiti e cazzari come non mai, tra canne giganti, stage banter volgare e trucchetti “hype” riciclati all’infinito (media di “Say fuck the police!” urlati dal rapper: cinque al minuto circa). L’intrattenimento è a livelli altissimi e Freddie Cane, coi suoi flow geniali, impressiona sempre, che sia in extrabeat o che stia cantando un ritornello soul. Lo slot orario, il palco e la frequentazione del festival, però, lo sfavoriscono un po’: il pubblico ancora non è caldissimo e, come un vero gangsta, l’MC di Gary, Indiana a un certo punto si scazza. Dopo tre false partenze di Crime Pays decide di suonare Thuggin’ per una seconda volta (l’aveva già fatta a inizio set) e poi se ne va in largo anticipo con un’espressione un po’ amareggiata. Coerente, dopotutto. Voto: 6/7, veri gangsta (nel bene e nel male)

Blonde Redhead. La batteria svolazza con classe, le due chitarre si intrecciano, la voce femminile e maschile si alternano e il basso, lui, in base. Tutti noi che del live di Blonde Redhead sapevamo poco o nulla rimaniamo abbastanza stupiti di fronte a quest’assetto che è al contempo sofisticato e punk. E nonostante la voce di Kazu Makino risulti in qualche modo meno sorprendente dal vivo che su un disco, nonostante il trio rifiuti in tutto e per tutto ciò che può afferire al concetto di grandiosità, Blonde Redhead riescono a compiere un incantesimo e l’ipnosi collettiva comincia al primo pezzo e finisce all’ultimo applauso. Forse questa suggestione di massa è dovuta alla golden hour e al tramonto sul mare del mitico palco Cupra. Ma forse è anche dovuta al fatto che un gruppo indie rock con un’identità sonora così peculiare e con uno stile di composizione così emozionante capita sì e no ogni dozzina d’anni. Blonde Redhead non fanno che ribadire, prima pubblicando un ennesimo disco eccezionale come Sit Down for Dinner, poi strabiliando le folle con concerti di questo calibro, che la band è qui per rimanere e per lasciare un’impronta quasi leggendaria nella storia della musica indie. Voto: 7 ½, a Cesare quel che è di Cesare

Pulp live @Santander Stage (Primavera Sound), Barcellona, 30/05/2024

(espulso al 25esimo minuto per un episodio dubbio) Billy Woods. Un po’ dubbioso su come potesse essere la resa dal vivo del rapper più astratto degli ultimi anni lo ero, ma bastano pochi attimi a smentirmi: in un palco Plenitude un po’ vuoto, ma completamente assorto, le produzioni di Kenny Segal (et al.) suonano in maniera magistrale e il Billone nazionale rappa con una potenza espressiva e una precisione sbalorditive. Magari non avrà lo stile, l’iconicità e la fotta di altri colleghi dalla “street cred” più esplicita, ma la serietà e la competenza ci sono tutte e Woods ha profondità da vendere, come attestano, oltre che i testi, anche delle bellissime visual che raccontano la cultura nera negli Stati Uniti. Mi trovo costretto a lasciare il concerto prima del previsto perché Paolo non capisce l’hip-hop e vuole che andiamo a vedere un po’ di club music. Mi sposto, a malincuore ma non troppo, salutando con affetto questa bella musica che coinvolge più il cervello che la zona pelvica. Voto: 6 ½, concretezza abstract

(gli auguriamo pronta guarigione dal suo infortunio) Nazar. Entriamo nelle interiora del Port Forum e, nello stanzone di cemento noto ormai da anni come Warehouse, un sound-system alla giamaicana da 40.000 Watt ci accoglie con delicatezza. A farlo vibrare, oggi, ci sono vari artisti del roster della leggendaria etichetta Hyperdub, e ad aprire le danze con un live-show è Nazar, producer belga di origine angolana che negli ultimi anni si è ritagliato una sua popolarità riadattando il kuduro a situazioni bass music (un po’ come DJ Nigga Fox aveva fatto con contesti più house). Il prodotto è interessante, le bassline molto coinvolgenti, ma il reparto percussivo quasi inesistente rende il set decisamente concettuale, specie per chi voleva sgambettare e si è dovuto trovare davanti “’sto filosofo” (cito). Voto: senza voto (S.V.), neoplatonico

(sostituita al minuto 10 per necessità tecnico-tattiche) Beth Gibbons. Stasera ci sono delle priorità, e la priorità madre è quella di vedere i Pulp da vicino. Bello tutto, bello che Beth Gibbons sia risorta dal letargo con un disco suggestivo, bello il set della sera nell’anfiteatro davanti al mare, bella la banda con tantissimi suonatori di strumenti più o meno ortodossi. Bella anche la sua voce, bella anche la sua carriera. Ma un po’ chi se ne fotte, no? Siamo di passaggio proprio dove suona lei e non concedere a Elisabetta l’ascolto di un paio di canzoni sarebbe un vero sgarbo. Detto ciò, non rimaniamo impressionati dalle nenie dark-folk di questa rinnovata Lady Portishead. Magari il suo set è tutto in salita. Forse non lo sapremo mai, ma non ce ne crucciamo. Voto: S.V., interlocutoria

(schierato gli ultimi 20 minuti per conservare il risultato) Vampire Weekend. A-Punk è un pezzo incredibile, devastante, perfetto. Un dieci su dieci. Lo vedo dalla distanza di un kilometro mentre arriviamo alla zona main stage (per gli amici: Mordor) e un po’ mi emoziono. Il resto dei pezzi, visti da posizione assai defilata aspettando i Pulp, mi paiono piuttosto carucci e i suoni mi convincono per la loro originalità (su tutti quelli della batteria). Paolo continua a dirmi che come headliner sono una presa per il culo, e fino a qualche mese fa sarei stato d’accordo. Ma intravedo uno spiraglio di fascino. Voto: S.V., vorrei rivederlo Fabio

Pulp. Cosa ci si può aspettare dall’headliner da roboanza primaverica per eccellenza, il gruppo britpop che le persone che hanno gusto aspettano di più al mondo? Tante cose, certo. Ma una tale ecletticità, brillantezza, classe, ironia, festosità… diciamolo: una tale per-fe-zio-ne (forse mi sentirete ancora pronunciare questa parola, ma scandirla proprio no), non credo che nessuno se l’aspettasse. Jarvis Cocker, il frontman definitivo, è al contempo voce iconica e mai scontata, cantante dalla tecnica sopraffina, sex symbol e attore del grande teatro popolare. I membri della band, affiatatissimi sia tra sé che con gli elementi di scena pensati apposta per questo show speciale (una decina di archi!), sono l’emanazione di quel britpop che sa essere sia perfettino sia viscerale: Mark Webber, che col suo look da contabile sciorina gli assoli di chitarra elettrica più emozionanti del mondo, è l’emblema di una leggenda: la leggenda Pulp. E la leggenda continua per un’ora e mezza molto abbondante, con una scaletta strapiena di hit, visual esaltanti e coreografie mozzafiato che vorremmo non finissero mai. È una grande festa dall’inizio alla fine: dalle stelle filanti che partono con Disco 2000 suonata a sorpresa come secondo pezzo fino all’encore impreventivato, una Razzmatazz che è quel regalo che la città di Barcellona non merita ma di cui ha bisogno. Voto: 8 ½, l’encore della vita

The Armed live @Plenitude Stage (Primavera Sound, 30/05/2024)

