Altro giro, altra
corsa. È Life Lately, c’è tanto da spiegare? No.
Il meglio di
giugno. Sei concerti. Pronti, via.
Tool – Big Richard strikes back
Tool live @Accor Arena, Parigi, 05/06/2024 |
Poco male, penso mentre varco la soglia della grande Arena e cerco il mio
settore, proprio come se fossi all’Artemio Franchi. Ho ancora addosso un po’ di
postumi di Primavera Sound e stasera voglio anzitutto rilassarmi, perciò
l’atmosfera da festa non del tutto riuscita mi va anche bene (al contrario
dell’anno scorso, in cui avevo voglia di fare baccano ma la poca affluenza rese
il concerto di Wu-Tang Clan e Nas meno “caldo” e memorabile di quel che speravo).
Dopotutto, sono anche qui per puro caso: il buon Daniel, compagno di PS 2024,
ha imbastito un after-festival ricco di concerti, una sorta di “A la Ciutat”
trapiantato a Parigi, e stasera per andare a vedere Danny Brown ha rinunciato
persino allo show del gruppo progressive metal più controverso della storia.
Daniel è un vero fan dei Tool, e da buon fan dei Tool ha acquistato il
biglietto mesi e mesi fa, non appena è stato annunciato, nonostante li avesse
già visti varie volte.
È risaputo, e lo ammette lui stesso, che i fan dei Tool sono mossi da una
sorta di fede cieca nei confronti di Maynard e soci. Daniel è il primo a criticare gli estremisti, quegli invasati aderenti di Tool Army che di fronte
alla scultura autografata di un feto dentro a un teschio (?), venduto alla
modica cifra di mille dollari (?!), fanno esaurire le scorte in pochi minuti
(???!!!). In compenso, resta fedelmente nelle fila dei fan moderati, di quelli che
comunque un po’ di esoso merch ufficiale se lo sono coppato, e a cui magari è
capitato di comprare un ingresso vicino vicino al palco in passato. Stasera non
è questo il caso: di farsi dissanguare per vedere la band da pochi metri per
una seconda volta, il mio amico non aveva tanta voglia, e il posto che eredito
(pagando comunque una tassa di successione non indifferente) è parecchio lontano
dal palco. Ma sì, ogni tanto una serata di concerto a distanza, visto
dall’alto, con un occhio fisso sugli schermoni, dal feeling anche confortevolmente
nazionalpopolare, perché no! Alla fine, è un po’ come andare al cinema da solo.
Cosa posso dire sul film che vado a vedere stasera? Direi, a grandi linee,
che è una grande produzione hollywoodiana, un po’ commerciale ma diretta da un
regista che in passato, su pellicole meno esose, ha dimostrato di avere una
certa raffinatezza (direi che è un topos frequente nelle uscite degli ultimi
anni: basti pensare ai lavori recenti di un Denis Villeneuve o di un Alex
Garland). Non mi aspetto, stasera, un concerto che colpisca il mio lato
sentimentale, che mi emozioni e mi cambi la vita, bensì uno spettacolo di
grande intrattenimento, pirotecnico e perché no, a tratti ai limiti del
pacchiano, ma che conservi comunque del gusto. Stasera i Tool hanno deciso di
farci stare tutti seduti, persino la platea, e c’è davvero un’atmosfera da
prima giornata di proiezioni del nuovo, leggermente tamarro, kolossal
dell’anno. Il pubblico, anche lui, conferma queste similitudini: c’è un piccolo
numero di persone assolutamente insospettabili, spesso uomini anziani distinti,
che sembrano non avere niente a che fare con l’occasione, e che infondono il
sospetto di essere giornalisti o critici. Ci sono invece persone che sono fin
troppo coerenti con la pellicola della serata: tutto nel loro look e nei loro
modi dimostra che sono ossessionate dal genere e dall’artista in questione, un
equivalente in musica di quelli convinti che la Snyder’s Cut sia uno dei più
grandi film della storia del cinema anche se è un ennesimo cinecomic, magari un
po’ più ricercato ma sempre un ennesimo cinecomic. Ci sono, infine, le persone
che non conoscono tutta la “lore” della saga di stasera, ma che comunque si
sono divertite con un paio di capitoli e che sono accorse, più che per
svago, perché vittime di un “hype” pressante a cui è difficile non cedere. Le persone
come me. Le persone “normali”, insomma.
Al cinema un vero equivalente dell’opening act non c’è mai stato. Un tempo
c’erano i cinegiornali, oggi ci sono i trailer, ma non è la stessa cosa. In un
mondo migliore, al cinema avremmo sempre un cortometraggio che ci scalda prima
del vero film: se non sbaglio nell’epoca d’oro della Pixar veniva proiettato un
corto come antipasto: quello del giocatore di scacchi era un vero capolavoro. E
così come amo vedere un bel cortometraggio, amo vedere un bell’opening act. Ma
la musica dei Night Verses, la band che i Tool hanno scelto per accompagnarli
in tournée, non è un cortometraggio: è un trailer lunghissimo del prossimo
filmaccio di azione con un budget che sfiora i duecento milioni di dollari solo
per gli effetti speciali. La performance del trio prog-metal californiano è di
una banalità inutilmente arzigogolata, costellata di pattern batteristici più
massimalisti che veramente sofisticati, e sorretta da uno shredding
ultra-tecnico che non esprime niente di concreto: tantissime note, pochissime
emozioni. Guardando questi sopraffini manipolatori di aria fritta, che
propongono brani rigorosamente strumentali un po’ tutti uguali (raffica di note
distorte in picking veloce con doppio pedale, riff pulito con ritmo math,
assoletto melodico e si e ricomincia) mi torna in mente una parola che avevo
accantonato: riccardone. Un equivalente di riccardone, nelle lingue straniere
che conosco, proprio non mi viene in mente. È strano, però: il concetto del
segaiolo innamorato della tecnica fine a sé stessa è abbastanza universale. E
non lo dimostrano solo i Night Verses con la loro mezz’oretta di fuffa, ma
anche i numerosi avventori dell’Accor Arena che approvano la loro performance
insipida, per quanto perfetta, con una standing ovation entusiasta. È un po’
come se mi rendessi conto di essere in un cinema dove la maggior parte dei
presenti non vede l’ora che Transformers: Rise of the Beasts esca nelle sale.
Ripenso a quello che ci aveva detto Paolo
mentre eravamo al Primavera, nel suo spassosissimo inglese dalla lieve
inflessione fiorentina: “I don’t like Tool because they have all this
complicated useless shit, like the Fibonacci thing, and everybody is like:
‘Oooh, genius, they used the Fibonacci sequence to make the lyrics!’ but I
don’t understand it: I like music, not mathematics”. Anche se fa oggettivamente ridere, non sono del
tutto d’accordo: pure senza ammirare particolarmente tutti i suoi riferimenti
algebrici, un pezzo come Lateralus per me resta comunque una delle
canzoni metal più belle della storia, proprio perché ha tutto quello che rende
la musica dei Tool esaltante e costantemente interessante: ritmiche non
convenzionali, sul filo del rasoio, eppure orecchiabili; melodie epiche e
battagliere, condite da vocals carismatiche; una struttura compositiva
appagante nei suoi continui andirivieni tra riflessione ed aggressione. Al di
là delle loro stranezze trigonometriche, i Tool hanno dimostrato, almeno fino a
10,000 Days (2006), di avere una grande sensibilità nel coniugare la maestosità
del rock e metal progressivi alla violenza straniante del post-hardcore.
Ovviamente, un sostrato di riccardonismo l’hanno sempre avuto ma nei due
capolavori Ænima (1996) e Lateralus (2001) non l’ho mai trovato sterile, bensì sempre
prestato al servizio di un songwriting unico nel suo genere e di grande
impatto. In 10,000 Days ci sono sezioni dell’album in cui comincio a sentire
tanta, troppa, di quella puzza sotto il naso dei grandi virtuosi, convinti che
la genialità della loro arte possa concedere loro qualche eccesso di
ripetitività. È però l’album del 2019, quel Fear Inoculum indigesto, piatto e
lungagnone, ad essere l’unica release in cui l’arroganza riccardona prevale su
tutto il resto: l’impressione, ad ascoltarlo, è quella di una pisciata fuori
dal vaso, un troppo che stroppia. Ma, vista anche la ricezione fredda della
critica, ho sempre voluto pensare che come spesso accade quest’eccezione
confermi la regola: a parte un paio di piccoli incidenti di percorso il
repertorio dei Tool, prima ancora di essere uno schema di concetti
trascendentali, è una cornucopia di grandi canzoni, canzoni vere. E non vedo
l’ora di sentirle.
In effetti, provo subito emozioni forti quando il quartetto sale sul palco
e attacca a suonare Jambi, il pezzo in cui i Tool si sono avvicinati di
più a quel djent che, quando suonato in modo intelligente, è l’unico
sottogenere metal nato nel nuovo millennio ad avere un senso di esistere. Il
piacere che ritrovo, soprattutto, è quello di un’adrenalina che, contrariamente
a quella dei concerti punk che spesso descrivo, è più intellettuale che fisica:
la magia dell’heavy metal, che da tanto tempo mancava nelle mie sortite
concertistiche, è capace di evocare nella mente immagini astratte di mondi
lontani e di scene mitologiche che, per quanto possa sembrare puerile, mi
trasmettono una foga elettrizzante che mi fa stare bene. Le visuals fanno
anch’esse il loro sporco lavoro, bombardando il pubblico di immagini
psichedeliche che ci immergono nell’immaginario extra-sensoriale della band. Appena
finisce il pezzaccio Maynard ripete quello che da mesi leggiamo sui nostri
biglietti d’ingresso: “No phones tonight, we wanna take you to a journey”, e non
posso che essere d’accordo con questa politica: c’è un bel buio immersivo e
tutti gli occhi sono puntati verso il palco, dove ci aspettiamo ancora grandi
riff e cavalcate emozionanti.
