Il mese di febbraio è stato senza dubbio pieno di emozioni. Ne posso citare
tante: per la prima volta nella mia vita, ad esempio, sono saltato giù da un
treno in partenza, oppure mi sono impantanato con la macchina al punto da
dovermi far tirare fuori col trattore. Momenti memorabili certo, da raccontare
ai nipotini persino, ma anche carichi di ansia e soprattutto completamente
impreventivati. Ebbene no, non sono stati questi i momenti salienti di cui vi
voglio parlare prima di cominciare l’ormai consueta rassegna mensile di live
report.
No, febbraio è stato in realtà scandito circa una volta a settimana, per una serie di colpi di fortuna, da eventi tutti simili eppure sempre romantici, quasi da farfalle nello stomaco: gli incontri con gli artisti di cui ho già scritto in passato. Sono momenti che vengono previsti settimane se non mesi prima, segnati in agenda, preparati in anticipo, eppure sempre un po’ incerti, sorprendenti, a volte totalmente esaltanti, a volte un po’ deludenti. Belli proprio perché tutti diversi.
Sarei bugiardo e ridicolmente finto modesto se nascondessi il fatto che amo
parlare con i protagonisti dei miei live report qualche tempo dopo la
pubblicazione dei mattoni in questione. L’emozione del momento si sostanzia di
tante cose: la possibilità di far capire a un artista che sono veramente
toccato dalla sua musica più dell’“oh, bel concerto” smollato frettolosamente
al banchino del merch, parlare di progetti musicali e ispirazioni e, posso
ammetterlo con candore, anche la soddisfazione nel sentire un po’ di
riconoscenza verso il mio impegno nella scrittura.
È da quando ho iniziato a scrivere su Stereo Totale che, ogni tanto, vado
con piacere a rivedere artisti già raccontati qua dentro, approfittandone il
più che posso per trovare un’occasione di scambiare due chiacchiere. Si tratta
di concerti sui quali, ovviamente, non mi attardo a scrivere, e che quindi non
finiscono nella rubrica Life Lately (che ha l’ambizione di trattare solamente
di musica mai vista su questi lidi). Al massimo, mi limito a postare un
estratto del concerto sulle storie di Instagram e mettere la caption “LA NS
GENTE”, come ad asserire con fierezza l’affetto e la devozione che porto verso
la mia personale e simbolica scuderia musicale. Chi mi segue perciò si sarà già
accorto che a fine ottobre mi sono gustato un set esilarante dei Trotski
Nautique a metà (solo David Snug, Alda Lamieva non poteva venire quella sera)
nei meandri de Les Nautes, una strabiliante mini-sala medievale a bordo Senna
con vista Sainte-Chapelle (“bonne ambiance”); o ancora che a fine novembre ho
rivisto Ellah A. Thaun esibirsi al compianto L’International (speriamo riapra…),
in un concerto esoterico ed ultra-immersivo, in mezzo alla stanza invece che
sul palco.
A febbraio, però, è stato uno spicinio. Talmente tante serate musicali che
sarebbe un peccato ometterle da questo piccolo editoriale mensile, ma che
sarebbe oggettivamente tautologico (ed autoreferenzialista) parlarne in
profondità. Questa edizione di Life Lately sarà perciò come tutte le altre:
(tre) live report di concerti di band nuove, siano essere conosciutissime o
sconosciutissime. Ci sarà però, in fondo all’articolo, un
piccolo appendice con (tre) concerti “bonus”, a cui mi sono recato soprattutto
per vedere le mie vecchie fiamme. Tengo a fare una rapida menzione di queste
serate non tanto per bullarmi di aver parlato con le superstar, quanto per
segnalare eventi degni di nota a cui, oltre che i gruppi del cuore di Stereo
Totale, si sono esibiti altri artisti meritevoli. Non esitate a darci un
occhio: come al solito ci sono nuove esplorazioni architettoniche e periurbane,
piccole riflessioni sulla vita da espatriati e sulle contraddizioni tra lo
status di blogger e quello di pubblico pagante. Soprattutto, si parla
pochissimo dei gruppi che sono già stati trattati nei miei articoli, e ci sono
come al solito nuove fantastiche band tutte da scoprire!
Perché la musica underground è un albero pieno di infiniti frutti e io amo
considerarmi come un bachino che, nel cercare di raggiungere la mela che ha
notato durante la sua scalata, si imbatte in un ramo biforcuto e spiluzzica un
po’ dell’arancia che gli si para casualmente davanti. Ne apprezza il sapore, e
perciò mentre si gode la sua agognata mela si guarda attorno e si accorge che
c’è un’altra arancia anche più in là. Al che, sul tragitto verso l’arancia, può
assaggiare anche la pera che viene poco prima, dopodiché avvicinarsi
all’arancia e scoprire con sorpresa che si tratta in realtà di uno squisito
mandarino. Ovviamente, in questa pessima metafora, i frutti sono le band, gli
opening act, i festival che, più morsicchiamo, più ampliano il nostro palato e
le nostre possibilità di godere, nutrirci e, un giorno, diventare farfalle. Ma
adesso la smetto perché la metafora è andata troppo lontano. La morale è:
tornate a vedere i gruppi che amate, tornate ai festival che avete apprezzato,
fidatevi dei collettivi che vi hanno regalato una bella serata: vedrete che ci
guadagnerete sempre.
Partiamo con la rassegna ufficiale (e non perdetevi l’appendice: good
stuff!).
Powerplant – Nuovo dungeon del garage punk: sbloccato
Powerplant live @Glazart, Parigi, 05/02/2024 |
Il 2024 si è aperto con una brutta notizia, di cui ho già parlato in introduzione: L’International è stato chiuso per problemi di sicurezza. Si dice in giro che il soffitto sia un po’ pericolante, e io mi sento in colpa per lo sfortunato foreshadowing che ho fatto a riguardo nel live report dei La Elite. Lo staff del locale, però, non si è perso d’animo, e sostenuto da tutta la costellazione di sale concerto parigine sta ancora riuscendo a riorganizzare la maggior parte degli eventi a destra e manca. È in questo bel clima di solidarietà (e guarda caso, è appena iniziato febbraio ma fa sorprendentemente caldo) che mi ritrovo al Glazart dopo tanti mesi.
Situato nella parte di più malfamata di quella corona parigina costituita
dai lembi di terra compresi tra il tram e la circonvallazione, il Glazart l’ho
sempre visto come una sala da veri duri, gente che non ha paura di andare a
concerti punk belli sportivi a inizio settimana (è lunedì) e per giunta uscire
e ritrovarsi nel vialone dei crackheads. Non a caso infatti la programmazione è
piena zeppa di HC dei più mascolini, di quello coi breakdown e i pugni roteanti
insomma (per una disquisizione sulle molteplicità dell’hardcore punk vedere il
mio articolo sui Pogo Car Crash Control). Stasera per fortuna non è così, e
nonostante dalle casse del bar esca una playlist beatdown, il pubblico che si
accumula attorno al bar è eterogeneo, sbarazzino e beve molto meno Club Mate
della media (chissà da dove deriva la passione per questa bevanda che spopola
nel mondo della musica “core”).