The Armed. Quando The Armed vennero chiamati per suonare al Primavera nel primo giovedì della doppia edizione 2022 (la giornata con la ruta indie più gratuita della storia, nonché la peggio organizzata di sempre), Tommy e i suoi amici reagirono come se fosse stata la venuta di Cristo in persona. Decisero, addirittura, di andare a vedere questa macro-band/collettivo post-hardcore al posto dei Yo La Tengo, e oltretutto assistettero all’intero show mentre facevano un’infinita coda al bar. Li ho sfottuti non poco, probabilmente a ragione, ma in fondo in fondo da allora sono sempre stato curioso di vedere lo show dei The Armed. Se l’album dello scorso tour, Ultrapop, mi era piaciuto perché, o nonostante il fatto che, non ci avevo capito un cazzo, questo nuovo Perfect Saviors del 2023 mi stuzzica proprio per il fatto che contiene canzoni vere e non accrocchi di sezioni metal, emo e post-punk da trenta secondi l’una, prive di apparente coerenza e coperte dalla saturazione del mix. L’inizio del concerto, caotico proprio per fare contenti i fan di vecchia data, non mi colpisce un granché, ma più avanza il set più il suono, in concomitanza col songwriting, diventano leggibili. La fanbase storica non sembra preoccuparsene e anzi si emoziona a dismisura. Con Clone, che è sì un improbabile math-emo coi blast-beat, ma anche una canzone vera, un piccolo moto dell’anima lo sento anch’io. Voto: 6+, talento che si sgrezza

Wiegedood. La giornata è stata campale e arriva il momento di decidere se si vuole continuare a cazzeggiare, magari con le molte opzioni elettroniche che ancora ci vengono proposte, oppure se è meglio alzare bandiera bianca. Un genere di decisioni non facili, che vanno prese in conciliabolo, seduti in cerchio, con una musica di sottofondo propizia per riposarsi e al contempo prepararsi a una possibile nuova battaglia. Ed ecco che il Primavera, in questa fascia oraria non priva delle sue complessità, ci dà buona uva: un’oretta di black metal puro e crudo, senza fronzoli, da gustarsi mentre si riposano le membra stanche tra le 3 e le 4 di notte. I blackster belgi sono professionisti serissimi (“black metal pelato, lo chiamo io”) e bombardano senza alcuno scrupolo mentre i geek godono, i festivalieri più stravaganti scappano inorriditi oppure stanno allo scherzo (ho veramente visto uomini pelosi con indosso un cortissimo body rosa fare le mosse di Abbath?) e gli occasionali non sanno bene come reagire (ho veramente visto una ragazza sulla trentina accennare dei passi di danza e poi rinunciarci?). Solo il Primavera Sound può offrire simili follie. Voto: 6+, caffè bevuto la sera

(non convocato, fa invasione di campo e segna) Tim Reaper. Dentro alla Warehouse alle 4:30 succedono cose che non ricordo molto bene: Paolo non c’è, mi scrive che è andato all’albergo dopo un Kode9 in grande spolvero; il Falso e Daniel (il mio compare di pale eoliche, appassionatissimo tra le varie cose di UK bass, che oggi ha fatto rute esoteriche comprensive anche di un insospettabile Boiler Room purple dubstep di Joker) scoprono una passione comune per l’hyperpop e decidono di andare a rilassarsi con il set di A.G. Cook; Tommy deve accompagnare qualcuno (chi?) da qualche parte (dove?) e finisce per spiaggiarsi, come dice lui, “sopra a un garde-rail” (cosa?). Insomma, come cantava C. Tangana: “Perdì mis amigos”. Ma prima che il caos della sparpagliata generale mi faccia decidere di partire ho il tempo di entrare, constatare che il ragazzo di Hyperdub sta spinnando della jungle music, il genere meno raffinato che esista, con estrema raffinatezza, e ballare senza sosta. Ogni disco è qualità, e, mentre esco per finire la nottata di fronte al mare, faccio ciao ciao con la manina come a dire: “Tra noi due non è finita, ci rivedremo”. Voto: 6 ½, presto nei vostri rave di fiducia

(al suo timido esordio in serie A) Herrensauna: CEM B2B MCMLXXXV B2B Salome B2B SPFDJ. Per il DJ-set che chiude la giornata al Cupra (slot tradizionale e importantissimo), il PS opta per un back-to-back al cubo che porta sul palco una quantità inutile di gente. Dello show si apprezzano particolarmente due elementi: uno, il fatto che abbiano tutti nomi impronunciabili (tranne Salome che è un po’ come “Fabrizio” in quel famoso video del Nido del Cuculo); due, il fatto che il look di ciascuno, in maniera diversa, gridi “techno” ai quattro venti: c’è la frigida col caschetto da spia russa che fuma seicento sigarette di fila, il tizio in tunica nera, la persona dal genere indefinibile con il make-up da demone infernale, etc. Intrattengono abbastanza, in un DJ-set banalotto ma senza sbavature. Voto: 6-, in fondo è technazza


Venerdì 31 maggio – Giorno 2

Joanna Sternberg live @Auditori Rockdelux (Primavera Sound), Barcellona, 31/05/2024

Charlemagne Palestine. Al secondo giorno di festival ci accorgiamo che abbiamo una gran voglia di vedere concerti dalle quattro del pomeriggio fino alle quattro del mattino, ma che a inizio pomeriggio non abbiamo il fisico per stare in piedi. Grazie a Dio esiste l’Auditori Rockdelux, che negli anni ci ha regalato immense gioie: un luogo del cuore, un’enorme sala dove l’acustica, il comparto suoni e le luci sono seconde solo alla comodità delle poltrone. Tante emozioni, qui dentro, ma anche qualche ghirata, va detto. Oggi è inevitabile, di fronte a questo vecchietto che sembra un senzatetto e che a quanto ci dicono avrebbe inventato il minimalismo, o qualcosa del genere. Un rilassante drone di sottofondo ci accompagna verso il mondo dei sogni mentre il signore suona, alternando due sole dita sui tasti del pianoforte, una suite in tre movimenti: la prima da dormire sul lato destro, la seconda sul lato sinistro e la terza da osservare, ormai riposati, per godere della pittoresca visione di uno degli ultimi esemplari di una specie ormai estinta: i musicisti-filosofi della contemporanea (sì, “la contemporanea” è un genere). Che ridere poi quando alla fine si mette a mugugnare a cappella, tira fuori due bicchieri di vino e li fa tintinnare mentre se li scola, per poi blaterare che lui suona il piano come fosse un synth e levarsi dalle balle. Charlemagne, se sei un truffatore, sei il mio preferito. Voto: 5 ½, pisolino con sorpresa