Attacca un pezzo di Fear Inoculum che, anche se non lo riconosco
(setlist.fm, vieni a me!, la canzone è proprio Fear Inoculum), intuisco
subito essere di Fear Inoculum proprio per quelle idiosincrasie un po’ tediose:
i groove sui tom dell’ottimo Danny Carey (particolarità che l’ha aiutato a
renderlo uno tra i batteristi più originali della sua generazione) sembrano
andare avanti all’infinito, sorretti da linee vocali e chitarristiche puramente
atmosferiche, in un’avanzata che procede solo per inerzia, senza una direzione
precisa se non dei crescendo lunghissimi a metà tra il prevedibile e lo
sconclusionato. Sia chiaro, la ricerca del suono è molto raffinata,
l’esecuzione spaventosamente precisa, ma quando il pezzo finisce viene un po’
da dirsi: e allora? Per una canzone di più di dieci minuti è grave.
Il concerto, purtroppo, avanza e raramente sembra schiodare da una linea di
lunghe suite, alcune millegiornarie ma soprattutto inoculari, il cui songwriting al suo meglio è interessante (Pneuma ha
un paio di momenti) e al suo peggio è, ahimè, noioso forte (su Descending
ho reali cascaggini: ma è possibile rischiare di addormentarsi a un concerto
metal?). E la presenza scenica degli artisti non contribuisce certo a rendere
più frizzante l’esecuzione di codesti materiali molli, specie quella di Maynard
che è certamente un grande cantante ma anche il frontman più anticlimatico
della storia e, non senza spocchia, se ne sta impalato dietro la batteria,
illuminato appena da una flebile luce. In questa ostica scaletta, solo un’inaspettata
Intolerance, possente cannonata nu-metal di quel debut grungeggiante che
è Undertow (1993), riesce a convincermi che per fortuna lo show di stasera non
è solo una celebrazione dei cinque anni dell’ultimo e peggior album, come purtroppo
sembrerebbe.
Mi dispiace ammetterlo, ma in un concerto da arena, in un tour senza
nessun’album da promuovere, del fan-service per me non è solo necessario: è
dovuto. Per avere The Grudge, il primo estratto da Lateralus, bisogna
aspettare veramente troppo, e la goduria che provoca questa canzone
meravigliosa, una centrifuga di accelerazioni e decelerazioni che sbatacchiano
l’anima, è l’unica cosa capace di competere con la delusione del vedere i
Tool uscire dal palco appena finisce. Per fortuna appare un timer sullo
schermo: falso allarme, era solo la fine della prima parte e i Tool hanno la
possibilità di riscattarsi. Dopo dodici minuti Danny Carey torna sul palco e ci
delizia con un assolo di batteria e synth modulari lunghissimo e non proprio
per tutti (io mi diverto molto ad ascoltarlo, ma in tanti penso si svaghino
soprattutto con le inquadrature in prima persona che appaiono sullo schermo).
Poi, dopo questi tecnicismi futuristi, un altro bell’omaggio ad Undertow: una
malvagia Flood con tanto di grafiche a tema dove il mefistofelico artiglio
rosso prende vita. Sulla sfuriata finale esplodono pure i coriandoli e mi
immagino già un finale “hit parade” ma no, ritorna la noia dei pezzi blandi e
infiniti del fottuto Binoculum. Il copione del finale del film è come se l’avessi
già letto: l’unica cosa che riesce a sopire la mia sottile delusione, quando
Maynard annuncia l’ultimo pezzo (è qui che ho potuto fare una foto con il mio
“fucking phone”, che per questi pochi minuti diventa legale), è la bellezza
della canzone: una Stinkfist coriacea, spavalda, emblematica. Memorabile,
ma forse non basta.
Il concerto finisce e, come conviene in una grande arena semivuota, mi
defilo via dal posto senza pronunciare una parola, fluendo via con la piccola
folla educata. Mi riguardo attorno: la gente come me, frustrata da una serata
dove abbiamo visto più il potenziale della band di fare un concertone che un
vero e proprio concertone, dev’esserci ma non si nota: siamo la maggioranza
silenziosa. Qualcheduni che sono rimasti estasiati dal concerto di stasera invece
ci sono, e si notano eccome. Seguaci dalla fede indiscriminata? Non impossibile.
Amatori dell’ultimo album? Devono pur esistere.
Riccardoni? Per forza. Non posso fare a meno di pensarlo.
Suffocation – Morte
in diretta TV
Suffocation live @La Gaîté Lyrique, Parigi, 10/06/2024 |
Nel mio decennio di ascolti di questo genere (doveva essere proprio il 2014
quando per la prima volta misi su The Sound of Perserverance dei Death e la
mascella mi si separò dal corpo), il death metal mi ha fatto tantissimi regali,
fornendomi album fondamentali (ne cito qualcuno) che hanno ampliato la mia
visione della musica nelle maniere più improbabili: con la corrente technical
(Atheist - Unquestionable Presence, 1991) ho scoperto che un’impostazione
musicale jazz o fusion non solo si può prestare alla musica estrema, ma può
anche contribuire a renderla squisitamente contorta; con la corrente melodic
(Edge of Sanity - Crimson, 1996) ho imparato che anche la musica estrema può
avere la potenza evocativa di poemi omerici o affini, e tutto ciò senza dover
per forza ricorrere ai fastidiosi stilemi fantasy di power metal e affini; la
corrente grindcore (Napalm Death - Scum, 1987) mi ha insegnato che l’abrasività
sonora, quando viene portata al parossismo, è un’arma politica, un equivalente
in musica della lotta armata; infine, la corrente brutal (Cryptopsy - None So
Vile, 1996) mi ha riconciliato con gli elementi più “demolitivi’ non solo del
metal, ma della musica in generale: nel marasma di canzoni con sedicimila
variazioni e una quantità di note suonate insensata, un po’ come a carnevale,
ogni scherzo vale: i breakdown lenti e spazza-folle che nel beatdown hardcore
mi stanno un po’ sulle balle acquistano un senso, svegliando in me un
sentimento di rabbia catartico, sano e mai pericoloso per me o per gli altri; il
continuo susseguirsi di sezioni spesso sconnesse tra loro armonicamente e
ritmicamente, che mi irrita in moltissimi generi (dal jazz moderno al noise
rock fino all’art o hyper-pop), mi dà un’improbabile soddisfazione; e tra
queste ultime sezioni, se ci pensate, le linee di batteria con un polka beat in
quattro quarti ma con la doppia cassa a manetta, accompagnate una chitarra che
spara bassi distorti in sweep picking, non sono concettualmente troppo
differenti dai drop pur cui si esaltano tutti i disprezzabili raver che ballano
l’odiosa psytrance… eppure cazzo se svegliano qualcosa nel mio corpo!
Quando Théo mi manda un link per prendere i biglietti gratuiti per un
concerto dei Suffocation alla mitica Gaîté Lyrique non mi faccio nemmeno una
domanda. Semplicemente, ringrazio la vita per avermi dato un amico appassionato
di musica estrema e inserito nell’industria musicale, che non solo scova
occasioni prestigiose come questa, ma mi ci accompagna anche con piacere e
simpatia. Gli ingressi su Dice escono alle 15. Alle 15:02 sono miei. Mi
rinfresco la memoria con un paio di ascolti di Pierced From Within (1995), uno
dei tipici album della cui esistenza sono al corrente da che ho memoria, e che
in qualche modo so come suona anche senza essermelo mai messo nelle cuffie
prima d’ora. Il suo sound è esattamente quello che avrei previsto: violento,
caotico, incessante. Tutto quello che voglio da un lunedì sera di festa col mio
amico più “semibbrudal”.
Il giorno arriva e non mi sento nemmeno in formissima, ma c’è un bel sole
caldo che fa proprio venire voglia di devastante death metal e ci incontriamo per
farci un aperitivo in un barretto di Strasbourg-Saint-Denis dalle pinte
economiche (ogni parigino ha il “suo” bar di Strasbourg-Saint-Denis dalle pinte
economiche, ed è sempre uno diverso: la mia teoria è che si spawnino appena
nominati). Con Théo c’è una sua collega molto simpatica, Joanna, che è già
venuta a un paio di serate a cui sapeva che sarei venuto nonostante mi avesse
conosciuto nel peggiore dei miei stati alla fine della MaMa Music Convention (il
mio live report più divertente a mani basse, ma accidenti come sono stato
insopportabile quella sera). Una vera temeraria, non c’è altro modo per
definirla, e lo conferma anche il fatto che oggi è il suo primo concerto di
metal estremo, una musica che non conosce affatto. Le auguriamo buona fortuna,
mentre discutiamo di come contiamo vivere l’esperienza: Théo vuole un po’ fare
a manate (come al solito, quel bandito), io invece mi vedo bene a godermi lo
spettacolo dietro al pit con le braccia conserte e la faccia scorbutica.
I due fra del musicbiz mi raccontano la ratio della serata: si tratta, in
realtà, delle riprese di Cérémonie, una trasmissione destinata ad andare in
onda su Arte Concert. La notizia, in altri contesti, mi avrebbe forse deluso
(voglio andare a un concerto, non in uno studio televisivo), ma stasera non è
così, perché Arte Concert è un canale che rispetto enormemente e perché questo
inaspettato contesto mediatico porterà per forza, oltre che una band di tutto
rispetto in una venue tanto spettacolare quanto inadatta, tutta una serie di dinamiche
sociali certamente simpatiche, specialmente le interazioni tra deathster
assetati di sangue e individui che, un po’ come noi del resto, sono lì più per
caso o per affiliazione al business dell’intrattenimento.
Entriamo alla Gaîté Lyrique e, dopo una sempre magica ispezione dei
barocchi luoghi mentre al bar passano Twisted Sister e Iron Maiden (li miei
padri), ci decidiamo ad entrare nel cubo nero. La sala, a pochi minuti
dall’inizio del concerto, la si nota sold-out solo a parole: la capacità
ridotta di stasera è più una scelta logistica che altro. Anche l’annunciatrice,
prima che venga dato l’“azione”, ci ricorda di fare attenzione ai cameramen che
si possono incontrare nel pit (più il contrario, semmai, ma prendiamo nota) e
che tra pochi istanti, prima dei Suffocation, Seth Gueko farà un’intro che,
alla bisogna, potrebbe prendere più di una take. “Ma come, non conosci Seth
Gueko? È un rapper famoso”. No, non lo conosco, ma lo riconosco: accappatoio,
tatuaggi in faccia e sulle mani, pelato, barbuto… ma è quello che faceva il
testimonial per la 8.6, la birra preferita dei senzatetto! Il copione non è
complesso: “Buonasera cari poco di buono, vi presento… Suffocation”. Perfetto,
buona la prima.