In effetti, stasera suonano i Powerplant, compagine di synth-punk
britannica di cui le persone più disparate e insospettabili mi parlano da
tempo. Tra che quando sento parlare di synth-punk mi si drizzano le orecchie, tra
che le centrali elettriche sono letteralmente il mio mestiere, tra che in
opening act c’è pure un nuovo progetto della batterista di Mary Bell (l’ho già
detto che mi piace andare a parlare con gli artisti di cui ho scritto?),
l’occasione è troppo ghiotta per non andare a dare un’occhiata. Con Paul, fido
compagno di punk alternativo, ci avventuriamo nei meandri di questa giovane
serata ed è tipicamente il contesto in cui è facile farsi subito degli amici
raccontando l’aneddoto della nostra cover di Playboi Carti in stile Ramones.
La line-up, in pieno stile International, è bella pienotta e interessante.
Si comincia con Prise Rapide, trio composto dietro alle pelli dalla sopracitata
e alle corde da due cantanti che non conosco. Non hanno ancora pubblicato
niente ma ultimamente girano un po’ per locali e su Instagram si
autodefiniscono “indie punk con melodie tristi ma elettriche”: abbiamo pochi elementi,
sufficienti per essere curiosi. E siccome stasera sono in vena di battute,
appena montano sul palco dico al mio amico: “Ma sono i Yo La Tengo!”. Forse è la
formazione “trio con vocals maschili e femminili interscambiabili”, forse il
fatto che il chitarrista abbia un aspetto al contempo sobrio e da scienziato
pazzo come Ira Kaplan, o che la batterista provochi quell’effetto originale e
straniante del vedere qualcuno suonare in open, che è lo stesso che si ha con
le batteriste mancine tipo Georgia Hubley. Resta il fatto che i tre cominciano
a suonare e scopriamo con grande stupore che il paragone inizialmente goliardico
ha un suo fondo di verità. Le canzoni di Prise Rapide, su un impianto post-punk
essenziale, esplorano le regioni sonore più affascinanti e perigliose della
chitarra elettrica, proprio come la band del New Jersey. Perciò, con phaser e
overdrive a manetta e dei begli ostinati di basso e batteria sullo sfondo, per
una mezz’ora partiamo in mare aperto e, quando il ponte della chitarra viene
messo a faccia a faccia con l’ampli, viviamo le prime grandi emozioni della
serata. E poi vogliamo mettere la soddisfazione di andare a concerti in cui il
primo opening act è un gruppo di cui puoi dire: “Ancora non li puoi ascoltare
ma fidati, è un gruppo da tenere d’occhio”?
Come spesso (e logicamente) capita alle serate capitanate da una band
venuta dall’estero seguono, dopo il gruppo parigino, le band “provinciali”. Sulla
prima a passare, Bingo Crépuscule, non mi soffermo troppissimo perché, devo
ammetterlo, sebbene le canzoni mi piacciano anche un bel po’, la performance mi
sembra un po’ acerba e non mi cattura. Per chi ama la commistione, ultimamente
abbastanza alla moda, dove l’emocore all’antica incontra quel post-punk che
flirta con l’HC, il loro Demo 2023 (che bomba è Une balle?) è comunque da
non perdere. E alla fine, nonostante (e un pochino grazie a) l’incespichio
generale del set, i Bingo Crépuscule il loro nobile obiettivo riescono comunque
a farcelo capire bene: un giorno, forse, il record della magnitudo più forte
mai registrata sulla scala Curtis (quella che misura la squallida cupezza),
potrebbe essere loro. Non so quante persone nella sala conoscano il comune di
Aire-sur-la-Lys, nel Passo di Calais. Io ci vado molto spesso per lavoro e devo
dire che, se questa fantastica città nordista post-industriale dovesse
aggiudicarsi il primato, i ragazzi meriterebbero quantomeno una statua. Fiducioso
che Padre Tempo darà ragione ai ragazzi di ASL, applaudo, ma non posso
trattenere un’altra battuta (questa un po’ più cattiva): “Hai presente gli High
Vis? Loro sembrano un po’ i Low Vis”. Mi scuso.
Altra giro, altra corsa. Far suonare gli Under 45 di Lione penultimi sembra
una scelta oculatissima perché, un po’ come gli headliner, hanno un cantante britannico
e abbondano di drum-machine. La missione di portare l’atmosfera verso
sentimenti un po’ più festaioli delle mazzate deprimenti dell’ultimo set non è
semplice eppure riesce. In effetti, le loro batterie super-artificiali, le
linee di basso malvagie ma ineluttabilmente groovy, le chitarre a tratti
emotive a tratti affilate come coltelli, si sposano benissimo con uno degli
strumenti che dalla notte dei tempi funzionano meglio nel punk: un uomo con la
vena gonfia che “ragiona” in lingua inghilterrese. Di gruppi così ne abbiamo
visti un bel po’ negli ultimi anni e c’è sempre un paragone troppo facile che
mi compare sulla punta della lingua, ovvero gli Sleaford Mods. Anni fa Lercio
scrisse che il partito Liberi e Uguali aveva cambiato nome perché nessuno vuole
essere uguale a D’Alema, e allo stesso modo penso che nessun inglese voglia
essere paragonato alla band di Nottingham. Proprio quando sono lì a
scervellarmi di nascosto per provare a vedere chi mi ricordano per davvero i
lionesi Paul mi suggerisce telepaticamente un: Gang of Four. Ed è vero: più ci
si fa caso più si nota che, dietro alla parlantina del cantante e all’effetto
discoteca del sequencer, in realtà le canzoni degli Under 45 rendono un omaggio
gigantesco al meglio del meglio del post-punk abrasivo di fine anni ’70. Basta ascoltare White Whale, coi suoi riff taglienti e l’assolo di chitarra tutto acuti, per
rendersene conto e riassaporare quell’energia retrò che, sorprendentemente, un
po’ manca ai chiacchieroni inglesi degli ultimi anni. Ci uniamo alla festa con
nostalgia di tempi andati e mai vissuti e, alla fine del set, l’aria è calda abbastanza
per accendere il reattore.
Mentre per gli Under 45 la parte “sintetica” della musica serve a creare
l’illusione di non star ascoltando del punk puro al 100% (mentre in realtà è
essenzialmente così), i dischi dei Powerplant, per me, sono al contrario dischi
di “synth music” travestita da punk. Ne è abbastanza esplicativo il fatto che,
assieme a quelle perle lo-fi di People in the Sun (2019) e l’EP Grass (2023),
dischi sì urlati e schitarrosi, ma anche trascinati (“carriati”) dalle melodie
delle tastiere e dalle festive batterie elettroniche, l’altra
pubblicazione-chiave del catalogo della band sia Stump Soup (2023), ovverosia
un’ora di dungeon synth e buffe composizioni melodiche miscellanee. Ecco, tutto
questo per dire che non sappiamo veramente cosa aspettarci dal concerto: un
compendio di atmosfere di sintetizzatore, a volte soffuse, a volte dolci o
ancora danzerecce? Oppure una scarica di rock? Sarebbe bello dirvi: “Una via di
mezzo”, ma sarebbe anche una bugia. È più bello ancora dirvi: “La seconda, ma
moltiplicata per dieci”.