Joanna Sternberg. Ci sono tante ragioni per amare il twee-pop in tutte le sue forme, e Joanna Sternberg le incarna davvero tutte. Il twee-pop è accettare i propri sentimenti per come sono senza vergogna, e la cantante lo fa tanto nelle sue canzoni come nel suo live. Il solo show della cantante di New York è una grande collezione di piccole perle, canzoni corte e semplici che rielaborano il folk americano in chiave tenera e intimista. La performance di Stenberg è goffissima, sia nel suonare sia nell’occupare il piccolo spazio che le hanno pignolamente adibito al centro dell’immenso palco dell’Auditori. Ma alle note steccate seguite da un “Sorry” per poi riattaccare ci si abitua in fretta e diventano parte della bellezza della performance. Joanna è parecchio in là sullo spettro dell’autismo per sua stessa ammissione ma ha trovato il suo modo di esprimersi e vederla sentirsi a suo agio, ridere e scherzare, per poi spiccare il volo con la sua voce così dolce e particolare è una vera emozione. Ma non pensate che la bellezza de concerto risieda solo nella fierezza di vedere una persona poco conforme alle norme del pop riuscire nel suo mestiere, un po’ come per Susan Boyle in quel vecchio video del cazzo. La cantante ha anche un talento straordinario come songwriter e ha scritto canzoni di rara bellezza, una su tutte Mountains High, che viene suonata per prima, prima che io sappia chi è Joanna Sternberg, a cosa assomiglia, come si rapporta al pubblico. E che ciononostante trasforma il mio viso in una maschera di lacrime. Voto: 7 ½, la persona più abbracciabile del mondo

(è sceso in campo?, non ne siamo sicuri) The Last Dinner Party. Ci passiamo davanti per prendere una birra al volo e ascoltiamo due canzoni. Il palco è gremito di gente. Francamente, sono mesi che non capisco cosa ci trovi la gente in questa band uscita dal nulla con un disco dalla produzione “barocca” ai limiti dell’irritante. A memoria, quella dell’Ultima Cena è la musica meno memorabile ad avere un tale successo commerciale negli ultimi anni. Belle figliole però. Voto: S.V., prodotto dell’industria

Yo La Tengo. Ho visto i Yo La Tengo nel 2022 e nel 2023. Mi appropinquo a rivederli nel 2024 e sono ancora sinceramente emozionato, un po’ come se fosse la prima volta. Poche cose sono imprevedibili e sorprendenti come un concerto dei Yo La Tengo. È perché nella scaletta può veramente esserci di tutto, dal puro noise/drone (chissà se rifanno Pass The Hatchet I Think I’m Goodkind, canzone ripetitiva e lunghissima, quasi dolorosa) al folk più leggero del mondo, o ancora perché ogni volta che il trio di Hoboken sale sul palco ci vuole sempre un po’ a capire se ci sono o ci fanno, se stanno suonando piano o forte, se sono presi bene o presi male. Non è un concerto per forza facile, quello dei Yo La Tengo, ma è forse il concerto dove si possono osservare al meglio artisti spinti da un carburante composto solo e soltanto di pura intenzione. Non ci sono trucchetti, non ci sono fini studi sulla tecnica, solo la pura forza della volontà di trasmutare l’emozione in musica. Ed è così anche oggi: che suonino una jam lunghissima (l’apocalittica Blue Line Swinger è straordinaria), una hit (la versione di Stockholm Syndrome con l’assolo più estremo dell’edizione mi esalta) o ancora una piccola carezza acustica (al gruppo di romani odiosi che chiacchierano fortissimo durante Did I Tell You non posso che augurare sciagure), quando i Yo La Tengo lo fanno con convinzione, il risultato è spaventosamente emozionante. L’unica stortura del concerto, infatti, è che a questo giro Autumn Sweater mi è sembrato che si siano sentiti obbligati a suonarla, con risultati sotto la media. Ma su un palco prestigioso (o con un pubblico, ahimé, un po’ del cazzo) capita anche ai più grandi. Voto: 7 ½, restate sinceri per sempre

The National live @Santander Stage (Primavera Sound), Barcellona, 31/05/2024

BADBADNOTGOOD. Quando vedemmo i BBNG nel lontano 2017, IV era a malapena uscito e ci sembravano un gruppo di giovani talentuosi ma anche un po’ scassoni, o quantomeno molto veraci, sia nel suono (ok, al palco Pitchfork nel 2017 si sentiva tutto malissimo), sia nella maniera spontanea di jammare e invitare il pubblico alla danza. Oggi, a distanza di sette (!) anni, questi nu-jazzmen giovani lo sono ancora, ma come può essere giovane un Dario Nardella, e talentuosi lo sono ancora, ma all’inverosimile: hanno un timing perfetto, una maestria del suono, sia digitale che analogico, praticamente ineccepibile, e nuove gimmick simpatiche tipo un nuovo strumento, una sorta di fiato-synth con la testa scomponibile Malossi. Hanno persino un nuovo accenno di psichedelia che non trovo affatto spiacevole. “Un po’ artificiale forse?”, mi fa Paolo al primo pezzo. È vero che l’assenza di qualsivoglia sbavatura, quando si parla di nu-jazz affine all’hip-hop, ha sempre il rischio di generare l’effetto “lo-fi beats to relax/study to”, e a piccolissimi tratti il timore di vedere uno show non troppo genuino c’è. Ma è anche vero che un groove poderoso, contagioso e inesorabile come il loro ce l’hanno davvero in pochissimi, ed è lui a prendere il sopravvento su ogni istante del concerto. Aggiungici anche assoli tutt’altro che scontati e pieni di note blu e sì, possiamo serenamente riconfermare i BADBADNOTGOOD come una delle band più rilevanti e interessanti nell’attuale scena della musica adiacente al funk. Voto: 6/7, custodi del groove

(uscito al 40esimo minuto) Clipse. Lana del Rey dovrebbe aver attaccato a suonare nella zona main stage, svuotando letteralmente la zona vicino all’ingresso. E si dà il caso che in questa zona si stiano per esibire i Clipse, una delle reunion più inaspettate dell’edizione. Per chi non lo sapesse, questo duo di fratelli MC è il moniker che ha lanciato nel rap game non solo il misconosciuto Malice ma anche un certo Pusha T, oggi nel gotha del rap americano. Spinti spesso e volentieri dalle produzioni belle “phat” di nientepopodimeno che Pharrell Williams, i rapper della Virginia hanno pubblicato album iconici per il suono “southern” dei primi anni 2000. Vederli in Europa, più di dieci anni dopo i loro ultimi show, è un’occasione più unica che rara. E purtroppo non c’è molta gente. Ma ai ragazzacci non importa e portano ai fan del vero hip-hop un’energia spettacolare, in uno show fedele alle radici di quest’arte ancora troppo bistrattata e/o incompresa da pubblici come quello del Primavera Sound (compreso Paolo che sbadiglia e offende, in contemporanea). È tutto molto retrò: il DJ-set con le hit del momento per scaldare la folla nel primo quinto di concerto, l’uso e abuso di sample per l’hype (sì, il tuono con i vetri che si rompono), le visual con i boom box sullo schermo. Uno show quasi rassicurante per chi ama il rap vecchia scuola e anche per chi, come me, apprezza anche la carriera recente di Pusha T e fino ad oggi non aveva ancora avuto il privilegio di vederlo in carne ed ossa a spaccare il microfono a suon di: “Gyeach”! Voto: 7, semplicemente la doppia H