Tra il clamore generale, montano sul palco cinque individui che, a primo
impatto, mi comunicano una sola cosa: rimaneggiamento estremo della line-up. Io
la trentennale storia dei Suffocation e dei destini dei suoi membri non la
conosco, ma so già di per certo che solo due delle persone sul palco sono nella
band da più di quindici anni: sicuramente, il bassista dai capelli lunghissimi e finissimi e
il chitarrista pelato con i dreadlock (solo nel metal estremo si può realizzare
questo ossimoro). Il resto della band, specialmente l’improbabile cantante
under-40 (la band esiste dal 1988) con lo smanicato da basket, hanno stampato
in faccia un ingresso recente nel gruppo, e il fact-checking non mi smentirà.
Ma in fondo, io ai Suffocation non sono per niente affezionato: se fossero i
Sepultura, ancora ancora un paio di domande me le farei, ma stasera siamo qui
per divertirci e questo giovanotto che risponde al nome di Ricky Myers ce lo fa
subito presente: possiamo montare sul palco, possiamo saltare gli uni sugli altri,
possiamo fare tutto quello che ci pare finché non procuriamo danni materiali ad
Arte. E allora via.
I redivivi attaccano a suonare e, innegabilmente, l’impatto è immediato.
Una devastante Thrones of Blood, a partire dal momento in cui il
cestista intona il primo bestiale growl, mette subito le cose in chiaro: se i
Suffocation sono su un’emissione di un certo livello culturale è perché sono
una band nettamente superiore alla media sia per quanto riguarda la tecnica sia
da un punto di vista dello sconquasso sonoro e persino della stage presence,
conservatasi parecchio cazzuta. Nonostante a prima vista il batterista Eric
Morotti sembri avere un tocco educato, persino poco vigoroso, le sue acrobazie
sono in realtà molto potenti e costituiscono un’impalcatura più che solida a
quella struttura tetraedrica dai numerosissimi e demonici riff che sono le
canzoni del quintetto newyorchese. Io e i miei amici dal bordo della voragine
che si è aperta nel mezzo della Gaîté osserviamo la scena e ce la ridiamo: ci
sono i peggiori buzzurri del mondo che stanno battagliando mentre un paio di
temerari cineoperatori li seguono dai margini. Nel mentre, il braccio meccanico
di un dolly sale e scende per inquadrare bene il gruppo nella sua interezza,
alternandosi a un paio di cameramen che ogni tanto si avventurano a pochi
centimetri dai membri, soprattutto per inquadrare gli acutissimi e goduriosi
assoli di chitarra di scuola slayeristica che Terrance Hobbs, il membro
storico, sparerà praticamente una volta a canzone.
Il pubblico, in ogni caso, reagisce bene, c’è tanto movimento, e
soprattutto tanto stage diving, al punto che viene inevitabilmente da chiedersi
quanto di questo derivi dalla pura adrenalina del momento e quanto dalla
vecchia e dura a morire voglia di finire in TV. Forse un po’ tutte e due: c’è
gente che ha negli occhi il fuoco della malvagità musicale che sta vivendo e si
butta dal palco agitandosi come invasata, ma anche gente più prudente, e tra
questi ultimi alcuni hanno in testa una Go-Pro fornitagli da Arte Concert per
arricchire Cérémonie di qualche ripresa POV. Tutti questi elementi registici,
alla fine, danno al concerto proprio quello di cui ha bisogno una serata death
metal il lunedì sera: un po’ di cazzonaggine. La musica dei Suffocation non può non dipingerti sul viso “il grugno” (nel mio caso, è un
punto intermedio tra la faccia da guerra di Jens Kidman dei Meshuggah e quella
di Abbath degli Immortal), ma al contempo, come in un film splatter di serie Z,
bisogna ricordarsi che tutti questi incomprensibili racconti di eviscerazioni,
sgozzamenti e mattanze di vario genere sono una grande, buffa, finzione. E
tutti nella sala lo capiscono, perché in fondo nessuno è veramente violento,
anzi: la voglia di divertirsi è palese negli sguardi e nei sorrisi di tutti (e
tutte: la quantità di donne, anche nel pit, non è altissima ma arriva già ad
essere apprezzabile). Persino nel gruppo stesso: ogni volta che Myers urla:
“Circle pit!” si legge nei suoi occhi la soddisfazione di un invito a un gioco
collettivo che viene accolto con piacere; o ancora, ogni volta che una canzone
finisce in maniera brusca e il vocalist passa dal growlare con estrema
cattivera roba tipo, appunto, “Pierced From Within!” al dire: “Merci”
con una voce normalissima mentre in sala si sente il suono di almeno cento
persone che riprendono fiato all’unisono, non si può che intendere questi
giochetti come piacevoli divertissements di uno spettacolo macabro che si
concede anche un po’ di tamarraggine.
La scaletta avanza e, per quanto dura da decriptare per noi dilettanti
dell’universo Suffocation, sembra anche piuttosto equilibrata: i nostri hanno
fatto uscire Hymns From The Apocripha a novembre 2023, ed essendo il primo
album con la formazione ringiovanita, si merita la giusta promozione, ma ciò
non impedisce di portare in scena gli highlight dell’abbondante discografia dei
deathsters. Il primo pezzo mai scritto dai Suffocation, Catatonia,
ritorna direttamente dal ’90 deliziandoci con quel retrogusto di first wave of
black metal che smette di volersi dilettantistica, che poi è quel che rende
così sfiziosi gli album death metal degli inizi (un esempio lampante che mi
viene in mente: Cancer - To The Gory End, 1990). Infine, i cinque decidono di
finire il loro set con un omaggio al debut album Breeding the Spawn del ‘91,
che poi è il vero fan-favorite, con una combo Liege of Inveracity
seguita a ruota da Infecting the Crypts che, a suon di skank-beat,
regala allo stesso tempo il culmine della spettacolarità alle telecamere e
un’ultima scarica di schioppi sonori gratuiti alla folla ormai interamente
headbangante.
Il concerto è durato un’ora e, in totale tranquillità, il pubblico non
pagante se ne va a fare la sua cena a orari spagnoli all’ora del crepuscolo:
chi l’avrebbe detto che la musica estrema potesse essere così comoda! Per una
persona come Joanna, ancora beatamente ignorante e illibata nel campo del
brutal death metal, non poteva esserci introduzione migliore. Io e Théo, un po’
più avvezzi al vivere (anche insieme, anche su queste pagine) concerti di
quella che possiamo bonariamente rinominare “musica da pogo”, siamo egualmente
soddisfatti. Noi che, non appena parte un breakdown coi quattro sul china, ci
ritroviamo ad avere animate e spesso (per colpa mia) sgarbate discussioni sulle
interpolazioni tra maschilismo, culto della violenza e mosh-pit, stasera ci
troviamo su un terreno comune. Ci siamo divertiti entrambi allo stesso modo, ci
sentiamo anzi spensierati, e imitiamo growl e blast-beat ridendo a crepapelle
davanti ai nostri polli al curry del ristorante indiano.
Forse è la magia del piccolo schermo che alla fine, rendendo noi e tutti
quelli che erano alla Gaîté Lyrique protagonisti dell’intrattenimento altrui,
ha permesso un clima di serenità e svago che altrimenti, forse, non sarebbe
stato possibile, o non a questo livello. Forse ancora è la magia del metal,
musica che in fondo ha come scopo primigenio quello di soddisfare le volontà di
epicità del nostro mondo interiore, e che stasera ci ha catapultati in un folle
turbinio di orrori e violenza che però, come in una commedia macabra, sono solo un
prodotto di fantasia creato apposta per solleticare l’immaginazione.
Probabilmente, è un insieme di entrambe le cose.
In ogni caso, una cosa è certa. Anzi, due. La prima è che la divertente e caotica catarsi del metal estremo merita assolutamente di diventare il soggetto di una trasmissione televisiva, e sono contento di essere stato testimone di questo evento (il primo, spero, di una serie a più puntate).
La seconda, è che guarderemo sicuramente le repliche.
Descendents – La
band più forte del mondo
Descendents live @La Laiterie, Strasburgo, 14/06/2024 |
È dal 2019 che non vedo dal vivo il mio gruppo preferito. Cinque anni. Tanti.
L’anno scorso, purtroppo, me li sono persi perché Milo Auckerman ha avuto un
infarto a Barcellona, prima di cominciare la tournée. Non ho mai veramente rosicato
per i Descendents che mi scompaiono, da un giorno all’altro, dalla line-up
dell’Xtreme Fest. Quando lessi la notizia l’unica cosa che sentii fu una
sincera preoccupazione per Milo, anche se il comunicato metteva subito in
chiaro che stava bene. Mi prese un piccolo coccolone, come se fosse stato un
mio parente. E una piccola lacrima di sollievo al vederlo filmato sul letto di
ospedale nella stessa buona forma in cui è sempre stato. Non so se, lì per lì,
feci un po’ il lutto del rivedere il mio gruppo preferito ancora una volta.
Forse sì, e mi misi l’anima in pace. Aver visto questa band straordinaria già
due volte, oltretutto al più grande festival musicale d’Europa e al più grande
festival punk d’America, era stato un onore, uno dei più bei regali che la vita
mi avesse fatto. Poi, due mesi e mezzo dopo, capitai su un video che non mi
aspettavo: i Descendents in Giappone che ribaltano locali uno dietro l’altro. Restai
senza parole, ma del resto che cosa si può veramente dire a riguardo? Bill
Stevenson è sopravvissuto a un tumore al cervello e ancora suona la batteria a
velocità insensate. Milo aveva avuto un infarto a fine luglio e a inizio
ottobre stava già sgambettando in un tournée in Oceania. Dai su, ma di che parliamo.