Se avete presente i dischi più rocchettari dei Powerplant, potete
tranquillamente fare l’esercizio di immaginarvi come suonano live: chiudete gli
occhi, visualizzate l’energia punk delle canzoni, amplificatela
all’inverosimile, soprattutto grazie a un batterista di una velocità e potenza
quasi mai viste. Inoltre tutto quello che nelle versioni studio c’è di testura,
le saturazioni, gli sfrigolii e i riverberi, nelle casse del Glazart diventano
puro muro di suono, e le melodie dei sintetizzatori, in questo maelstrom
sonico, provocano alla fine lo stesso effetto della voce di Bilinda Butcher in
Loveless: un etereo anelito, lontano quanto portante. La formula funziona,
esalta e trasforma la venue in una bolgia, ma non quella aggressiva delle solite
serate hardcore, bensì una festa un po’ nerd, un po’ matta. Nella sala, un po’
mattonosa, ci si sente un po’ in un soprannaturale Dungen del garage punk
di cui tanto millanto i miracoli, il pubblico un divertente vortice di personaggi
tutti un po’ degni di un fantasy, che riflette benissimo l’immaginario della
band. C’è spazio per cantare le melodie alla maniera guascona dei cori da
taverna, esaltarsi per un drumming che sembra davvero sospinto da poteri magici
(forse la presenza sacerdotale del biondissimo tastierista in mezzo al palco),
sfidare i presenti a una tenzone di spallate, tuffarsi dalle scogliere del
palcoscenico, eseguire balli tradizionali e via dicendo.
Qualche cervogia era scesa ed è passato un mese perciò non sono esente da
errori di setlist, ma tra le melodie saltellanti e le sfuriate assassine di canzoni come True Love o Broodmother, la tenere e scodinzolanti sberle di Hey Mr. Dogman! e Beautiful Boy, o ancora bassline contagiose unite a
melodie “quirky as fuck” come quelle di Snake Eyes o Get in the Trunk,
il concerto non lascia tregue, se non brevi pause in cui respirare cullati da
piccoli intermezzi twee estemporanei e divertentissimi. C’è spazio, nel finale,
per una sorprendente strumentale di genere “Carpenter-ambient” che chiude con
solennità il concerto caotico a cui abbiamo assistito.
Io le tiritere su quanto tutto ciò che si possa anche forzatamente definire “garage
punk” sia per me il futuro della musica elettrica della mia generazione le ho
già fatte più volte, perciò non mi dilungo più di tanto a riguardo. Giusto due
riflessioni: uno, ai concerti garage punk come quello di stasera, rispetto ad
esempio alle serate di HC puro e duro, mi pare sempre che ci sia più diversità
umana, che sia etnica, di genere, di età, di stili (i Powerplant, tra l’altro,
sfoggiano le migliori magliette della stagione: Guided by Voices per il
bassista e Hellhammer per il batterista, senza soluzione di continuità; se ci
fate caso la seconda ha senso: il cantante fa spessissimo il suono “HUH!” alla
Tom G. Warrior). Due, e forse è la mia sensibilità che mi fa dire ciò, ma a
queste serate mi pare sempre che la celebrazione del puro divertimento sia più
esplicita, e mai fuggita e nascosta dietro pretesti di “durezza”. C’è aria di leggerezza e la gente ride,
scherza, anch’io non posso smettere di continuare con le battute del cazzo.
Vado a parlare ai Powerplant e, miglior sorpresa della serata, i ragazzi mi
danno pan per focaccia, con dialoghi degni dei migliori giochi di ruolo sul
mercato, che perciò non posso non ritrascrivere.
Al batterista: “Holy cow man, you play so
fast!” “I have ADHD” (con la
faccia più seria possibile).
Al bassista: “Can I buy your GBV t-shirt?
Twenty quid.” “Not for sale. ‘Staying out on your house, watching hardcore
UFOs…’” (canticchiando).
Alla fine il tastierista mi fa: “Can I ask you
a question? How was the sound? Couldn’t hear much.” “Well, it was… shoegazy.”
“Shoegazy foogaezy…” (con aria trasognata).
Stringo la mano a tutti, contento di aver aggiunto una nuova location (la centrale
elettrica) alla mappa del mio open world del garage punk contemporaneo.
Quest completata.
Electric Spanish – Travolti dall’onda
Electric Spanish live @Les Disquaires, Parigi, 13/02/2024 |
Oggi, dopo il lavoro, l’ultima cosa che voglio fare è andare a casa. Non succede quasi mai, ma succede. Non l’ho deciso io: dev’essere stato deciso uno strano e rarissimo allineamento di pianeti, o da una microscopica sezione del mio DNA. Sento Paul ed è d’accordo per seguirmi. Mi lascia carta bianca. E perciò faccio una cosa che non faccio quasi mai, ma la faccio: guardare Songkick per il giorno stesso, come fanno i turisti. Un po’ me ne vergogno, un po’ ne sono fiero. Scrollo un po’ e l’eccitazione sta per svanire: non c’è niente che mi smuova l’animo e, quasi rassegnato all’ennesima serata in cui trascino un amico astemio al barretto (questo succede spesso), quando sono a un passo dal rinunciare, appare un nome ancestrale, atavico, che risveglia eco antiche ed esoteriche: Sex Shop Mushrooms.
Dove ho già visto e sentito questo nome, senza saperlo, lo so: su degli
adesivi. Adesivi di cui non ricordo precisamente il design, la forma, il
messaggio (che sicuramente mi aveva colpito, perché li ho guardati questi
adesivi, anche a lungo). La loro localizzazione mi è anch’essa
ignota: dov’è che mi hanno strizzato l’occhio? Qualche frammento di ricordo:
lavandini, specchi, urinali. Petit Bain? Supersonic? Unica cosa che mi torna
alla mente di per certo: un colore rosso, sanguigno, seducente.
Nell’era dei bombardamenti mediatici che viviamo, io la pubblicità opterei
per bandirla. Un esperimento politico-economico quantomeno interessante: da
domani vietato reclamizzare prodotti e servizi. Cosa succederebbe? Lascio a voi
immaginare la saramaghesca utopia. Purtroppo non sono dictator maximus e concretamente,
contro la presenza asfissiante della pubblicità, non posso fare nient’altro che
scaricarmi AdBlock (che paura quando ha smesso di funzionare su Youtube), non
guardare canali televisivi, evitare le radio commerciali (a volte in viaggio
cedo), concentrarmi il meno possibile sui cartelloni per la strada o in
metropolitana. Quando le pubblicità, però, hanno a che vedere con musica o
concerti, oppure si manifestano in locali musicali sotto forma, per l’appunto,
di adesivi, flyer o manifesti coperti di line-up, sorge l’effetto contrario. Mi
ritrovo a volerli fissare per carpirne fino all’ultimo dettaglio, cerco i più
nascosti e imboscati, subisco con un piacere quasi carnale la magia del
marketing, sì, quel marketing casalingo lontano dalle multinazionali.