(entra a 20 minuti dalla fine a grande richiesta di una frangia di ultras radicali) Lana del Rey. Già per il fatto di aver cominciato con 30 minuti di ritardo, Lagna meriterebbe un’insufficienza grave a prescindere. E se la becca. Quel poco che vediamo della performance dell’act più totalizzante dell’edizione è ancora più agghiacciante: se ne sta seduta e canta con un flebile filo di voce, delega tutto quel che può alle coriste, si muove a malapena. Una bambola: bella ma inanimata. Alla fine dice che purtroppo la obbligano a smettere, annuncia le ultime tre canzoni che canterà (ma dai…) e le esegue tutte di fila mentre io e Paolo ormai disinteressati ci facciamo una partita a scacchi su Lichess diventando per qualche istante una piccola “novelty” per la folla del palco opposto. Poi, mentre sto preparando uno scambio di regine, l’insperato: parte un pezzo da An Empty Bliss Beyond This World di The Caretaker (???!!!) e, mentre l’equipe prepara il palco dei National, Lana del Rey concede alle prime file autografi, selfie, qualche parola, mentre le telecamere inquadrano questa messianica discesa. Un glitch nell’esistenza: nulla ha senso, nulla è reale. Viviamo in una simulazione, in una realtà liminale. Voto: 4, MK-Ultra

The National. Il rock, si sa, ha una parte di masochismo. E io e Paolo, che amiamo il rock, siamo pronti a infliggerci cose molto dolorose per poter dire che nella giornata un po’ sguarnita di oggi la nostra dose di rock ce la siamo comunque portata a casa. Il cilicio di stasera, nello specifico, è un lunghissimo set di due ore, fino a notte fonda, nel main stage (già questo è tanto da sopportare), dei The National, ovverosia il gruppo rock contemporaneo a più alto potenziale di scassamento di maroni esistente. Per rincarare la dose, chi li ha visti suonare un paio d’anni fa parla di un gruppo un po’ mogio, con un Matt Berninger schivo e sicuramente ubriaco, che ha suonato sì belle canzoni ma tanto materiale nuovo e lievemente tedioso. Scommettereste voi sulla band che ha l’indicatore xT (expected Tafazzi) più alto dell’edizione? Noi sì, perché gli indicatori non contano nulla e il Primavera Sound è fatto anzitutto di sorprese. E che sorpresa, infatti, quando la band americana monta sul palco e comincia a sparare scariche elettriche una dietro l’altra in uno show di un’intensità unica, con un frontman scatenato e una scaletta che è praticamente un greatest hits. È veramente un tripudio di texture di chitarre quasi shoegaze, una performance ritmatissima, piena di sing-along e giusto tre o quattro ballad sopraffine a impreziosire uno show mozzafiato. A un certo punto i “sad dads” dell’Ohio escono dal palco e dico a Paolo: “Ah!, pure loro sono di quelli che fanno il finto encore” “Guarda che hanno finito” “Ma che dici, saranno passate massimo un’ora e venti”. Mi indica l’orologio, sono le 1:30 in punto. Due ore volate via, contro ogni pronostico. Voto: 8, trafitto da un raggio di sole

Mount Kimbie live @Pull&Bear Stage (Primavera Sound), Barcellona, 31/05/2024

Mount Kimbie. Sono passati sei anni da quando i Mount Kimbie hanno bazzicato queste contrade per il tour di Love What Survives. Ricordo ancora con estremo piacere uno dei concerti più inaspettati della mia vita: il duo UK garage, che meglio di tutti era stato capace di adattare il suono della club music inglese al contesto di album intimisti e raffinati, era diventato una band. Una band parecchio pestona, anche, la cui proposta era essenzialmente quella di intense cavalcate post-punk strumentali costellate di elementi elettronici. Figo, per carità, ma più un “progetto” che una vera band. Poi, quest’anno, è uscito l’ottimo The Sunset Violent, e il dogma “i Mount Kimbie sono un duo” è stato finalmente superato. Con l’aggiunta di Andrea Balency-Béarn (un’aderente della religione Sadierita), che canta e sintetizza, Kai Campos può dedicarsi praticamente appieno a integrare come si deve la chitarra a quello che suona in tutto e per tutto come un nuovo indie rock, dal songwriting coeso e pungente, che non dimentica un suo sostrato house (Made to Stray in chiusura serve a rimarcarlo) ma che non ha paura di esplorare nuovi orizzonti sonori anche estremi (Fishbrain a tratti è shoegaze, di quello vero, che fa male alle orecchie). Mount Kimbie è finalmente il nome di un gruppo rock, potenzialmente un gruppo rock generazionale. Ultima mossa da eseguire: smetterla di invitare l’odioso King Krule in studio, ché la voce di Dom Maker e della sua collega suonano molto meglio. Voto: 7 ½, band vera

HiTech. Ci risiamo. Altra giornata campale, altro pit-stop tattico al palco Steve Albini per ricaricare le pile e decidere il da farsi. Il menù stasera non offre black metal, bensì il footwork di HiTech, gruppo emergente di Detroit il cui ruolo dei membri si fatica a comprendere, ma la cui finalità del set è molto chiara: portare al Forum un’energia raver da “bloc party” di un ghetto nero della periferia americana. Il nobile intento non riesce malissimo vista la presenza scenica degli hypemen, molto bravi ad arringare la folla, e la diversità dell’offerta musicale proposta dai deck, che svaria da richiami techno ad omaggi alla liquid d’n’b, senza disdegnare Miami bass e compagnia bella. È una proposta notturna molto, forse troppo tamarra, ma ci intrattiene serenamente per un’ora e alla fine ci fa anche sgambettare un minimo (proprio un minimo, eh). Voto: 6-, coccodrillo uscito dalle fogne

(entra ed esce per pochi minuti senza che se ne accorga nessuno) TraTraTrax: Verraco B2B Bitter Babe B2B Nick Leon. Ancora un back-to-back con troppi DJ. Ancora technazza. Ma questa volta senza nemmeno lo sketch di vedere gente buffa sul palco. Verraco nel 2020 ha fatto anche un ottimo disco IDM che si chiama Grial, ma il suo tocco da fine decostruttore della bass music, dietro ai deck, proprio non si sente. Gli altri non so chi siano e non mi interessa granché di saperlo. Voto: 5, anche la technazza va saputa fare


Sabato 1 giugno – Giorno 3

Lankum live @Auditori Rockdelux (Primavera Sound), Barcellona, 01/06/2024

Nala Sinephro. È buffo che, in un festival che fa della sua diversità la principale caratteristica, la presenza di act adiacenti al jazz sia sempre stata abbastanza aleatoria, in certe edizioni ai limiti del derisorio. Quest’anno, a parte i BADBADNOTGOOD, poca roba. E in questo cestino di poca roba spunta casualmente Nala Sinephro e si insidia nella nostra ruta non tanto per meriti artistici quanto perché è all’Auditori alle quattro e mezza del pomeriggio. Sarà ancora sonnellino? Potete dirlo forte! Non sono le lunghe intro di arpa effettata della signora Sinephro, anche suggestive e particolari, a farmi sprofondare nel mondo dei sogni, bensì tutto quello che le segue: un jazz contemporaneo saturo di synth un po’ vecchiotti che non mi sorprende in nessun modo né mi cattura l’animo al punto di farmelo definire “spirituale” come certi hanno fatto (quell’aggettivo lo riservo alle cavalcate matte del tardo Coltrane e al limite a qualche illustre imitatore, tipo Muriel Grossmann). Se poi ci aggiungiamo il fatto che essenzialmente il concerto è composto di due intermezzi d’arpa e di due suite e che le due suite sono indistinguibili… Beh. Voto: 5, sonnellino senza sorpresa