Finisce che i californiani rispettano la promessa di tornare in Europa per
riscattarsi dall'assenza dell'anno scorso e annunciano il tour estivo.
Lo spot da headliner all'Xtreme Fest è quasi un'ovvietà (e so già che andrò).
Qualche giorno dopo, però, spunta una data in una sala che si chiama La
Laiterie, a Strasburgo. Nel dubbio, compro senza nemmeno guardare l'agenda.
Sarei stato capace di andare da solo ma il caso vuole che Sophie, visto che
l'intreccio ha una sua logica e che, paradossalmente, Strasburgo è a metà strada
tra Parigi e Digione, stasera mi raggiunge. Penso che sia curiosa di vedere la
mia trasfigurazione di fronte ai Descendents ma anche che, senza dirlo
esplicitamente, voglia fondare una tradizione: dileggiarci, almeno una volta
ogni due stagioni, in esperienze concertistiche provinciali (perché Strasburgo
sarà anche la capitale d'Europa, ma per me che sto a Parigi è sempre provincia).
Ho preso mezza giornata di ferie perché anche solo immaginare di perdermi
il concerto mi fa male al cuore, perciò arrivo nel capoluogo alsaziano a metà
pomeriggio, ma l’idea di fare del turismo in assenza della mia bestie mi sembra
un po’ offensiva, perciò mi dedico perlopiù al riposo e all’acquisto di derrate
necessarie ai giorni successivi, consistenti perlopiù in lattine di Kronenbourg
(perché, anche se la Kronenbourg è la birra industriale nazionale, è comunque
una specialità locale). Il weekend che seguirà sarà ricco in scalate di chiese
gotiche, vagabondaggi fra canali e tartes flambées. Finirà, casualmente e
simpaticamente, a gay pride e vino (anzi: vodka alla violetta, che è
l’equivalente queer del vino). Ma in questo momento il futuro non solo lo
ignoro: lo scanso. C’è solo una cosa che conta in questo istante: i
Descendents. Lemme lemme, me ne vado verso la venue con addosso una sensazione
febbrile. Ho lievi palpitazioni, tic nervosi di eccitazione. Le farfalle nello
stomaco.
Quando arrivo con anticipo estremo alla Latteria, ancora chiusa (ma che
sfoggia una programmazione esiziale, che svaria da Dying Fetus a Len Faki, da
Nouvelle Vague a Johnny Mafia), queste sensazioni scemano un po’, per il
semplice fatto che mi accorgo di non essere l'unico scemo a provarle: davanti
alla sala c’è la mia famiglia di invasati, una piccola e cazzonissima comunità
di malati di Descendents come me (gente che ha il tatuaggio di Milo) o pure
peggio di me (gente che ha il tatuaggio di Allroy). Forse è così che si
sentono le swifties. La cosa divertente della faccenda è che siamo a una
mezz’ora a piedi dalla frontiera con la Germania e che una buona metà del
pubblico viene dalla Repubblica Federale, il che rende l’atmosfera esotica al
punto giusto. Mentre facciamo la coda per entrare, mi si racconta di terre
lontane tipo Karlsruhe o Freiburg, di modo che, forse per autosuggestione,
l’interno della Laiterie che mi si svela dietro ai buttafuori ha un’atmosfera
po’ “ti Cermania”: il luogo è razionale e ben congegnato e al contempo un po’
roncio, un po’ come quei bar di Berlino dove i baristi spillano sessanta tipi
di birre diversi con una maestria da balletto classico mentre nella sala di
fianco la gente si fa le canne al chiuso. Cedo per un po’ di merch e, ormai
febbrile non solo per i Descendents ma anche perché non ho messaggi di Sophie,
il cui treno arriva alle 20:20 (main act on stage at 21:00), decido di distrarmi,
senza troppo trasporto, con l’opening act.
Ad aprire la danze, com’è giusta consuetudine, c’è un gruppo francese, un quartetto
parigino rispondente al nome di Hogwash. I ragazzi (un po’ stagionati, come
diceva qualcuno) suonano quel classico skate punk di stampo californiano anni
’90 un po’ ossimorico: talmente veloce, a volte, che non riesce ad arrivare
dritto alle corde dell’animo. Specie in una serata che ha una certa sacralità,
penso che in molti sentano questa sensazione di troppo che stroppia: i riffazzi
melodici alla Offspring, la batteria di foggia barkeriana e i cori, per quanto
si vogliano festivi al massimo, non riescono a smuovere veramente le folle. Il
gruppo è comunque simpatico ed è bello vedere quanto siano emozionati di fare
da opener sulle date francesi dei Descendents (sfido io). In compenso, se gli
Hogwash sembrano perfetti per una rassegna pogaiola come il sopracitato Xtreme
Fest non li vedo per forza troppo pertinenti ad un concerto dei Descendents:
troppo adiacenti a una deriva bastarda del loro sound, suonano alle nostre
orecchie un po’ sforzati. Per chi ha una buona memoria, vidi un gruppo dallo
stile simile, gli SliP, in apertura ai Johnny Mafia in banlieue parigina. Così
come quella band si rivelò un opener abbastanza memorabile proprio perché assai
diverso dall’headliner, così stasera sarebbe stato perfetto avere un gruppo
indie/garage rock ad aprire le danze invece di ascoltare subito questo pop-punk
sparaflesciato che non possiamo non trovare un po’ pacchiano quando andiamo,
inevitabilmente, a compararlo alla band per cui siamo venuti.
Detto ciò, il concerto si fa seguire con un piacere più dovuto al fatto di
“essere qui” che alla musica. Non ho amato il set ma non me ne lamenterò un
solo secondo perché l’euforia è troppa, specie quella di ritrovare mia sorella
non appena finisce l’ultimo pezzo. Sono con la mia persona preferita al mio
concerto preferito. È anche la prima volta che vedo i Descendents al chiuso e
non a un festival. Non sembra reale, ma lo è. Faccio un po’ di catch-up con
Sophie, perché non ci vediamo da mesi e abbiamo tantissimo da raccontarci, ma
lo nota pure lei che non riesco a staccare gli occhi dal palco e che nella mia
testa la lancetta dei secondi sta ticchettando sempre più forte.
Poi li vedo. Bill, gigante buono, saluta tutti sotto alle sue cuffie da
cantiere e sorride nel modo più gentile e naif possibile. Stephen, con la
pelata luccicante, se la ride sotto i baffi con l’espressione un po’ perversa
di chi sa che tra pochi istanti dal suo plettro uscirà il divertimento, quello
vero. Karl, canuto e serio, imbraccia il basso con concentrazione e saggezza. E
poi c’è Milo, che è un po’ tutti noi: senza stile, semplice, infiammato da una
passione che non si può spiegare a parole: bisogna vederla. “Alright, are you feeling this?”. Cazzo,
Milo, certo che sì. Parte Feel This e non ci sono più.
Quello che succede da questo momento in poi è semplicemente magico: il
concerto perfetto, col suono perfetto, col pubblico perfetto. La mia mente non
risponde: sono completamente preso dalla musica che meglio mi rappresentava
quando avevo quattordici anni, che meglio mi rappresenta adesso, che meglio mi
rappresenterà per tutta la vita. È una trance, e non posso fare a meno di
agitarmi da tutte le parti, alzando più e più volte le braccia verso la band
più forte del mondo. Perché questo sono i Descendents: la band più forte del
mondo. Sono sulla sessantina ma, mentre cantano testi sugli amori
adolescenziali, trasmettono una sincerità, una spensieratezza, una gioia di
vivere, che non si ottengono nemmeno se sommo quelle delle dieci giovani band più
genuine che ho mai visto. Non solo: suonano canzoni di una difficoltà estrema,
di quelle che ti lasciano col fiatone, e lo fanno senza fare pause. I pezzi si
susseguono come una raffica di mitra e non puoi che chiederti: ma come fanno? Intenzione
in purezza.
Persino io, cantando a squarciagola tutte queste canzoni, perdo il fiato,
non respiro più. Ma il mio corpo va col pilota automatico, e allora ecco che in
qualche modo mi si apre un terzo polmone, come ai mistici buddisti che
risvegliano chakra sconosciuti. Penso che possa succedere solo quando ti sfila
davanti senza soluzione di continuità una decina di canzoni che costituiscono
le fondamenta non del tuo gusto musicale, ma del tuo essere persona. Pezzi
d’amore e tristezza (due facce della stessa medaglia) come Hope, Silly Girl, Clean Sheets, che mi hanno insegnato a non aver paura dei miei
sentimenti, a non trovarli mai ridicoli, pezzi che sono la ragione per cui ad
oggi, quando scrivo, vado fino in fondo; canzoncine nevrotiche e solo a prima
vista stupide come I Like Food o I Wanna Be a Bear, che mi hanno
insegnato ad accettare i miei momenti di pura euforia e anzi a coltivarli, per
quanto possano sembrare idioti; o ancora un pezzo come Everything Sux,
che ancora oggi mi insegna che delle giornate in cui va tutto storto si deve sempre
un po’ ridere. Tutte canzoni che mi hanno migliorato la vita per sempre,
insomma. E guardando le facce intorno a me so che non sono il solo. Come
faccio, perciò, a non cantarle a tutto fiato?
Ogni tanto, dopo sequele di classici intramontabili che mi rendono asmatico,
partono brani un po’ più recenti ed estratti da album a cui sono meno
affezionato, come Hypercaffium Spazzinate (2016) o 7h & Walnut (2021). Un
attimo di lucidità torna in me: parte Nightage e mi dico: “Porca vacca,
ho lasciato la mia amica indietro!”, vedo Sophie ai margini del mosh-pit, vado
a dirle: “Incredibile, no?”, ma poi parte il ritornello e l’ipnosi ricomincia.