Chiamiamole, se vogliamo, piccole velleità controculturali.
Ora, stasera la controcultura è andata forse un po’ troppo lontano, perché
stiamo comunque andando a vedere una band i cui singoli non mi hanno veramente
innamorato, però alla fine ci sono pur sempre due band, l’ingresso costa appena
cinque euro (sorpresa sorpresa: nessuno ci chiede nulla e, anche se avremmo
quasi voluto, non abbiamo pagato). Soprattutto, siamo ai Disquaires, possiamo
farci un bicchiere in sala bar in santa pace e se davvero vogliamo cambiare
aria c’è il Motel a duecento metro (sorpresa sorpresa: faremo comunque le ore
piccole al Motel). Le sorprese più sorprendenti le trovi solo se le cerchi e
infatti si scopre che la batterista dei Sex Shop Mushrooms è stata la prima
batterista di Paul, il che vuol dire che, quando Paul diventerà famosissimo,
una rockstar internazionale (succederà), Nardwuar gli regalerà un disco dei
sopracitati Funghi e gli chiederà: “Is it true that she was your drummer when
you started playing music?”.
Il concerto del giovanissimo quartetto parigino ha il suo perché: il loro
revival grungettone vive di piccole sfaccettature studiate piuttosto bene, tra
sezioni di intensità emozionale dalle vocals sbiascicate (Kurt, sei tu?) e
momenti di burinità esagerata. Segnalo, soprattutto, almeno quattro o cinque riff
così diretti da essere quasi sfrontati, la cui cattiveria ed efficacia
richiedeva solo una cosa: che qualche cristiano sul palco facesse il segno del
circle-pit. Io, come un cane di Pavlov, ci sarei cascato prima di subito. Il
set perciò è gradevole ma anche tanto, tanto rozzo, specie a livello dei suoni
che escono davvero come capita. Forse è una scelta dettata dai mezzi tecnici
(diamo ai ragazzi il tempo di ricevere i primi introiti), oppure una scelta
stilistica, assolutamente rispettabile. Fatto sta che mi permetto di rimandare
i Sex Shop Mushrooms a settembre con un’ennesima metaforaccia delle mie: a me
il rock piace con una cottura media, e il punk al sangue; il grunge in cottura
bleu non so se sono ancora pronto a consumarlo.
Abbiamo vissuto il nostro bel momento conviviale e saremmo anche
soddisfatti così: non sembrerebbe una serata di quelle in cui si scovano
promesse eccezionalmente sopra la media. Ma il karma dello scouting non
funziona così e, mentre dal bancone osserviamo il pubblico con un’aria da finti
intellettuali (“Hai visto quante ragazze vestite da gotiche?” “Assurdo, ce ne
sono sempre di più” “E quel trentenne sicuramente fatto di ecstasy?” “Di
martedì sera, annamo bene…”) dal palco arriva un’inaspettata brezza marina.
Gli Electric Spanish non li avevamo mai sentiti nominare nemmeno per
sbaglio, ma hanno un aspetto simpatico: sembrano action-figures che
rappresentano quattro tipi di rock diversi, schierati gli uni accanto agli
altri in un accostamento improbabile da un bambino che gioca sdraiato sul
pavimento. Mentre li squadriamo incuriositi, i ragazzi attaccano e ci arriva
addosso una scarica di surf-rock elettrico talmente potente e ben eseguita che
bastano trenta secondi per incollarci al palco: occhio, che qua c’è del talento.
La proposta del quartetto parigino è semplice quanto varia ed efficace: un
indie-rock marinaro che è variegato ma coerente, fresco ed estivo, curatissimo
e al contempo energetico. Quello che funziona meglio, soprattutto, è che c’è
una chitarra solista dai suoni spettacolari che rimane staccata dal resto quasi
tutto il tempo, rendendo ogni canzone ultra-melodica e smussata (in un mondo
dove la parola “indie” spesso rima con “squadrato”). L’impianto di questo
sound, parecchio revivalista e parecchio soddisfacente, anche e persino nelle
sue referenze facilone, abbraccia tutto il Commonwealth: nell’ottima Black Jacket, volo diretto New York - Los Angeles, si sentono i migliori Strokes
d’epoca che se ne vanno in spiaggia, nella strumentale Electric Spanish
quelle psichedelie microtonali un po’ Dick Dale un po’ Lawrence d’Arabia, tanto
care ai gruppi australiani più sviaggioni (King Gizzard, Psychedelic Porn
Crumpets…), o ancora in Middle Class la band butta nella mischia vivaci
riff brit-pop anni ’90 e strofe dalla distorsione bella ciotta che invece
ricordano quel “quasi pop-punk” di Weezer e compagnia.
Gli Electric Spanish sono un gruppo recentissimo e sconosciuto ai più, ma
sembra che suonino insieme da dieci anni (applausi perché ci capita anche di
vedere il contrario) e oltre alla pulizia, alla precisione e alla classe hanno
un carisma e una presenza scenica rarissima. Saranno la fotta del cantante
portoricano, i soli molleggiati del chitarrista virtuoso, la resistenza ferrea ed
eroica del batterista o ancora quell’attitudine da hippy iperattivo del
bassista (da quanto tempo non vedevamo qualcuno reggere il manico a mo’ di
mitraglietta alla Batistuta?). Sarà, ma i ragazzi ci piacciono, ci divertono,
ci fanno sognare. A chi potrebbe biasimare alla band di proporre un materiale
troppo variegato o persino incoerente non darei mai ragione perché, sia che gli
Electric Spanish ci portino in deserti QOTSAni, a una fiera del blues di
campagna (Different Song), o ancora a alla jammona infinita da deadheads
che chiude il concerto, una cosa rimane invariata: una sensazione di conforto
impagabile. Il quartetto di Parigi ha un nome improbabile, eppure me lo sento
mio fino in fondo: il benessere che mi trasmettono è identico a quello di
quando nei miei ritorni in Spagna mi siedo in un bar e sento sulla mia pelle
l’art de vivre semplice e immediato che solo la mia seconda terra sa farmi
provare. Questo brivido, in qualche modo, lo sento anche stasera ma nella sua
versione più frizzante, elettrica per l’appunto.
La settimana è ancora lunga e, dopo un’ultima ma non di troppo beuta, tocca
levare le tende. Casa mia, quella fisica e tangibile, è un po’ lontana.
Cinquanta minuti di metro abbondanti, ma passano come se fosse un quartino
d’ora. L’ho già detto alla scorso articolo, ma io, quando mi ritrovo nel
triangolo d’oro Motel/Disquaires/Mécanique nell’undicesimo arrondissement, mi
sento a casa. Detta da uno straniero, non è una frase banale.
E a casa mia si suona il rock. Questo rock.
A.