Lankum. Vuoi perché Shane McGowan è morto non troppo tempo fa, vuoi perché col mio gruppo punk stiamo imbastendo una finta canzone da pub scozzese, vuoi perché En Attendant Ana suona una cover di I’m a Man You Don’t Meet Every Day… Insomma, vai a sapere perché, ma negli ultimi mesi Rum Sodomy & The Lash, il disco chiave di The Pogues, è stato una personale ossessione. È uno di quei dischi che ti cambiano la vita e che ti lasciano un insegnamento, che nel mio caso è: il folk gaelico è una delle musiche più struggenti che esistano al mondo. Per cui, perché non restare nel comodo Auditori e dare una chance alla band irlandese che ha riportato questo genere in palcoscenici di una certa importanza (penso a quella suggestiva partecipazione al Roadburn)? Mai scommessa fu più azzeccata: la band di Dublino dal vivo è stupefacente. Ogni colpo di tamburo sono brividi che mi attraversano il corpo, i droni delle zampogne e le voci ipnagogiche dei cori mi trasportano in uno stato di trance, e quello che capisco dei testi mi porta fino alle lacrime un paio di volte. La band più da pugno nello stomaco dell’edizione, poi, si rivela anche la più simpatica: il cantante Ian Lynch non solo sa portare sul palco un rituale sonoro tempestoso, ma anche renderlo, in qualche modo, quasi accogliente. Voto: 7/8, taverna con vista sulle praterie

(entra in campo per protestare prima di essere allontanato dall’arbitro) Lisabö. “Oh comunque grandi Lankum! Oltretutto sono stati tra i pochi finora a parlare di Gaza”. Detto fatto. Sul palco Cupra c’è un backdrop con una bandiera palestinese gigantesca. Non si può che rispettare enormemente i Lisabö, band post-hardcore basca, per questa mossa di militantismo massimalista. Anche le due canzoni che ascoltiamo non sono malaccio: la formazione, massimalista anche lei (due batterie!), dà una bella spinta e le vocals screamo in euskera funzionano. Voto: S.V., Palestina libera

PJ Harvey live @Santander Stage (Primavera Sound), Barcellona, 01/06/2024

(esce al 20esimo minuto) Crumb. Quattro o cinque canzoni del vellutato psych-rock dei Crumb non fanno dispiacere. Non li trovo speciali (a differenza, per esempio, di Tommy) ma hanno un loro perché. Voto: S.V., da rivalutare

(entra in campo a 15 minuti dalla fine e prende un rosso per insulti quando l’arbitro fischia la fine) 070 Shake. Vi giuro che dal palco Estrella Damm non sta arrivando musica ma solo frequenze basse che rendono quasi impossibile comunicare. L’ascolto è ai limite dell’insopportabile e la rapperaccia da due soldi si atteggia pure a regina di stocazzo. Ma siamo gente tollerante e mentre aspettiamo il set di PJ Harvey defilati a destra la lasciamo fare. Peccato che la 070 non voglia schiodare da dov’è e continui a far lanciare canzoni al suo DJ mentre monta lo scorno generale e i gesti del “vattene a casa” si moltiplicano. Quando finalmente un eroico fonico le stacca il microfono a tradimento è un sollievo di massa, ma la stronza ha comunque preso dieci minuti abbondanti a Polly Jean. Per fortuna sono stati recuperati, ma non si fa, dai. Voto: 4, Primavera’s most hated

PJ Harvey. Con al seguito una band raffinatissima, l’eterea cantante monta sul palco provocando un delirio generale talmente terraformante che viene giù un acquazzone memorabile. Dopo i primi due pezzi, tratti da release recenti, che fatico a trovare esaltanti (ma sto sentendo la splendida voce di PJ Harvey dal vivo, quindi non posso lamentarmi), finalmente la setlist prende forma e comincia a partire una discreta hit parade, inevitabilmente suggestiva, specie nei suoi momenti più rockettari. La dedica a Steve Albini con la performance acustica di The Desperate Kingdom of Love è da brividi al cubo, il vero minuto di silenzio che Steve, il più grande di tutti, si meritava. Il concerto è oggettivamente ottimo, la musica di gran qualità e l’esecuzione praticamente perfetta (fidatevi, suonare canzoni con quelle idiosincrasie ritmiche e armoniche dev’essere un incubo). L’unica pecca è che, nello sturm und drang della bufera che così bene si sposa alle canzoni, PJ Harvey sembra un po’ intimidita dal maltempo, e non posso che vederla come un’occasione sprecata perché se la cantante, pur restando fredda come è sempre stata, fosse venuta a sfidare gli elementi con carattere invece di starsene così indietro nel palco, allora lì sì che avremmo assistito a un concerto ai limiti del mitologico. So che la mia critica è pignola e ingrata, ma in un edizione in cui varie frontwomen si sono distinte per il loro estro è un piccolo dettaglio che può influire sull’analisi di una comunque ottima prestazione. Voto: 7, tempesta senza lampi

Bikini Kill live @Pull&Bear Stage (Primavera Sound), Barcellona, 01/06/2024

Bikini Kill. Le quattro regine del riot grrrl, dopo mille concerti annullati in passato, finalmente sbarcano a Barcellona per la prima volta in carriera con un reunion show che, contrariamente a varie iniziative di questo genere intraprese da leggende del punk, ha un sapore freschissimo e non odora di vecchio nemmeno per un istante: Kathleen Hanna e socie suonano esattamente come sui loro dischi di trent’anni fa ma, soprattutto, hanno l’aspetto e l’attitudine di una band di ventenni. Non è difficile capire il perché: in quello che portano sul palco, le Bikini Kill ci credono fino in fondissimo. A un certo punto Santa Kathleena da Portland lo dice anche: “Ok, that was far from perfect. But that’s the beauty of punk rock: it’s not perfect, and anybody can do it”! E questo spirito la band lo incarna perfettamente: si vestono con i peggiori abiti scintillanti da “thrift shop”, si scambiano strumenti, fanno battutacce (“This is PJ Harvey’s pee”, bevendo un succo d’arancia), infamano l'eteronorma. Soprattutto, suonano da dio e sparano pezzoni uno dietro l’altro. Sono commosso: ho visto il vero spirito del punk, e ne sono innamorato. Una gocciolina mi scende sulla guancia, ma per fortuna nel mosh-pit sotto la pioggia non si nota. Voto: 8, le nostre madri

Atarashii Gakko!. È da un paio di edizioni a questa parte che il booking del PS ci porta ogni anni un piccolo act di pop asiatico, perlopiù giapponese, per variare l'offerta. Ed è da un paio di edizioni a questa parte che, pur sconfinferandomi, mi trovo a dover rinunciare a questa possibilità di espansione dei miei orizzonti. Il J-pop è il futuro? Non lo so, ma cazzo se è divertente. Ok, le canzoni non sono di una profondità assoluta, ma a quest'ora della notte e dopo la pioggia siamo davvero sicuri di aver bisogno di stare fermi impalati a vedere l'arte con l'A maiuscola? No, e poi non è che ce ne sia tanta a giro. Tanto vale, perciò, goderci la professionalità strepitosa di queste quattro simpaticissime giapponesine: visual esilaranti, coreografie mozzafiato, stage presence straripante (Suzuka è la Jarvis Cocker del Sol Levante). E il buonumore è assicurato. Voto: 7, distillato di allegria