“I’m never getting through the night!” (se morissi stasera mi andrebbe bene), e
bum, mi ritrovo schiacciato alla transenna. Il giochino si ripete più e più
volte e in qualche modo mi permette di respirare in maniera sensata. Ma la mia amica,
quando vado a trovarla per poi scusarmi e scappare, capisce e anzi mi incita:
“Vai pure, spacca tutto”. Detto fatto. Partono altre canzoni fondanti, che mi
hanno reso chi sarò per sempre, come I’m Not a Punk che mi ha insegnato
l’unico modo di essere punk che mi corrisponde: fottersene dello stile, delle
pose e dell’attitudine. Fottersene di essere giudicato per chi si è, poco
importa se a giudicarti è la società conformista o, al contrario, gli stessi
anticonformisti. “I’m just a square, going nowhere”, non mi rompete le palle.
Un ethos a tutti gli effetti, in un minuto e quattro secondi.
Dopo Rotting Out, vero capolavoro emo (non ho in mente una sola
canzone di gruppi emo veri e proprio che parli così bene di bile nera), ho
quasi svenimenti da partita di calcetto scapoli contro ammogliati e,
provvidenziale, arriva l’intermezzo di Van (vita da tour, rutti,
scuregge e compagnia) che fa sempre tanto ridere. Visto che è una canzone
pressoché impossibile da cantare e pogare mi ritiro un attimo e osservo i
californiani nel loro momento di strafottenza definitivo: sono quattro amici
per la pelle, ne hanno vissute di tutti i colori insieme e la vita comune in
tour è ciò che li rende più felici in assoluto. Quando li vedi suonare questa
canzone, è impossibile metterlo in dubbio. Lo confermano anche le loro facce:
Bill continua a sorridere senza sosta perché sente che sta facendo qualcosa di
bello; Stephen ha espressioni indiavolate ed è fatto di pura adrenalina; Karl sta
godendo del suono possente con cui ci sta bombardando; Milo è un fiume di
sudore e dà tutto sé stesso per la sua arte.
Il concerto perfetto. Sindrome di Stendhal. Partono canzoni pazzesche una
dietro l’altra ed è troppo per essere vero: Myage, che è come ho vissuto
tutta la mia adolescenza e When I Get Old, che è come voglio vivere il
mio invecchiamento; Coolidge, che racconta di come mi sento quando trovo
che sono uno sfigato inutile e I’m the One, che racconta di come mi
sento quando mi sento la persona migliore e più ganza del mondo. Bikeage,
la mia canzone preferita, per le sensazioni ataviche che mi risveglia: un
omaggio alla parte buona di me che, senza saperlo, ha sempre risieduto nella
mia “teenage angst”. La mia gente, tutto attorno a me, lo capisce e mi tira su:
è un’emozione unica quella di urlare il testo di questa canzone a tu per tu con
chi l’ha scritta, guardando negli occhi chi ha “the way to say what I can
never say right”. Quella persona è Milo, e non è un caso se subito dopo parte
proprio Thank You, la dedica definitiva al musicista ignoto che sa farci
sentire forti, compresi, completi. “I won’t say your name, you know who you
are, I’ll never be the same again”, urliamo in coro mentre il cantante, eterno
giovane, si mette davanti alla transenna e si fa abbracciare da tutti. “Thank
you for playing the way you play”. Davvero.
Difficile glissare su una quantità di canzoni straordinarie che sono state
suonate stasera (i manifesti politici ‘Merican e Suburban Home;
altre dolcissime love songs come Nothing With You e Without Love,
altri sfoghi edonistici-autistici come Wienerschnitzel e Coffee Mug).
Una cosa però la devo dire: nella loro ora e un quarto di concerto a Strasburgo
i Descendents hanno suonato trentatré canzoni. 33. Tren-ta-tré. Come i trentini
che entrarono a Trento trotterellando. Ma ci rendiamo conto? E nonostante ciò,
resta una quantità insensata di capolavori che sono dovuti restare fuori dalla
scaletta. Che siano riusciti, in quarant’anni di carriera, a scrivere così
tante perle, ancora ancora posso capirlo. Ma come sia possibile che quattro
esseri umani dall’aspetto così normale, sulla sessantina, riescano ancora a
regalare un’esperienza così trascendentale a quelle settantuno (sì, le ho
contate sulla maglietta del world tour: settantuno date in quattro mesi e mezzo) città in giro per il mondo? Fisicamente, la cosa non
ha senso: viola proprio le leggi della termodinamica. L’ultima canzone dell’encore però, dà una
risposta a questo paradosso: “When I Get the Time I’d like to sit down
and write a little rhyme for you, just a couple few, and tell you what you mean
to me”. Canto a squarciagola
e, per la prima ed ennesima volta, capisco che l’impossibile è stato reso
possibile per una sola ragione: i Descendents tengono a noi. È la forza dell'amore.
Usciamo dalla Laiterie con gli occhi a forma di cuoricini. L’anima è in
estasi, il corpo un po’ meno: io, in particolare, sembro uscito da un tuffo in
piscina da vestito. Bevo qualcosa come quattro pinte di acqua e in seguito,
tornato al B&B, farò comunque una sola pipì, normalissima, e così anche i
principi di base dell’anatomia se ne sono andati a farsi fottere. Un solo,
ultimo evento degno di nota: Bill Stevenson, che è di fatto il vero leader del
gruppo, è uscito dal van della band e ha avuto una parola per tutti, ma proprio
tutti quelli che erano rimasti lì. A me ha insegnato a cantare “peppermint
patty”, la canzone che lui e Milo hanno inventato all’ospedale di Barcellona, sul
ritmo dell’elettrocardiogramma. Mi ha raccontato della serata in cui sono
usciti dal reparto cardiologia e si sono sparati una paella gigante, mi ha
detto quanto Milo sia un amico importante per lui. Non gli ho neanche fatto
vedere il tatuaggio ma, in mezzo alla folla adorante, mi dedica cinque minuti
del suo tempo Bill Stevenson, un uomo che da quarant’anni è la linfa vitale del
punk americano, producendo gente tipo NOFX e Rise Against. Il batterista che,
oltre che su tutti i dischi dei Descendents e degli ALL, suona su praticamente
tutti gli album dei Black Flag, compreso My War. Non so se ci rendiamo conto.
Bill parla con tutti e poi, prima di partire per Lilla, ci ringrazia. Non è
solo una lezione di umiltà: è una conferma che il nostro infinito e
incondizionato amore è corrisposto.
Sono piccole cose, certo. Ma sono le piccole cose che fanno sì che i
Descendents non siano solo una band molto forte, ma la band più forte del
mondo.
Turnstile – Save
your generation
Turnstile live @L'Olympia, Parigi, 17/06/2024 |
Era da troppo tempo che volevamo andare a vederli insieme. Due anni,
addirittura: i biglietti per l’Elysée Montmartre del 2022 non riuscimmo proprio
a prenderli. E sebbene io potei recuperare la band al Primavera Sound dell’anno
dopo, il fatto che Sophie se ne sia rimasta a bocca asciutta mi aveva generato
una sorta di senso di colpa soggiacente che potremmo rinominare “FOMO per conto
terzi”. Ecco che perciò, non appena è stato annunciato il loro passaggio
all’Olympia, ho preso i biglietti sia per me che per la mia amica, in guisa di
regalo di compleanno. Un compleanno molto anticipato, certo, ma i regali
puntuali sono noiosi.
La prima volta che ascoltai i Turnstile mi erano stati venduti da Tommy
(grande talent scout) come il nuovo fenomeno del punk odierno, appena dopo
l’uscita di Time & Space nel 2018. A quell’epoca avevo una facile tendenza
a relegare in un personale dimenticatoio (o peggio, un ignoratoio) tutto quel che
fosse potuto essere descritto al contempo con gli aggettivi “hardcore” e
“moderno”. Sono ancora convinto che a quell’epoca di ritorno alla moda dell’HC,
tutto quel che passava in convento (ovvero su piattaformacce tipo Hardcore
Worldwide) era perlopiù un accrocchio di beatdown brutaleggiante senza
coerenza. Una parte di spocchia da purista però in questo mio rigetto c’era
eccome. Se un album non comincia con uno skank-beat ed è registrato in maniera
decente, pensavo all’epoca, non merita poi granché della mia attenzione, perciò
ai primi ascolti dell’album di consacrazione del quartetto di Baltimora mi
dissi dubitativo. In realtà il dubbio era di natura assai semplice,
riassumibile in una domanda degna di un dibattito alla casa del popolo di
Berlinguer Ti Voglio Bene: “Pole l’hardcore punk suonare contemporaneo e allo
stesso tempo avere una scrittura autentica, dritta al punto ed efficace?” “Sì”.
E così imparai ad apprezzare Time & Space.
Ancora non avrei considerato i Turnstile una band generazionale, ma al meglio
un gruppo che si distingueva dalla massa delle scialbe novità di quel periodo.
Poi, però, mi capitò di vederli in concerto a un festival nientepopodimeno che
a Chicago. Sarà che giocavano in casa, sarà che il Riot Fest alle 13:55 è un
luogo ricettivo a questo genere di musica: fu un concerto potentissimo,
mozzafiato, duro ma addolcito da quel sottotesto di candore che porta in sé la
stage presence estatica di Brendan Yates, già all’epoca considerato da molti
avventori come una futura icona. Da quel momento in poi cominciai a vedere i
Turnstile in un’altra ottica, specie perché recuperai Nonstop Feeling (2015)
che scoprii essere il vero capolavoro del gruppo: quel condensato di riff
aggressivi ma al contempo sentimentali, con tutte le sue capatine a volte nella
musica estrema a volte in sonorità pop, i “drop” mai piazzati a caso ma sempre
con una ratio non casinista o violenta, bensì emozionale, era il suono che
poteva ridare lustro all’hardcore punk perduto, rimodernando con cura il legato
delle correnti east coast (dagli schiaffoni bostoniani di scuola Slapshot fino
al delizioso paradosso delle lagne cazzute reso possibile dall’accademia dei fugaziti, con sede a Washington, D.C.).
Fu solo durante la lunghissima epoca di promozione di GLOW ON, vissuta tra
gli andirivieni delle normative sul coronavirus (ricordo sia di ascoltare i nuovi
singoli con Tommy al parchetto a Firenze, improvvisando micro-mosh-pit, sia
chiuso in casa ammazzando il tempo su RYM dopo il coprifuoco parigino delle
17), che mi accorsi che quei Turnstile che vedevo come un bel prospetto nella
rosa delle mie giovanili stavano diventando il fenomeno diciottenne in
trattativa per il Manchester City a più di cinquanta milioni di sterline.