Savage – Late capitalism blues
A. Savage live @La Maroquinerie, Parigi, 15/02/2024 |
In un febbraio strapieno di distorsioni pericolose, decibel ai limiti della
legalità e moshpit serviti per colazione ci vuole un attimo di calma e
riflessione. E, suggestione abbastanza seducente, spunta in mezzo alle liste
dei concerti in città un nome suggestivo: quello di Andrew Savage. Sì, lo so
cosa state pensando: ah, il cantante dei…
Penso che il ragazzo si sia sorbito circa centonovantanove articoli e live
report in cui viene citato il gruppo in questione. Avendo in mente il
personaggio, penso anche che ne abbia le palle strapiene. Perciò, un po’ per
fare il bastian contrario, un po’ per rispetto, mi prenderò la licenza di non
citare mai, mai e poi mai la band newyorkese. Del resto, è letteralmente citata
nell’introduzione del mio blog. Penso basti.
Che dire però di quello che il signor Savage ci ha dato negli anni che
furono? Un sacco di cose: le migliori liriche sulle contraddizioni della nostra
modernità, e ad accompagnarle una voce iconica, sprezzante e lucida, il ponte
di congiunzione migliore che potessimo avere tra l’indie e il punk. Eppure, la
vocazione solistica del cantante, sorprendentemente, è un folk rock semplice,
dritto al punto e al contempo un po’ stralunato. Alla Maroquinerie stasera.
Immancabile.
Alla serata c’è una quantità di americani quasi ridicola, il che ci fa
ridere ma anche riflettere sul fatto che forse la musica dei due album di Andrew
Savage non ha troppo appeal sul pubblico parigino. In effetti, il Selvaggio
nazionale avrebbe cominciato a pubblicare la sua musica solista nel 2017
proprio al momento della sua partenza da quella New York che è linfa vitale del
suo songwriting in gruppo (Stoned and Starving?, la risposta del terzo
millennio ai Velvet Underground), per tornare nella sua terra natale: Denton,
Texas, ovvero l’ultimissimo comune densamente popolato della corona urbana di
Dallas, appena prima che la città lasci spazio ai grandi spazi campestri che
hanno ispirato migliaia di chitarre ed armoniche a bocca degli USA. I due album
usciti sotto il moniker A. Savage, in qualche modo, riportano nell’immaginario
rock contemporaneo l’immensità (e la bellezza) di queste vibrazioni bucoliche,
in contrapposizione con la musica ultra-metropolitana a cui il cantante ci ha
abituati durante tutti gli anni ’10 e oltre (di cui però la penna del nostro si
è sincerata di mantenere un po’ l’anima). Forse una parte del pubblico della
ville lumière, preso dalle nevrosi della grande città e dei suoi orologi che si
intrecciano, non si degna di ascoltare queste ballate vagamente campagnole.
La Maroquinerie è comunque abbastanza piena, nonché concentratissima: non
vola una mosca persino durante l’opening act acustico della brava cantante
inglese Naima Bock, venuta probabilmente con lo scopo (realizzato) di infondere
alla sala un sentimento di intimismo in vista del set di A. Savage, e far
capire che è una serata di estrema delicatezza così da tenere a bada i
potenziali esaltati rumorosi (e ce ne sono). Una bella voce, qualche arpeggio,
un paio di canzoni in portoghese: basta poco per placare gli animi di un
centinaio di persone abbondanti. Persino io, che spesse volte degli opener
acustici farei volentieri anche a meno, vedo in questo breve set non soltanto
una pragmatica utilità, ma anche un piccolo spiraglio di leggerezza che a volte
fa proprio bene.
Ovviamente, però, il vero divertimento comincia quando arrivano Savage e la
sua banda. La formazione è bella guarnita e oltre al cantautore con la sua
chitarra acustica c’è un’intera rock band con tanto di
sassofonista-tastierista, che fa subito prova di un affiatamento spettacolare,
mentre svolazzano le note di una ballata in cui il lead singer mette nel
microfono tutta la sua intensità, sfiorando più volte il grido: Hurtin’ or Healed, l’opener dell’ultimo meraviglioso disco Several Songs About Fire
(2023). Andrew Savage ha detto, in un’intervista, che si immagina di suonare
queste canzoni in piccole sale concerto che prendono fuoco. Sarà che sono un
appassionato di pale eoliche ma a me le canzoni che si susseguono nella
scaletta, talmente sono leggiadre (ma con un sottotesto di violenza), fanno
immaginare più che altro di star ascoltando il gruppo in cima a un altopiano,
col vento che si alza e comincia a scompigliarti i capelli e la giacca: la
sensazione è quella di farsi passivamente accarezzare da una forza fresca e
piacevole che, quando vuole, può anche avere il potere di spazzarti via. Così,
la malinconica e ironica My My My Dear è come quel venticello nervoso che
annuncia bufera ma per il momento porta solo un frustrante spleen, la tenera e
ipnotica Riding Cobbles una brezzolina marina che, nel momento dello
svago da spiaggia, ci riporta all’infanzia, My New Green Coat è quel
vento contrario costante e inamovibile contro il quale nulla si può fare
mentre, imbacuccati nel pieno dell’inverno, la camminata verso una meta che abbiamo
scordato si fonde con il semplice avanzare della vita.
Tutte queste ballate, ripetitive eppure sempre coinvolgenti (l’effetto
Zimmerman, ce l’hanno in pochi…), sono rese affascinanti da tanti elementi.
Innanzitutto ci sono i testi, una sequela di immagini impressioniste della vita
quotidiana, che gettano uno sguardo talvolta nichilista sullo squallore della
nostra modernità (“My weekly dinner of popcorn and Coke”), talvolta utopico, decantando
un ritorno a una semplicità primitivista, un po’ poetica un po’ politica
(“Milling grains into a flour […] Taking part in the resistance […] Wearing nothing made of plastic”). Oltre alle liriche toccanti e originali c’è
però anche il comparto suono e luci da centodieci e lode magna cum laude
(classic Maroq’), che riesce a far brillare i musicisti come stelle: il basso
eccelle e sostiene ogni pezzo con eleganza inaudita, le chitarre hanno un
timbro perfetto, i saltuari soli di sassofono sono maestosi e la batterista,
precisissima, ci colpisce per il suo tic di scuotere la testa velocissimo
mentre suona ritmi lenti e cadenzati.
Il tempo, perciò, passa in fretta, tra ballate favolose tipo l’astronomica Black Holes, the Stars and You o l’americanissima e quasi salingeriana Ladies From Houston (dal Thawing Dawn del 2017), ma anche qualche pezzo un po’ più
spinto che sì, forse una fiammella lì nell’angolino la accendono. Penso alla
potente Elvis in the Army, un folk-punk dai groove assassini, oppure la
marcia austera e decisa di David’s Dead, inno anti-consumista che un
gruppo me lo ricorda, ma non posso dirlo. Eppure, anche nelle canzoni più
rabbiose, Andrew Savage alza la sua voce coriacea, a volumi sempre più alti, ma
non esplode mai. Forse è anche questo il fascino di questo progetto: un blues
post-moderno che osserva la sua realtà, senza ancora passare all’atto della
ribellione: è disillusione?, volontà di testimonianza?, semplice inedia? Non lo
so dire, forse un po’ tutte queste cose. Fatto sta che, per la prima volta dopo
tanti concerti, ho l’impressione di vedere un cantautore che è veramente figlio
del nostro tempo, da tramandare agli storici dopo il collasso della civiltà, se
mai qualcuno sopravvivesse.