Charli XCX. Per la regina del nuovo pop stasera c'è un pienone devastante. Nuovo pop, sì, possiamo proprio dirlo. Il pubblico è giovanissimo, i suoni molto moderni e lo show è tutto tranne quello che uno si aspetterebbe da una popstar vecchio stampo. Costumi e scenografie sono quasi inesistenti, la stage presence è più emozionante sullo schermo che sul palco (perché sul palco c'è un cameraman del cazzo che gravita non-stop attorno a Charli) e la performance più che quella di una cantante fatta e finita ricorda quella di una hypewoman (e il playback non manca). Insomma: in sostanza è un listening party con dei remix bombastici del catalogo della signorina XCX (compreso Brat, l’album in procinto di uscire), in una setlist satura di estetica Y2K e amatissima dai gen-Z, che cantano come pazzi. È questo il futuro del pop che speravo? Penso di no. Ma la sensazione di assistere a un piccolo evento generazionale mantiene comunque un interesse fisso verso il palco (e quel poco che succede su di lui). Voto: 6, distopia seducente

(uscito al 40esimo minuto) Teki Latex. Se inizi il DJ-set di chiusura del festival con I Wanna Dance With Somebody sei sicuramente stronzo. Se subito dopo passi Bizarre Love Triangle sei sicuramente molto simpatico. Se ti inventi un mash-up tra Better Off Alone e That’s Not Me di Skepta, in te c’è del genio. Ma quando, a un certo punto, sento partire un remix di Let It Go (quella di Frozen), non posso che pensare che sicuramente sei anche imbarazzante. Un amico stronzo ma molto simpatico, un po’ geniale e spesso e volentieri imbarazzante ce lo abbiamo tutti. Sarei amico di Teki Latex? Sì. Gli affiderei un compito di alta responsabilità come il DJ-set di chiusura del festival? Mai nella vita. Voto: 4 ½, senza classe

 

Domenica 2 giugno – Giorno Bonus

I tre giorni ufficiali sono finiti ed è stato bello. Per chiudere il rituale annuale completo resta solo la domenica del Primavera a la Ciutat, una giornata di concerti in tre sale cittadine tutte vicine (Paral·lel 62, Sala Apolo, La 2 de Apolo). Per i veterani, questa serata viene considerata una sorta di after-party che, certo, è cambiata molto negli anni (che tempi quando i concerti erano al CCCB!), ma ha sempre lo stesso fascino da danza sopra ai cocci rotti. La proposta musicale di questa Ciutat domenicale è senza dubbio eccellente. L’unico neo è che alle tre sale si può accedere solo con una “reserva” stupidamente sofisticata da ottenere, almeno per i più inesperti. Io che il sistema ormai lo conosco da tempo avevo una prenotazione per ogni sala (sai mai, nel dubbio…) ma affinché Daniel riuscisse a vedere gli American Football ho scambiato il mio ingresso all’Apolo con un secondo ingresso al Paral·lel 62. Questa cosa sarà importante dopo. In ogni caso, l’ultima mini-ruta urbana è anche lei meritevole di resoconti, e non manca di gruppi interessanti, tra vecchie glorie e giovani promesse, che vale la pena analizzare prima di andare a dare un giudizio complessivo sull’intera edizione del festival.

American Football live @Paral·lel 62 (Primavera Sound), Barcellona, 02/06/2024

Las Petunias.
Siccome il mio primissimo comandamento dei concerti è “Get your money’s worth”, arrivo al Paral·lel preciso per vedere la prima band, Las Petunias. Due cose vanno dette: uno, quest’anno per qualche ragione il pop-punk femminile spagnolo è over-rappresentato. Non per forza è un male, anzi, una di queste band fa piacere beccarle. Certo però che quando Las Petunias montano sul palco e mi accorgo con orrore che non hanno batterista bensì una suonatrice di synth e drum-machine, mi sento un idiota e totalmente convinto di aver scelto la peggior band possibile da vedere (col senno di poi, tra l’altro, al set di Aiko El Grupo venerdì sarei potuto andare). In fondo, però, sono fisime mie: le canzoni funzionano tutte, le ragazze sono simpaticissime (il loro stage banter in spanglish è tra i migliori dell’edizione) e alla fine, quando sono riuscito a entrare nel loro universo un po’ “dank” (sullo schermo scorrono immagini dell’internet più scadente, tipo spezzoni delle Chipettes), le scelte artistiche scassettate ma ben eseguite di questo giovanissimo trio hanno anche una loro ragione di essere. In fondo anche il pop-punk è punk. Voto: 6+, largo a las jovenes

(esce al minuto 20 dopo aver passato i primi 10 a bordo campo a sistemarsi scarpini e parastinchi) Silica Gel. Qualche giorno fa Paolo, dopo la consueta power-nap di inizio pomeriggio, aveva voglia di rock ed è uscito dalla placenta musicale dell’Auditori per sentire questi giovani psych-rockers koreani all’aria aperta. Non è durato neanche quindici minuti ed è tornato al nido indispettito, dicendo: “Una parodia di una rock band per chi non capisce un cazzo di rock”. A questo punto sono curioso di vederli, sperando che facciano veramente schifo, un po’ come sto sperando che stasera la Fiorentina perda l’ultima di campionato con una goleada dell’Atalanta, che è quello che si merita. Ma può sempre andare peggio: la Viola ha vinto con brio, facendomi incazzare come una iena, e i Silica Gel dal canto loro hanno fatto di peggio: hanno preso dieci minuti di ritardo per fare in modo che il loro fonico koreano gli facesse i suonini come gli piacciono a loro, sostituendo il professionista del Paral·lel che finora stava facendo un lavoro corretto. Questa cosa sarà importante dopo. In effetti, appena attaccano a suonare, mi rendo conto che il suono, molto particolare e curato, e si adatta bene alla loro scialbissima musica. Seguo con poco interesse questa sorta di King Gizzard in versione contabili otaku (già non mi piacciono i veri KGATLW, figurarsi questi) e poi mi levo dalle balle, non ancora ben conscio del crimine che si è appena consumato davanti ai miei occhi. Voto: 3, cronaca di una morte annunciata

(esce al 20esimo minuto come di consueto) Crumb. Un messaggio di Tommaso: “Dai, vieni alla 2 che ci vediamo venti minuti di Crumb”. Detto fatto. Quattro o cinque canzoni del vellutato psych-rock dei Crumb non fanno dispiacere. Non li trovo speciali (a differenza, per esempio, di Tommy) ma hanno un loro perché. Dai, più seriamente, massimo rispetto per aver variato un po’ la setlist. Poi dentro a una sala suonano veramente bene e il contesto esalta le loro influenze disco music. Li recupererò quando possibile. Voto: S.V., piano piano stanno essendo rivalutati