L’industria non ci stava solo puntando, ci stava già mangiando sopra, perché
ancora prima che l’album finalmente uscisse in quel fatidico 27 agosto 2021 era
già noto che sarebbe stata l’opera che avrebbe riportato i suoni dell’hardcore
punk al grande pubblico, un disco di quelli che creano mode e tendenze. Quando
le parole “punk” e “moda” si ritrovano a stare nella stessa frase di gente che
storce il naso ce n’è inevitabilmente ad ogni lato: Paolo per esempio, da
quando i Turnstile sono esplosi, li ha accantonati nel suo personale
disprezzatoio, altresì noto come quello che lui chiama “musica per gente col
cappellino da pescatore”. Io però non ho potuto fare a meno di arrendermi al
fatto che il suono di GLOW ON è quello di un punk rock adatto al nostro tempo,
genuino, potente, orecchiabile, sensato e, soprattutto, sensibile. E, se magari
posso avere da ridire sulla cura forse eccessiva che è stata riposta
nell’estetica e lo stile, l’album ha un suono generazionale, non c’è niente da
fare. E un album generazionale è fatto per essere condiviso con All My Friends, perciò così fu: la mia esperienza di GLOW ON da allora fu fatta di
cover folli suonate con il trio più olistico della storia dell’hardcore punk
(ovvero Théo, Maxime e me medesimo), o ancora sessioni di ascolto di pura
esaltazione con Sophie (di cui una, memorabile, al ritorno di un concerto dei
P3C, in auto, volume al massimo e la mia ex che ronfava sul sedile di dietro).
Ed eccoci dunque qui, tutti insieme. Io, Sophie. Théo, Maxime. Anche i miei
due colleghi preferiti nella disciplina del sollevamento di polemiche, dopo
qualche tentennamento (e il prezzo è troppo alto, e la sala è troppo grande…),
si sono decisi a venire all’Olympia per vedere i Turnstile per la prima volta.
Per chi non la conoscesse, l’Olympia è l’ultima delle sale di Parigi a poter
ancora catalogarsi legittimamente con l’aggettivo “media”: in pratica, se si
aggiungesse una persona in più nelle capacità del locale, l’Olympia sarebbe nel
novero delle sale “grandi”, ma ancora può permettersi di restare in quello
sweet spot del “medio-grande”. Forse è anche questione di percezioni: grazie al
suo pavimento leggermente in pendenza, praticamente tutti in sala riescono a
vedere il palcoscenico, o ancora le lettere appese all’ingresso con i nomi
degli artisti della serata danno una vibe americana un po’ indie e ben lontana
da quella delle mega-sale troppo grandi per poter fare di questa annuncistica.
La foto del buffo quartetto di stasera davanti alle porte con su scritto “TURNSTILE”
è da incorniciare. L’ingresso in largo anticipo (nonostante stasera tutto
vogliamo tranne che dare troppi soldi al bar del locale) lo si può giustificare
solo con la presenza di un’altra scritta, a caratteri un po’ più piccoli:
“SPEED”.
Che Max e Théo siano grandissimi appassionati di quella gang australiana
rispondente al nome di Speed non è una novità: anche sull’articolo riguardante
i Pogo Car Crash Control racconto abbondantemente di quando i miei amici mi
portarono a vederli al Glazart l’estate scorsa. Tra la scoperta di norme da pit
assolutamente incompatibili col mio modo di intendere la vita, un paio di
momenti di sincera paura di farmi male e altre brutture che non sono proprio
quello che cerco dalla musica dal vivo, posso dire senza dubbio, citando Spinal
Tap, che quello degli Speed fu un concerto di quelli che cambiano la vita, non
necessariamente in positivo. Detto ciò, per quanto la loro musica resti ai miei
occhi decisamente idiota, il gruppo per me è parecchio valido e su questa mia
opinione non vacillo, men che meno stasera, su un palco prestigioso ed un
impianto di qualità superiore. Suonano come degli indemoniati, hanno una grande
presenza scenica e hanno persino dei discorsi motivazionali piuttosto simpatici
(“This is your town, this is your place, this is your scene!”, per quanto io
sia allergico al concetto stesso di “scena”, gasa). Alla fine, per godermi un
concerto degli Speed, mi basta estrapolare dal loro maelstrom sonoro tutto quel
che suona come del thrash metal e godermi i riff.
Il problema di un set del genere, “core” all’inverosimile (su disco non ce
la faccio) ma non per forza disgustoso dal vivo, è sempre quello del pubblico: madonna
santa, la musica manco è cominciata (giuro, c’è solo un piccolo feedback di
accensione degli ampli) che già mi ritrovo attorniato da pericolosi mulinelli
di pugni. Sophie è abbastanza esterrefatta da questa ritualistica violenta. Io,
che l’esperienza del fuoco ho già dovuto viverla un paio di volte, riesco a
superare le prime sensazioni di paura mista ad astio e, dal “safe space” in cui
sono stato relegato, riesco a fare un’analisi antropologica del fenomeno un filino
più elaborata di quella che già avevo sviluppato a tempo perso. Guardando i
crowdkillers in questione, per la prima volta vedo nelle loro odiose coreografie
non una spontanea foga risultante in movimenti senza capo né coda, come quella
dei mosh-pit sballottolanti a cui sono abituato, bensì del calcolo nell’uso del
loro corpo. Per quanto ostili al benessere altrui, e non a ritmo con le canzoni,
le mosse sono codificate! Nello spazio che si ritagliano con la forza bruta, questi
uomini (sempre uomini, oh) hanno l’obbiettivo di mettere qualcosa in mostra:
non è un movimento di folla, ma una dichiarazione di stile. Lo stile è forse uno
dei costrutti societari più divisivi all’interno del punk rock: c’è chi
considera che averne sia un elemento necessario per essere nel novero dei punk
rockers, in quanto l’estetica è quello che meglio ci identifica come esterni alle
norme sociali; c’è chi, come i Descendents (e indovinate un po’, sono d’accordo),
espone attraverso l’assenza di stile una certa assenza di artifici sulla
propria persona, implicando che l’autenticità d’animo sia la vera essenza dell’essere
punk.
Se uno ci pensa su, entrambe le visioni possono essere rispettabili (anche
se una domanda mi sorge spontanea, vedendo le ragazze relegate a two-steppare:
seguire stili codificati non è, in fondo, una dimostrazione di conformismo?). Ma
c’è un problema di fondo molto più grave: che cosa va a significare, nel grande
schema dello stile, il crowdkilling? Mi spiace per gli amatori, tra cui figurano
vari dei miei amici, ma l’unica risposta per me è: la virilità, ovvero la cosa
di cui abbiamo meno bisogno al mondo. Del resto, anche gli oceanici sul palco ne
stanno facendo prova: persino nel momento in cui viene decostruita al massimo
(ovvero in un’incomprensibile suonatina di flauto traverso sulla sconclusionata
THE FIRST TEST), la loro performance resta quantomeno dominata dalla
mascolinità: muscoli a pacchi, mosse di lotta, salti guizzanti… insomma, un “gym
punk” che, a vederlo, mi sembra più dannoso per l’avanzamento dei nostri
costumi che altro. Neanche il tempo di teorizzare i benefici del “dad bod punk”
(sarà per un’altra volta) che il breve set degli Speed finisce. Mi ha molto
divertito, non lo nego. Ma ora che la musica è finita mi risale nel corpo un
sentimento di collera istantanea e divento, in pochi istanti, incazzato nero.
Sono incazzato perché il fatto che, nel mio genere preferito, si insinui una
retorica più o meno implicita della virilità, proprio mi manda in bestia. Sono
incazzato perché ho rischiato di pigliarmi un cartone sul muso da un tizio che
riteneva assolutamente necessario ballare sul suono di un batterista che scandisce
i quattro quarti sul charleston prima che la canzone cominci. Sono incazzato perché,
in fondo, privare la folla di uno spazio comune per una semplice prova di dominanza
fisica è pura arroganza mascherata da appartenenza a una cultura. Sono
incazzato perché so che i miei amici sono persone di cuore buono, eppure li ho
sentiti parlare di boiate come la loro voglia di “fare degli spinkick sui ‘bobo’
dell’undicesimo arrondissement”. Spunta un loro amico che dice di aver voglia di
andare all’ospedale dopo il set dei Turnstile e mi monta il sangue al cervello:
ma cosa pensa di dimostrare, con una frase del genere, questo coglione?
Io quando mi incazzo divento euforico e iperattivo. È un modo, se volete,
per sfogare la mia rabbia contenendo tutto quello che potrebbe essere dannoso
per gli altri. Comincio a saltellare a destra e sinistra senza ragione e, pur
di non insultare nessuno, a blaterare un’abbondante quantità di stupidaggini. Finisco
persino per attirare le attenzioni di un paio di quarantenni nel nostro raggio
d’azione che mi prendono per un invasato. Un paio di cose sensate però le dico,
pure se a volumi e modulazioni della voce poco consoni ad essere preso sul
serio. Riassumendo: “Ma che, vi aspettate davvero che la gente continui a
fottersi tutto il pit mulinando durante il set dei Turnstile? Quando la musica
è veramente buona e sensata non c’è mica bisogno di fare queste mosse, nasce un
sentimento comune di semplice spinta verso il palco. Le canzoni sono così
immediate e memorabili che sarà come un concerto degli Abba: canteranno tutti e
si finirà a pogare normalmente”.
Mi calmo e sono quasi passato dalla rabbia al senso di colpa di chi non
riesce a tenere per sé i propri livori, quando si spengono le luci e parte l’intro.