Finisce il concerto, cazzeggiamo un po’ col solito Paul al juke-box del bar
(hanno Amoureux Solitaires, la miglior canzone di tutti i tempi) e ci
decidiamo ad andare a dare un’occhiata al merch. Al banchino,
sorprendentemente, c’è lo stesso Savage, umile e pacato, un po’ sfavato a dirla
tutta. Forse è perché un fanboy statunitense gli sta facendo una testa così e
ha fatto pure battute evitabili sulla sua etichetta Dull Tools, forse perché
sente nei nostri sguardi l’eccitazione febbrile di chi sa che, in posti tipo il
Primavera Sound, la gente che lo incrociasse si farebbe foto come se avesse
visto il Papa, forse perché sto canticchiando davvero male la Autumn Sweater
che esce dalle casse in sottofondo. Fatto sta che, mentre il mio bro esita
sulla maglietta da comprare, il nostro caccia fuori un disperato: “Guys, I
really need some fresh air”. Non lo dico per biasimarlo, al contrario,
l’aneddoto ce lo fa voler bene ancora di più. L’autore di un disco dalle
volontà incendiarie che, dopo un’ora e mezza di suonata, ha solo bisogno di
uscire e sentire l’aria della sera sul volto, come vedremo pochi minuti dopo
nell’iconico cortiletto della Maroquinerie, può soltanto essere una metafora
della sua musica: di facciata, cruda e aggressiva, ma nell’anima, pragmatica e
contemplativa.
Fumo un’ultima sigaretta e, insieme a tanti, guardo Andrew Savage mentre
osserva il cielo. Un po’ di vento gli smuove i capelli.
MOFO, ovvero andare a un festival quando non si è
troppo in forma (Grand Blanc et al.)
I miei amici, entrambi malaticci @Festival MOFO, Mains d’Œuvres, Saint-Ouen-sur-Seine, 01/02/2024 |
Il Mains d’Œuvres di Saint-Ouen, un po’, è casa. Situato a quindici minuti
a piedi dal mio ufficio e pure da quello di Théo, questo edificio sembra un
ufficio pure lui, e probabilmente in passato lo è stato. Tutto, nella sua
struttura architettonica, parla di riabilitazione, riconversione e compagnia
bella. La storia del posto non mi sono messo a esplorarla, un po’ per fatica
(non amo leggere di architettura), un po’ per diniego (la mia ex architetta
aveva partecipato a un appalto), ma soprattutto per non rovinare il fascino e
il mistero un po’ da “backrooms” di questo edificio che si snoda tra enormi
sale vuote come negli squat, un bar dal retrogusto di refettorio fantozziano,
uscite di sicurezza che oggi sono punti di snodo e di passaggio, cortili industrialeggianti
e, la cosa più importante, i sotterranei che ospitano le sale prove. Ho suonato
ore ed ore nelle salette del Mains d’Œuvres e, seppur mi sia sempre promesso di
andare anche a qualcuno dei concerti che organizzano di sopra, non c’è mai
stata occasione. Ma a questo giro il Festival MOFO, che ha luogo ogni anno a
inizio febbraio e che si rivendica “Festival de Niches”, ci riporta Grand Blanc
in regione parigina, in un contesto più intimo della grande Gaîté Lyrique. Non
andare sarebbe quasi offensivo.
Va detto che né io né i miei accompagnatori eravamo in formissima. Gli
inizi di febbraio io sinceramente li associo a raffreddori, acciacchi,
stanchezze e compagnia. In questo il MOFO va in controtendenza: se il giovedì
ci va leggero, con una serata di musica abbastanza placida che termina alla
mezzanotte, al week-end fa il matto e imbastisce una line-up che può davvero
scuotere dai torpori febbrarini, tra electro-shoegaze denso (Tapeworms),
post-rock industriale e alienante (Rien Virgule), glitch-pop imprevedibile
(Jenys) e, soprattutto, una pila di club music spintissima fino all'alba. Se il confortevole
e catartico Festival BBMix di Boulogne è, come già dissi a novembre, un rituale
di inizio inverno, il crudo e intenso MOFO è, per alcuni, un baccanale matto
per scongiurare l’ultima parte, forse la più dura, della fredda stagione.
Il concetto è quantomeno affascinante e meriterebbe un approfondimento.
Resta il fatto che io, Lauren e Taha non è che ci sentiamo tanto ballerini,
sicché veniamo solo il giovedì, perlopiù per a berci la tisanina con quello
spettacolo magistrale che Grand Blanc sanno offrire, al contempo rilassante e
sconvolgente. E poi poco più. Potrei mentire e raccontarvi di quanto sia stato
toccante vedere suonare Kelora, duo di ambient-folk di Glasgow, ma la verità è
che ho visto due pezzi perché i miei amici stavano mangiando un hot dog; potrei
ostentare l’interesse che mi suscitano i sound collage del belga Ssaliva, ma la
verità è che siamo passati dalla sua stanza sonorizzata solo per andare alla
zona fumatori; potrei vantare di aver scovato un act underground pepita, Cheval
de Trait, che mescola il folklore delle campagne francesi alle atmosfere rave
più oscure e lo fa con un’eleganza insperata, ma anche lì devo ammettere che mi
sono visto quindici minuti massimo tra una chiacchierata e un’altra e poi,
stanco assai, me ne sono tornato a casa.
Cosa mi resta dunque del Festival MOFO, oltre a un incontro con il mio nuovo
gruppo pop alternativo francese preferito? Tante cose, che domande! Intanto adesso
so che il suono, le luci e gli spazi al Main d’Œuvres funzionano da dio e che
se a febbraio dell’anno prossimo voglio fare follie so già dove andare.
Inoltre, se voglio scoprire nuova musica di nicchia ho un nuovo posto in cui
scavare, e ho imparato che a volte non strapazzarsi a vedere tutti i set di un
festival può anch’essa essere la chiave della felicità. Anche perché tutti gli
artisti che ho citato prima, anche se non li ho visti in prima fila, li ascolto
ancora con piacere.
Perché un concerto dura una sera, sì, ma una line-up è per sempre.
Life is beautiful, when you have a Beautiful
Noise (Stonks, Eyesore & The Jinx, Marcel)
Stonks live @Supersonic, Parigi, 22/02/2024 |
C’è una nuova serata in città. E se non fosse per i belgi Marcel, mio
gruppo-feticcio, non lo saprei nemmeno.