Militarie Gun. Per me, questo era uno dei concerti più attesi dell’edizione. Mi sono saltato il loro set al Forum e anche il loro secret show perché una band del genere, dentro a una sala di media grandezza come quella di stasera, non può che dare il meglio di sé. Il loro power-pop impreziosito dalle vocals in pieno stile modern hardcore non solo ci ha dato uno dei migliori album del 2023 a mani basse (Life Under the Gun), ma è anche una boccata d’aria fresca: uno stile energico, al contempo emozionale e demolitivo, che può regalarci uno dei concerti più casinisti dell’edizione. Non vedo l’ora che il gruppo arrivi e trasformi il Paral·lel in un museo del pogo contemporaneo come sono sicuro che sono capaci di fare (mercoledì Théo li ha visti al Petit Bain e mi certifica che la barca ha preso il largo). Quando vedo Ian Shelton montare col suo consueto giubbotto antiproiettile l’eccitazione è alle stelle, e poi… No dai, ma che cazzo sono questi suoni? Le chitarre, che sono l’elemento migliore dei Militarie Gun, sembrano scorregge. Le vocals, che sull'album suonano sì possenti ma anche ben amalgamate al contesto strumentale, sono altissime e isolate da tutto il resto al punto di essere quasi imbarazzanti. Mi giro verso il booth del fonico e, dove fino a dieci minuti fa mi confermano ci fosse un signore asiatico, vedo Fulanito Lopez del Paral·lel in evidente difficoltà, impotente di fronte ai setting della banda di segaioli di prima. Silica Gel, porca puttana, vi meritate il peggio! Col senno di poi, Militarie Gun avrebbero dovuto fare, come i guastafeste koreani, una decina di minuti di live-check per dare al pubblico una performance che facesse onore a uno dei sound più apprezzabili degli ultimi anni. Ma erano una band tanto attesa, e da buona band punk, devono essersi detti: chi se ne frega, andiamo a fare casino e come va va. L’energia dei californiani è stupenda ed encomiabile, e riesce anche a smuovere le folle, ma non basta a rendere il concerto buono. Per fortuna sul finale il suono è quasi decente (si è notato che è stato sistemato via via). Troppo tardi, però. Voto: 6-, vittime della loro stessa bontà

Dave P live @Sala Apolo (Primavera Sound), Barcellona, 02/06/2024. Ebbene sì: blogger face reveal.

American Football. Alcuni fatti importanti da sapere sugli American Football. Uno, gli American Football per me saranno sempre quella band che si è incontrata all’università in una “college town” dell’Illinois nel 1997 e che si è sciolta molto presto, dopo aver pubblicato un EP e un LP. Se hanno avuto una carriera nel terzo millennio, è un dato irrilevante. Due, gli American Football, intesi come “quella band che si è incontrata all’università etc.”, sono uno dei migliori gruppi emo di sempre e quell’EP e quell’LP sono due dei migliori dischi emo di sempre. Non me ne frega nulla della copypasta “real emo only consists of…” e questa resta la mia opinione. Tre, Mike Kinsella dal vivo non canta bene. Ma, se è per questo, neanche in studio. E no, non è colpa dell’età o dell’alcol: qualsiasi cantante professionista storcerà il naso nell’ascoltare gli acuti lamentosi degli album di fine anni ‘90. Gli American Football dal vivo non si vanno a vedere per sentire il Triste Michele prodigarsi in performance da opera lirica. Né tantomeno per ascoltare roba nuova o, peggio, cover di Mazzy Star. Ci si va per ascoltare il materiale della band tra il 1997 e il 1999. E stasera, così è. Perciò, com’è il concerto degli American Football? Bellissimo, solo pezzoni, ho cantato dall’inizio alla fine, mi sono visto sfilare davanti tutta la mia adolescenza. Non è poi così difficile. Voto: 7 ½, tuffo nel passato

(entra al 25esimo minuto) Model/Actriz. Per entrare alla Sala Apolo ho dovuto fare quindici minuti di negoziati con quelli che convalidano i biglietti e perciò mi sono essenzialmente perso la metà del set della nuova sensazione del dance-punk. Sono euforico come ogni volta che riesco a sconfiggere la burocrazia, perciò entro, incontro il mio amico Tommy, lo abbraccio e poi vengo trasportato in quella bolgia che è il concerto dei Model/Actriz. La sala è semivuota (colpa del sistema delle reservas che ho contestato all’ingresso, che mi ha permesso di esprimere l'argomento finale: “Non ci credo mai nella vita che dentro c’è il pienone”), ma il pubblico è il più mobile che abbia mai visto: la gente sgambetta da destra a sinistra, vortica, rotea, salta, fa capriole. A cos’è dovuto questo strano fenomeno cinetico? Molto semplice: a quella diva queer incredibile che è Cole Haden, frontman dall’energia incontenibile già definito da Tom come “il Freddie Mercury dell’industrial” (per meriti di baffetto), che cattura su di sé tutte le attenzioni e fa del pubblico quello che vuole. Non posso dire molto altro se non che l’angosciante musica dei Model/Actriz, dal vivo, non solo tocca picchi di intensità stratosferici, ma anche che, contro ogni mia aspettativa, è favolosamente divertente. Voto: S.V., il caos giusto

Dave P. L’edizione è stata satolla, è già più tardi dell’ora che prevedevo di fare, domani devo affrontare un lungo viaggio, mi cacciano presto dall’albergo, non mi sento praticamente più le gambe. Ma c’è Dave P, il DJ più geniale che io abbia mai visto, che sta per attaccare. Non posso non restare a vedere quantomeno l’inizio del set. Io e il Falso saliamo su dalla sala fumatori e il patron di Making Time a Philadelphia (il miglior festival elettronico al mondo, pochi cazzi) ha già attaccato a mixare. In sala ci siamo noi due, il “baguette man” (personaggio ormai virale quasi ai livelli di Big Jeff anni fa), e nessun altro, ma in questo stanza praticamente vuota i dischi stanno già girando e sono semplicemente spettacolari. Non posso più smettere di ballare, sono completamente assorbito da questa musica, che è un po’ come immagino quello che si sente quando si va in paradiso. Pure quando il mio amico se ne va (ci vediamo presto bello, magari a Londra!), ormai sono incollato alla dancefloor e spiritualmente interconnesso con la manciata di persone che, ne sono sicuro, sta provando le mie stesse sensazioni. Tengo a dire alle persone sospettose (già vi vedo) che non prendo droghe di nessun tipo: a tenermi in constante movimento sono solo la pura magia della dance e un DJ straordinario che sa sempre fare interpolazioni sorprendenti al momento giusto (NY Lipps - Kawazaki Dub, evviva!) e che ha in serbo mille trucchetti che non cessano mai di creare stupore (pure alcuni che gli ho già visto usare: ma Idioteque inserita così bene in un contesto discotecaro è sempre un bel mindfuck). Morale della storia: il tempo vola via e mi ritrovo a ballare fino alle 4:30 del mattino fregandomene di tutto il resto. Dave P, per sua stessa ammissione, ha un piano trascendentale. E io, come alcuni altri eletti, sono stato risucchiato dentro. E sono trasceso. Voto: 10, Dio

(non entra mai in campo ma dà spesso morale ai giocatori dalla panchina) CHICA Gang. Tra tutte le mie discese per andare a fumare o a fare pipì durante il set di Dave P avrò sentito un totale di dieci minuti sparpagliati del set di queste madrilene, più i dieci minuti finali. Non è abbastanza per dare un voto, ma abbastanza per dire che questo set di house music al BPM più alto possibile per la house music è veramente una figata e mi sembra di grande intrattenimento. Inaspettato, visto che su Rateyourmusic queste DJ sono etichettate sotto all’infame genere del neoperreo e che i Boiler Room dove appaiono hanno un contenuto di reggaeton altamente nocivo. L’ultima nota del festival è loro, ed è una nota dolce. Voto: S.V., mai giudicare il DJ dal Boiler Room

 

Il giudizio finale

Col Primavera Sound ho l’impressione di vivere la stessa storia ogni anno: esce la line-up e mi piace un casino. Una quantità sempre maggiore di gente dice che non è poi questo granché. Finisco per convincermene. Andiamo a Barcellona, io e i detrattori, e finisce che vediamo almeno una ventina di concerti di altissima qualità e, anzi, rosichiamo per esserci persi altra roba (top 3 rimpianti: Justice, che Daniel mi dice essere stati devastanti; Faye Webster, una potenziale nuova musa; Róisín Murphy, che mi avrebbe fatto scoprire nuove importanti dance moves). La verità è che di festival che offrono così tanta musica dal vivo, così diversa, di così alto livello, in un lasso di tempo così concentrato, in un posto così bello, probabilmente non ne esistono. È una cosa di cui va preso semplicemente atto.