A scrollarmi di dosso le mie sensazioni di ingombranza ci pensa subito un suggestivo
gioco di luci. I Turnstile, ed è da un annetto che l’ho compreso, ci tengono in
maniera molto minuziosa alla componente “show”. Perciò, così sia: dietro alle
luci stroboscopiche si cominciano a intuire, come personaggi sbloccabili di un
videogioco, le sagome dei musicisti che ci hanno regalato alcuna della migliore
musica degli ultimi anni: gente come Franz Lyons, di cui si intuisce già lo
stile hip-hop e, pure al buio, l’iconico sorriso; Daniel Fang, macchina da ritmo
di rara potenza; quel punk trasandato di Patrick McCrory; o ancora Meg Mills, che,
anche se da semplice turnista, ha inevitabilmente aggiunto un elemento “badass”
al femminile alle performance dal vivo della band. E poi, ovviamente, Yates,
asta del microfono in mano come se fosse il bastone di un samurai, fermo in una
posa plastica come fa la quiete prima di diventare tempesta e dare spettacolo. Cosa
sta per succedere?, si chiede ciascuno di noi amici mentre facciamo blocco
compatto, perché anche se a volte qualcuno di noi sclera in fondo abbiamo solo
voglia di restare uniti. Cosa può succedere? Semplice, quello che solo il
grande punk rock sa fare: creare, con una manciata di note semplicissime, una
quantità di moto disumano. Basta l’acuta intro di basso di T.L.C. (TURNSTILE LOVE CONNECTION) a sparpagliarci da ogni lato per l’effetto di una repentina
forza centrifuga multipolare. Ma questi sono matti a cominciare con una canzone
così veloce, intensa e spinta!, pensa ogni membro del nostro poker mentre, da
ogni lato, ci uniamo alla calca della folla in delirio nello slancio che (c.v.d.)
spinge tutti verso il palco, in un moto caotico che urla: “A little T.L.C.! A
little T.L.C.!” a gran voce.
Al break guardo in su e finalmente, per qualche istante, vedo bene la band.
Stilosi lo sono, non c’è niente da fare. Machi, in compenso, affatto, e questo
mi ridona fiducia. Ormai per metà arreso all’idea di passare tutto il concerto nella
mischia, tanto mobile quanto calda e pressante, del pit dell’Olympia, canto quel
ritornello emblematico, tenero e coriaceo, che è: “I wanna thank you for
letting me be myself”. Cominciando con una canzone del genere, i Turnstile si
sono presi la responsabilità di mettere in chiaro fin da subito qual è il loro
tono e il loro messaggio. Passati per tanto tempo come paladini di un “wholesome
punk” un po’ ridicolo a lungo andare, stasera finalmente trovo nel gruppo di
Baltimora un equilibrio perfetto tra musica violenta e messaggi sani, che
riesce a non stroppiare in nessuno dei due sensi. L’inizio del concerto è a
mille all’ora, con una ENDLESS che scatena le folle con la sua
reinterpretazione melodica e pop del d-beat e una Fazed Out gagliarda e
non banale così presto nella scaletta. Navigo in mezzo a capannelli di gente
semoventi, incrocio brevemente gli amici, canto e ballo. Soprattutto, ascolto
pezzi veri, pieni, soddisfacenti.
E sì, le pause tra una canzone e l’altra, con gli intermezzi pseudo-ambient
tipici di GLOW ON, sono troppo lunghe. E sì, le chitarre non si sentono per
niente bene. O ancora Meg Mills, a volte, si mette in disparte e si direbbe che
non abbia quasi voglia di essere lì. Se uno vuole vedere il pelo nell’uovo, inevitabilmente,
può trovare nel concerto dei Turnstile duemila difetti, ma alla fine della
fiera non si va ai concerti per vedere belle canzoni suonate da artisti con le
palle? La scaletta contiene solo esclusivamente pezzoni: che si tratti delle grooveggianti
canzoni “hard pop” dell’ultimo album come UNDERWATER BOI, che sembrano anticipare
un genere di successo del prossimo futuro, o raffiche di hardcore punk come la
storica combo di Real Thing e Big Smile, che mi ricordano che in
fondo io e i musicisti sul palco abbiamo lo stesso sostrato, il divertimento è
ad altissimi livelli e soprattutto il pubblico rimesso al suo posto. È proprio
vero che quando si ascolta della bella musica, scritta da artisti di cento categorie
superiori, le pose e le attitudini finiscono nel cestino. La gente a quest’ora
non vuole più andare all’ospedale o menare la gente: vuole solo canzoni.
Perciò, per un’ora e un quarto, mi prendo la musica dei Turnstile. I Turnstile,
con le loro velleità estetiche anche troppo rileccate per me. I Turnstile, che
a volte per fare spettacolo perdono un po’ della loro purezza. I Turnstile, con
il loro show che è tanto tanto fumo: il solo di batteria di David Fang, che io
trovo memorabile e impressionante (soprattutto perché è sempre lo stesso da due
anni a questa parte), contraria qualcheduno, ma poi subito dopo parte Blue by You, una delle più belle canzoni d’amore degli ultimi anni (e, a mio
avviso, la loro più bella melodia). Sarà anche servito su un piatto fighettino
e pieno di orpelli inutili, ma non c’è niente da fare: l’arrosto è il più buono
in circolazione.
Siamo a fine concerto e ormai ricompattati in un gruppo unito. All’Olympia
si sta larghi per la legge delle molecole gassose, ma il pubblico non è nemmeno
più indiavolato: semmai, è ipnotizzato, merito anche dalla bella neopsichedelia
emo di ALIEN LOVE CALL (con Blood Orange che monta sul palco, ma non lo
riconosce nessuno; io speravo fosse Denzel Curry). Eppure nell’aria si
percepisce bene quello che stiamo pensando tutti: i Turnstile ci devono dare l’ultima
prova della loro potenza, sia essa espressiva, sonora o umana. Detto fatto: la
sala intera viene ribaltata dall’accoppiata finale con MYSTERY, il vero,
epico, main theme del punk degli anni 2010, seguita da HOLIDAY, un devastante
inno alla spensieratezza che è ormai la canzone per eccellenza che descrive il
mio gruppo di amici.
Usciamo frastornati, più dalla qualità della musica che dalle maree umane
che, piano piano, si sono calmate. La soddisfazione è palpabile e ancora di più
lo è constatare che nel pubblico spunta una bella quantità di gente che ammiriamo,
punk rockers veri della regione. Ma io, con la coda dell’occhio, godo ancor di
più nel vedere che una bella fetta della popolazione che Maxime e Théo, quando
si atteggiano, dicono di disprezzare, non gli sta facendo né caldo né freddo,
anzi: ci facciamo sorpassare da categorie umane come le ragazzine agghindate
alla coachelliana maniera o gli uomini baffettati dall’aspetto di appassionati di
specialty coffee e ci sentiamo, tutti insieme, parte di qualcosa di bello. Non
una scena, ma una comunione di sentimenti positivi.
I Turnstile sono un gruppo dalla forte componente pop. Sono un gruppo che,
per quanto originale sia il loro suono, hanno avuto negli ultimi tempi come obiettivo
quello di proporre un punk facile, orecchiabile. Si può dire che sia punk rock
per le masse? Sì. E ne sono felice, perché mai prima d’ora le masse hanno avuto
così tanto bisogno di unità. Trent’anni fa c’è stata un'altra band che, dopo
inizi sicuramente adiacenti al mondo dell’hardcore punk “quello vero”, fece un
disco pop, facile e destinato al grande pubblico. Erano i Jawbreaker. Save Your Generation era il nome della canzone che, forse per la prima volta dai tempi
dei Clash, vedeva un gruppo di punk rockers prendersi carico della volontà di
diffondere il verbo nella maniera più accessibile e al contempo potente possibile.
Quei Jawbreaker di Dear You, coraggiosi nei fini ma ineccepibili nei mezzi,
portavano in seno lo stesso messaggio dei Turnstile di stasera: finché
possiamo, cerchiamo di farci, l’un l’altro, soltanto del bene. L’ambiente del
punk, che più di tutto il resto ci insegna ad avanzare verso il bene, a non giudicare il
prossimo, non può al contempo essere il luogo di sfogo delle espressioni di
mascolinità bruta e violenta. Deve essere, anzi, un posto dove si possa condividere
la nostra anima, con le sue fragilità. Perché là fuori è un WILD WRLD, e
dobbiamo farci forza gli uni con gli altri.
“If you could save yourself, you could save us
all”.
Fête de la
Zikette (Margarita, Canines, Paratonnerre) – Ciao, Eroine!
Margarita live @Chair de Poule (Fête de la Zikette), 21/06/2024 |
Quando ci si trasferisce in Francia uno dei primi choc culturali è quello
di scoprire l’esistenza di festività completamente inaspettate di cui talune, a
prima vista, completamente prive di senso. Ad esempio, c’è una quantità di
eventi cattolici che in Italia non festeggiano nemmeno i baciapile e che qui
sono festivi. Nel paese più laicista di Europa, ascoltare frasi come: "Te
che fai per la Pentecoste?" oppure "Hai visto che l'Assunzione cade
di lunedì quest'anno?" è completamente disorientante. Mi ci è voluto un
po' di tempo per capire che in realtà anni e anni di lotte sindacali hanno
regalato al paese una grande quantità di giorni festivi e che i padroni, non
sapendo dove piazzarli, li hanno disposti in concomitanza di slot religiosi
strategici. Ci sono poi le feste dove si continua ad andare a scuola o al
lavoro ma durante le quali bisogna rispettare dei rituali precisi, di cui la
più buffa è la Chandeleur, in cui tutto il popolo francese all'ora di pranzo o
di cena si mette ai fornelli e comincia a impilare crêpes una sull'altra.
Perché? Non l'ho mai capito, ma perché no.
La Fête de la Musique non risponde a nessuna di queste due categorie, perché,
in realtà, l'ha inventata lo stato. Anzi più precisamente il ministero della
cultura, e non un mandato qualunque: quello di Jack Lang, personaggio
assolutamente dubbioso ma ancora istituzionalmente abilitato (forse, come per
tanti elementi della sua epoca, è meglio dimenticarsi delle petizioni sull'età
del consenso che ha firmato negli anni '70). Dal 1982, per sua iniziativa, la
giornata più lunga dell'anno è anche una celebrazione massiva della musica
tutta. Poco importa in che giorno della settimana caschi: nelle città francesi
si organizzano, spontaneamente o ad iniziativa degli enti locali, concerti e
DJ-set in ogni dove. Parigi, in particolare, diventa una giungla di suoni e,
dovunque uno si trovi, c’è sempre un evento musicale nel raggio di cento metri.