Già nel passato mi sono soffermato sul Supersonic, sala parigina
immancabile quanto intimidante: la mole e qualità della musica che questo posto
propone ogni sera dell’anno e sempre gratis è incomprensibile, esagerata, quasi
ansiogena. Starci dietro sarebbe un mestiere full-time, e fare del Supersonic
un luogo dove “andare ogni tanto, ma sì, anche a caso, si beve una birra e si
vedono due gruppi” una potenziale e pericolosissima dipendenza in cui nessuno
vuole veramente cadere. Perciò ci limitiamo, ogni morte di papa, ad andare a
vedere i pochi gruppi che conosciamo nella punta del mastodontico iceberg della
programmazione. Certo però che fare del randomico scouting è una delle cose più
divertenti del mondo, quindi forse un giusto mezzo sarebbe anche bello
trovarlo, no?
Io e Maxime arriviamo non molto studiati nella sala più avanguardista della
Bastiglia e già si respira un’aria di futurismo: pubblico abbastanza geek,
gruppi stranieri, biografie musicali parecchio sofisticate e, sul biglietto,
due parole seducenti: Beautiful Noise. Non facciamo tanto caso ai chi cosa come
e perché dell’evento, interessati perlopiù a vedere Marcel, il cavallo del
garage punk su cui punto tutti i miei soldi. Dopo cinque secondi del primo act,
però, non tardiamo a renderci conto che tutto quello che c’è attorno
all’headliner è lontano dall’essere solo cornice.
Il concerto dei giovanissimi Stonks, soprattutto, piazza un’ennesima
bandierina sulla mappa del rock alternativo di stampo Benelux. I quattro di
Bruxelles hanno solo un EP in attivo ma già una tonnellata di personalità da
vendere sul palco. Il loro sound opera una sintesi ben propizia al mio gusto
quando si parla di post-punk ultra-contemporaneo: dalle ispirazioni math della
scena inglese (Squid, Black Midi etc.) prendono l’unica cosa che mi piace,
ovvero i timbri e le dissonanze, elidendo invece le inutili osticità e
lunghezze; contrariamente ai londinesi, tutta questa meravigliosa stranezza la
installano in canzoni sì un po’ arzigogolate, ma composte in maniera organica,
senza spocchia o sezioni sconnesse e, soprattutto, sempre pronte ad esplodere
in sfoghi noise-rock primitivisti. Più insistenze kraut in quattro quarti e
meno tempi dispari, più urla potenti e meno spoken-word insicuri: è solo il mio
gusto, ma è così che mi piace che venga trattata la materia. Al di là del punto
di vista compositivo, però, gli Stonks sono meritevoli anche sonicamente: la
chitarra è una sola ma forte e presente, e non lascia mai un momento di vuoto,
nemmeno quando svaria sugli acuti, merito anche di un basso che si impone bene
nel miscuglio ma senza quelle volontà leaderistiche che nel post-punk revival a
me spesso ormai puzzano di vecchio; inoltre, il fatto che tra i quattro membri
uno sia un trombettista all’inizio sembra una gimmick ma alla fine non ci si fa
quasi più caso talmente la tromba è integrata bene all’impianto rock: tra texture
bislacche e un po’ noir (il finale di Minesweeper), riff struggenti (il
ritornello di Bunker), esaltanti assoli un po’ jazzistici un po’
post-rock (come in Stuntman) o ancora un volo pindarico freak-ska sul
finire (aspettiamo in gloria nuova musica), il valore aggiunto della tromba
finisce per essere più emozionale che scenico. I ragazzi scrivono, suonano e si
vendono bene: il bundle “EP + pacchetto di Camel gialle etichettate Lussemburgo”
a 15€ è tanto illegale quanto irresistibile, così mi porto a casa Class Craic,
la loro prima creazione, con un fondo di speranza di poter dire, tra
quattro/cinque anni: “But I was there…”.
Si comincia a intravedere il fil rouge della serata quando montano sul
palco Eyesore & The Jinx. Sono tre, per la prima volta in Francia, vengono
da Liverpool e accidenti se si sente: non capiamo una mazza di quello che
dicono (a parte l’apprezzatissimo fanculo al fascismo). Avere due chitarre, una
batteria e nessun basso, un po’ come per la tromba degli Stonks, è una scelta
che può sembrare più comica che funzionale, ma che nel loro no-wave revival
minimalista e radicale, tipicamente inglese, ha la sua ragione di esistere
(come ci ricorda anche quella battuta di This Must Be The Place di Sorrentino:
“La chitarra ritmica è più interessante di quella solista, è più
masturbatoria”). In effetti, il setup è adatto al sound dei ragazzi e, seppur
la tentazione di paragonarli alla quasi defunta ondata del “rant-punk”
britannico (questa volta sì, concedetemi il paragone facile: Sleaford Mods anni
’10), il risultato è più arguto che squallido, tra ritmiche un po’ spasmodiche
(it does not need more cowbell) e riff ossessivi (genuinamente rabbiosi, più
che nichilisti). Soprattutto, le canzoni sono sorprendentemente orecchiabili: On An Island colpisce per la cattiveria con cui passa dalla filastrocca alla
sferzata punk degna dei migliori Idles, Gated Community è un
apprezzabile rock’n’roll post-moderno, l’essenzialista Float Like a Jellyfish (Sting Like a Subtweet) è chiaramente una hit in potenza, et
cetera. Devo ammettere che questi pezzi, pronti all’uso e dal sapore proletario
inconfondibile proprio come le bustine di Yorkshire Tea del Costco, non sono
proprio la mia tazza di tè. In compenso ho amici, inglesi e non, che lo
Yorkshire Tea del Costco lo bevono con estremo piacere, perciò mi sento di
consigliarveli, con il caveat e il senso
di colpa di aver pronunciato, su di loro, le parole più ingenerose possibili:
“Niente male… nel loro genere”.
Per il partito preso a inizio articolo non posso parlare più di tanto dei
Marcel, ma è pazzesco quanto siano unici e inimitabili. Oltretutto, ci siamo
goduti in anteprima un nuovo pezzo, una cavalcata feroce che promette un
ritorno, forse persino nel 2024, che potrebbe essere ancora più estasiante di
Charivari. Inoltre, casualità senz’altro divertente, incrociamo per caso uno
dei Cheap Teen, che con Maxime ci siamo goduti qualche settimana prima proprio
qui. Le molteplici “ciane” con tutti questi artisti garage punk emergenti è
perciò il modo più simpatico che ci sia di chiudere in bellezza una serata che
ci ha nutriti con tutto lo spettro dei suoni che amiamo di più, a cavallo tra
post-punk e noise-rock, il rumore più bello che ci sia.
A questo punto sarebbe meschino non interessarmi a che cos’è Beautiful
Noise, ovvero il fautore delle convergenze di stasera. Il concerto di Stonks,
Eyesore & The Jinx e Marcel è la seconda serata targata con questo nome:
una vera e propria rubrica del Supersonic che si pone per obiettivo quello di
scovare a giro per l’Europa le novità più calde del rock più strano, rumoroso e
abrasivo possibile. Effettivamente, sembra fatta su misura per me, le line-up
passate sono decisamente attraenti, le future ancora di più. Che bello che
nell’epoca dell’iperproduzione, dov’è difficile scovare le proprie nicchie e
non farsi travolgere dai grandi numeri, il giusto mezzo a volte si riesce
ancora a trovarlo. See you soon, Beautiful Noise!