Inutile perciò, a mio avviso, mettersi a criticare linea editoriale, scelte commerciali, generi rappresentati: alla fine questo tipo di analisi sono solo escamotage per difendere una visione reazionaria della musica e implicare che solo la propria nicchia meriti di essere presente sulla line-up. L'equilibrio di generi (sia musicali, sia l’omo e la donna) anche quest’anno è stato rispettato con una precisione millimetrica, e se ovviamente si può discutere del fatto che in certi slot orari ci fosse una mancanza di chitarre che magari sarebbe stata difficilmente accettabile nelle edizioni “pre-2020” (anno considerato dai più uno spartiacque, non so bene perché), la dose giornaliera è comunque ottima e meglio di così, con gli artisti a disposizione, era difficile fare. Qualcosa di interessante da vedere non manca mai, anche se a volte, specialmente a tarda notte, sono solo act di musica elettronica. Ma se non ti piace l’elettronica in toto, forse hai sbagliato festival. E il discorso non vale solo per oggi, 2024, ma anche per dieci anni fa.

Se c’è una critica, che alla fine è l’unica che mi sento fare, è di natura finanziaria: quest’anno, e credo di non essere stato l’unico, si è respirato un certo clima di austerity. Le ragioni per tutto ciò? Probabilmente il flop devastante dell’edizione doppia dell’anno scorso, che ha richiesto giganteschi sforzi logistici (e gli sforzi logistici, al giorno d’oggi, sono sforzi pecuniari), ricompensati solo da scarse vendite di biglietti per il troppo ambizioso weekend di Madrid, oltretutto parzialmente rovinato dal maltempo. Ma queste restano teorie, non per forza veritiere. Ciò che è veritiero sono i seguenti elementi che vi vado ad elencare e che, a mio avviso, provano che il team del Primavera Sound quest’anno ha voluto tirare un po’ la cinghia:

  •           Palchi.

Tra tutte e sei le edizioni del PS a cui ho partecipato, mai ci sono stati così pochi palcoscenici. Per carità, tutto può giustificarsi dietro alla scusa degli accordi sfumati coi gestori del porto e dei lavori che impediscono di rispettare le norme di sicurezza. Ma meno palchi vuol dire meno manovalanza, meno artisti, meno spesa. L’installazione di due o tre angolini dedicati a piccoli concerti pop-up (tipo l’esclusivissimo palco Etnia Barcelona, anche noto come “il cosino rosso”) potrebbe essere usata come giustificazione per compensare questa mancanza, ma per me non basta. Persino la Ciutat di mercoledì, invece di offrire quantomeno la doppia opzione “Apolo + La 2” si è limitata alla più piccola delle due sale. E così, anche una parte della voce di bilancio “affitti” possiamo tagliarla.

  •          DJ-set di fine giornata.

Questa è palese: i DJ-set al palco Cupra (ex-Ray-Ban) per anni sono stati uno slot privilegiato per portare artisti di calibro internazionale, rappresentanti illustri dell’electro, della house e della techno, nomi roboanti. Quest’anno, per risparmiare, gli organizzatori hanno deciso di portare B2B (2B2B2B2B…) assolutamente dubbiosi, composti di nomi di nicchia e, per quanto competenti, lontani anni luce dall’essere spettacolari. E io, che non sono un piripicchio, non mi faccio ingannare dal numero di persone che sono sul palco: lo so benissimo che Herrensauna, anche fossero in dodici, prendono meno cachet di un Laurent Garnier o di un Paul Kalkbrenner (per dire due nomi non impossibili che sognavo in quello slot). No, spalmare DJ importanti come Peggy Gou, Sofia Kourtesis o The Blessed Madonna a giro per i semi-main stage, o ancora peggio al Brunch Electronik di domenica (a cui qualche pazzo va, evidentemente… boh!), non compensa questa mancanza, anzi.

  •          Soldi facili.

Non c’è niente da fare, un act come Lana del Rey, che permette un inevitabile sold-out giornaliero in poche ore, fa fare cassa. Gabi Ruiz, il (fu) factotum del festival, disse anni fa che mai si sarebbe sognato di portare al Primavera Sound artisti che portano un pubblico interessato solo ed esclusivamente a loro e a nient’altro del resto del programma. Se non sbaglio, lo disse parlando dei Metallica. Non aveva tutti i torti: un day-ticket per il PS a line-up annunciata costa un centinaio d’euro, un biglietto per vedere i Metallica da un settore decente qualcosina in più. E allora ecco che il fan medio dei Metallica fa due più due e si accorge che può venire a transennare senza troppe difficolta. La situazione è esattamente uguale per Lana del Rey. Ora, non ho trovato che la folla lanistica fosse così sgradevole (certo è che venerdì, alle 16, c’era già una bella coda per entrare), e mi sono anche visto The National sul palco affianco al suo, venti minuti dopo la fine del set di Lana, con un certo qual agio. Ma è chiaro che, se chiedessi a Gabi se ha rinunciato a questa vecchia convinzione, di certo sarebbe una domanda scomoda. Amico Ruiz, ti perdoniamo. Ma l’anno prossimo non rompere le balle e portaci i Metallica.

  •          Risparmio energetico.

Lavoro nel settore del rinnovabile quindi dovrei essere l’ultima persona a lamentarmene, se il Primavera Sound ha deciso di consumare meno preziosa elettricità. Però la cosa un po’ mi ha stranito: confermatemelo, per favore, che non sono stato l’unico a notare che c’erano un sacco di luci spente. Persino l’iconica insegna all’ingresso non wobblava. Mah!

Gli incassi, comunque, a quanto pare sono stati ottimi. Penso che, almeno in parte, questo permetterà di invertire queste piccole tendenze al ribasso nell’edizione dell’anno prossimo, che già mi aspetto opulenta. Ma, anche se così non fosse, cambia poco. Perché arriviamo al giudizio finale, e per me quest’edizione, con tutti i suoi pregi e difetti, è stata…


Primavera Sound Barcelona 2024. E dai, che cosa posso dire dell’edizione 2024 del Primavera Sound? Quello che dico ogni anno: che è stata spettacolare, che ci ha sparato in vena una dose da cavallo di grande musica, che è stato un festival gigantesco eppure meravigliosamente vivibile (persino durante l’acquazzone), che mi ha regalato alcuni tra i migliori concerti della mia vita. Che un anno sono i 360 giorni che ruotano attorno al Primavera Sound. Perciò, come faccio a non prendere anche quest’anno l’early bird? Devo per forza. Perché ho bisogno di Barcellona. Ho bisogno di Parc del Forum. Ho bisogno di Primavera Sound. Chiamatela come volete: dipendenza, o forse amore. Voto: S.V., il vero amore non si può votare


Mando un bacio e dedico questo articolo a tutti i miei amici primaverici, di cui mi sono permesso di raccontare qualche malefatta: Daniel, Paolo, Tom detto il Falso e Tommaso.

E ovviamente ci rivediamo ad ottobre per le pontatine.