Alla ricerca del nostrismo perduto (Les Baltrink’, Branle Bas 2 Combat, Les Critters)
Un punk attempato con la coppola @Le Cri du Singe, Montreuil, 24/02/2024 |
Chi ha letto il mio recente live report su Les Baltrink’ sa quanto, in quello che ho scritto, si fatichi a distinguere nel mio giudizio musicale quanto della mia soggettività sia puramente estetica e quanto di essa sia un prodotto della situazione sociale ed emozionale in cui mi trovavo la sera in cui li ho visti. A volte capita e non me ne vergogno: questo è un diario di bordo, non giornalismo.
Così come nella mia serata al dive bar non mi ero esaltato davanti a certe
band (Spaghetti Sluts) perché mi sentivo a disagio nel contesto generale, allo
stesso modo davanti a Les Baltrink’ mi era parso di vedere un astro nascente
del punk parigino e mi ero goduto il set al massimo perché finalmente mi
sentivo libero dopo una serata di inadeguatezza. Quanto del mio giudizio sulla
band era dovuto ai miei propri sentimentalismi, quanto invece era il gusto del
mio orecchio di appassionato di HC? Ci vuole una prova del nove per decretarlo e
il concerto a Montreuil del giovane quartetto questo sabato sera casca proprio
bene.
Per chi non conoscesse Montreuil, AKA il “ventunesimo arrondissement” di
Parigi, si tratta del comune di prossima banlieue più sinistrorso (quantomeno nello
spirito) che si possa immaginare. A volte progressisti e petalosi, a volte
radicali e autoritari, questi 892 ettari di città sanno sempre regalare delle
buffe sorprese in termini di vita notturna, e stasera non è da meno: quando
arrivo al Cri du Singe, locale mal referenziato su ogni sito internet
esistente, lo stupore di trovarmi davanti a un'entità indefinita che oscilla
tra il mini-squat e la sala concerti professionistica mi disorienta. Il
comparto sonoro è eccellente, ma il palco non esiste; il corridoio è elegante e
arredato in modo eccentrico, ma dopo uno sguardo più attento ci si accorge che
è una sorta di serra con dei buchi nei vetri del soffitto; il bar è funzionale,
ma non prende cash e vende le stesse bottigliette di birra che puoi comprarti
per i cazzi tuoi al supermercato. È un centro sociale o solo uno spazio
culturale dentro al quale si può fumare? Io e quel bombarolo veneto di
Costantino (che gli squat li conosce anche meglio di me) non lo capiremo mai
per tutta la serata. In compenso, almeno quello: il set dei Les Baltrink’ che
apre la serata mi accoglie appena varco la soglia della sala e ci metto pochi
secondi a capire che i quattro sono definitivamente la nuova “local band”
hardcore punk su cui fare la mia puntata.
Una volta che i miei dubbi sono stati dirimti (viva la lingua italiana…),
quello che di musicalmente notevole poteva succedere è già ampliamente
successo. Il resto della serata merita comunque di essere raccontato
rapidamente per due ragioni principali. La prima è che per la prima volta ho
incontrato un artista sulla cui musica non ho necessariamente speso grandi
complimenti, ovvero un membro degli Spaghetti Sluts. È stato un evento breve ma
decisamente interessante: la ruota dei miei controlli emozionali è andata in
tilt, con la freccia che non sapeva dove schizzare tra l’imbarazzo l’orgoglio
la paura la serietà la strafottenza la tristezza. Per fortuna ci siamo trovati
bene: che io non avessi nessunissima intenzione di stroncare chicchessia la
band l’ha capito bene e ha trovato il mio report simpatico. Inoltre, a
posteriori, non disdegno la musica degli Spaghetti Sluts, ed è anche e
soprattutto per questo che l’ho raccontata e anche linkata. Onestamente, non mi
permetterei mai di parlare esplicitamente male di un gruppo underground, ché
già non è facile per loro. Questo non vuol dire nemmeno che Stereo Totale è uno
spazio di adulazione: mi capiterà sempre di lanciare una critica,
un’osservazione sarcastica, un sospetto di storcitura di naso, ma mai e poi mai
sconsiglierò in toto un artista emergente che sono andato a vedere. Piuttosto, preferisco
tacerlo.
La seconda riflessione che ci facciamo io e Costantino è di ordine più
nostalgico. Entrambi espatriati, entrambi cresciuti in contesti in cui
l’intrattenimento ce lo fornivano perlopiù gli ambienti di sinistra, col
nostro bagaglio di ricordi adolescenziali, io di Firenze e lui di Vicenza, così
diversi eppure così simili… Ritrovarsi a centinaia di chilometri dalle nostre
rispettive culle, eppure sempre in una stanza piena di giovani esuberanti dove
suona un oi! simpatico ma non per forza troppo conforme ai nostri gusti (per me
è quasi un eufemismo) ci riporta in qualche modo uno strano sapore di casa. I
due gruppi che seguono il concerto dei Baltrink’ ve li cito più per folklore
che per vera e propria passione: Branle Bas 2 Combat, un trio di punk con la
coppola un po’ stagionati ma già ultra-melodici (lo giuro, non abbiamo fatto un
sing-along di The Kids Aren’t Alright in fondo alla sala mentre suonava
un riff simile) e soprattutto ultra-piacioni: mille “cheap tricks” esilaranti
stasera, tra canzoni sulla birra (“La bière… c’est mon frère !”), sul pogo,
sugli insulti (“Enculé… bâtard !”) e ciononostante un momento di commozione al
ricordo dei compagni che non ci sono più (riposa in pace “Patoch”, chiunque tu
sia); Les Critters, sulla stessa vena ma un po’ più creativi nelle sezioni
ritmiche e negli assoli, ci offrono forse meno risate ma anche più momenti di
melodic hardcore adiacenti al nostro gusto, che vedremmo bene sia a Radio Onda
d’Urto che a un Warped Tour immaginario nella “ceinture rouge”. Me la pogo serenamente
su canzoni comme Johnny o Pleine Lune, che magari non mi
ascolterei a casa ma che per un attimo hanno un sapore di madeleine di Proust. È
proprio nei momenti in cui ti sforzi di più a reprimere le tue origini che loro
vengono a te.
Non c’è vergogna ad ammetterlo: a volte il contesto conta tanto quanto, o
persino più della musica. Specie per noi stranieri, una serata che ci fa
sentire in un posto in cui non siamo inadatti vale oro. I gruppi underground,
che la loro musica ci piaccia tanto o no, possono avere questo e tanti altri
poteri magici.
Perciò viva i gruppi underground, e guai a parlarne convintamente male.
Prometto di non farlo mai. Viviamo in un mondo troppo crudele per fare del male
alla nostra gente.
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