È possibile amare la musica e odiare la Festa della Musica? Assolutamente!
Io, personalmente, non la sopporto. O quantomeno non ne sopporto la sua
versione parigina (l’edizione di Sens in Borgogna carriata da Johnny Mafia per
esempio ha sempre line-up di un certo fascino, e a questo giro porta una
pontatina di peso come The Huile: sai mai che l’anno prossimo…).
Ecco i motivi della mia a(nti)patia:
1) L'ingiunzione a cazzeggiare. Il 99% dei parigini vedono la Fête in
questione come un’occasione per andare a sbevazzare a giro e vedere un po’
“quello che capita”. Fino a un certo punto posso anche apprezzare questa
pratica, magari a un festival, ad orari che richiedono improvvisazione. Ma qui
non siamo in un festival o in un qualsiasi altro luogo dotato di una linea
editoriale studiata da professionisti, e perciò quella che potrebbe/dovrebbe
essere una rassegna culturale diventa una fiera di paese. Mi dispiace ma per me
la musica è qualcosa di più serio di tutto ciò.
2) Banalità della proposta. Batucade, fanfare, artisti di strada, jam
session con musiche tradizionali di paesi più o meno lontani, DJ set di grandi
successi improvvisati alla cazzo di cane. Tutte cose che, beninteso, in certe
dosi e contesti rispetto anche. Ma qui siamo alla bulimia: ne spuntano da ogni
parte e vien quasi da pensare che la musica sia solo questo. Dove sono le band?
Nessuno suona il rock o il jazz? Cantanti pop ne abbiamo? Magari anche sì, ma
ovviamente in una strada fanno meno “spettacolo” o attirano meno pubblico delle
configurazioni sopracitate e restano perciò in nettissima minoranza.
3) Pressione sociale. Non ci bastava il Capodanno come festività in cui ti
senti addosso una peer pressure ingiustificata di divertirti ad ogni costo?
Evidentemente no: il governo francese ce ne ha piazzata un’altra proprio in
mezzo all’anno. E perciò, la domanda: “Che cosa fai a…?” non capita più ogni
dodici, ma ogni sei mesi. Quando la Fête de la Musique cade di martedì si può anche
decidere di soddisfare il sacrosanto bisogno di mettersi in letargo e scordare
il mondo. Ma a questo giro è di venerdì sera, e quindi tocca di nuovo mettere aspettative
su una serata di festa, quando sappiamo tutti benissimo che più si mettono
aspettative su una serata di festa, più ci si annoierà.
Per tutte queste ragioni ho deciso che quest’anno non mi farò uccellare. A me quello che piace fare nella vita è reperire un concerto, andarci e non schiodare, ed è quello che farò stasera. Senza sorpresa, di serate-concerto veramente interessanti, in Parigi città, non ce ne sono molte, e devo affinare le mie ricerche per trovarne una che mi soddisfi. Fortuna vuole che, quando scrissi a proposito di Mary Bell, mi capitò di scoprire un progetto che stavano mandando avanti alcune di loro, un collettivo dal nome “Salut les Zikettes!” (letteralmente: “Ciao, Musicistine!”, ma vi assicuro che suona meglio in francese). Il loro lavoro parte dalla triste conclusione che nella musica, specialmente nel punk rock, gli uomini non sono solo maggioritari in termini numerici ma anche socialmente legittimati a comportarsi (sopra come sotto al palco) con una tracotanza che finisce per demotivare, marginalizzare, e rendere ancor più minoritarie le donne. A fronte di questa riflessione una delle soluzioni che le “Zikettes” hanno trovato è quella di organizzare laboratori di musica non-misti che possano permettere alle musiciste di sentirsi a loro agio ed evolvere nel loro modo di suonare, comporre, o ancora esibirsi dal vivo. L’intento e le ragioni dell’organizzazione mi sono sempre parsi nobili e pieni di senso, e la proposta di apertura al pubblico generale di stasera mi incuriosisce oltremisura: forte ormai di una piccola scuderia di gruppi che aderiscono (o che sono nati grazie) al programma, Salut les Zikettes! ci porta una rassegna dal vivo con quattro band al bar Chair de Poule nell’undicesimo arrondissement. È bello sapere che il frutto del lavoro di anni si apre al pubblico. In più, mettici che c’è più di una band che mi interessa stasera e bingo, la Fête de la Musique è risolta. Fête de la Zikette, devo dire, suona anche meglio.
Anche allo Chair de Poule (anzi, allo Chair de Poule: sorpresona per chi cliccherà) era da un pezzo che volevo andare. Come Le Motel, anche questo barretto è uno dei (non moltissimi) spazi di Parigi ad essere “indie” in tutto e per tutto e per sua stessa volontà, un ricettacolo di musiche underground e di iniziative rock alternative le cui differenze col suo collega sono solo un decoro e un’atmosfera un po’ più scherzose e scassettate. Si trova, in ogni angolo del bar, memorabilia improbabile che ritrae la gallina (la “poule”) in varie pose: in modalità sovrano medievale sullo stendardo di un utopico Chairdepoulistan, o ancora dentro a un costume da rana mutaforme in una buffa parodia della copertina di Hi, How Are You? di Daniel Johnston. Sul muro c’è una lista delle canzoni vietate ai DJ-set, una sorta di reinterpretazione post-punk del celebre divieto di Wayne’s World. Ne ridiamo non poco con Paul, mio compagno di avventure per stasera (e, spero, per mille altre di queste serate indie-punk!) specie perché, tra una Blue Monday e “i grandi successi di Blondie”, spunta anche Damaged Goods, la prima cover che abbiamo suonato insieme e che, forse per influsso di queste forze di opposizione sotterranee, abbiamo stroncato quasi sul nascere.
La venue è quantomeno lisergica ma, forse per colpa di Jack Lang, non abbiamo
troppo modo di esplorarla in profondità: lo Chair de Poule è strapieno anche
perché, elefante nella stanza, è un luogo completamente inadatto ad accogliere
un concerto punk. Eppure, come ci insegna la teoria del ferro di cavallo del
DIY, esistono luoghi talmente inadatti a un concerto punk che finiscono per
essere perfetti per lo scopo. Sul palco ad altezza pubblico, davanti a una
calca educata ma pigiata fino in cima alle scale (sì, c’è un piano di sopra), si
preparano ad attaccare tutte le band della serata. E, anche se arriva un’eco di
house music dall’esterno (con Paul abbiamo mandato una partecipazione troll a
un concorso indetto da Tsha, e passeremo tutta la serata ad immaginarci a Ibiza),
l’atmosfera è perfetta: tutti bramano la scarica elettrica che venga ad
annullare il mondo esterno. E i più studiati (tra cui, modestamente, mi
annovero) fremono anche per la curiosità di nuove sorprese, visto che la metà dei
gruppi è ancora priva di pubblicazioni discografiche. La gente si accumula
piano piano davanti agli amplificatori, le facce amiche si moltiplicano. Si
comincia.
Il primo gruppo è un power trio inedito, Paratonnerre. Non so se la
bassista provenga da qualche band, ma la chitarrista-cantante suona con Mary
Bell e il batterista con MSS FRNCE e già solo questo basta per fare la battuta:
“Ah, ma è un supergroup!”. Quel che ci fa sorridere soddisfatti è che davvero,
un po’ come quando personalità già celebri del mondo della musica fanno nuovi
progetti insieme, si può udire un’alchimia degli stili dei loro luoghi di
provenienza. A volte non funziona, a volte spacca e, da appassionato di
entrambi i gruppi di origine, non appena assaporo il risultato finale della
miscela non posso fare a meno di godere oltremisura: la maniera di suonare l’hardcore
punk delle origini senza compromessi che rende MSS FRNCE un gruppo fantastico, unito
alla fotta riot grrrl cupa e abrasiva che ho amato in Mary Bell, risulta nel
suono di uno dei gruppi punk che più ci interessa di seguire. Il set dura poco
e spinge tanto: poche pause (giusto un rant politico), tanti colpi di rullante,
pochi ghirigori, tanti riff HC. Se parte un mosh-pit la band deve smettere di suonare,
visto che si trova veramente a un metro dalla prima fila. Per la ventina di minuti
che Paratonnerre suonano soprassediamo senza problemi, ma la loro musica adrenalinica,
potente e sovversiva ne fa venire una voglia sfrenata. Come ogni concerto
hardcore punk che si rispetti, il set finisce con gli occhi del pubblico strabuzzati
e il batterista che boccheggia. “Accidenti, che manata!”, è la sola frase che ci
sentiamo di dire, aspettando in gloria nuove notizie di questo nuova, sfiziosa band.
Il secondo gruppo, Canines, è da un po’ che voglio vederlo. Mi stuzzica
perché contiene membri di Prise Rapide, che i più attenti si ricorderanno in
opening act a Powerplant (nel mentre è uscito un LP di debutto di grandissima qualità).
In effetti le Zikettes, noteremo lungo tutta la serata, non sono esenti dal
suonare in svariati gruppi. In parte, il fenomeno dev’essere dovuto alla
naturale dinamica della domanda e l’offerta, che non tocca solo le donne ma tutte
le categorie numericamente inferiori, vedasi noi malaugurati batteristi,
richiesti oltre le nostre naturali capacità. Deve però anche influire, ipotizzo,
un certo senso di sorellanza che porta a creare nuovi progetti, tutti diversi e
mai solo “side”, inserendo nelle rotazioni le artiste/amiche del circolo.
Stasera più di una musicista si ritroverà a fare un set doppio, o a partecipare
brevemente ai set altrui, ed è un fattore che mette ancora più in evidenza il
senso ultimo della serata. Canines sono in cinque, e precisamente non so cosa
facciano: Paul le ha viste e mi ha detto soltanto che sono “molto emo”, che per
me sono punti in più per andare a vederle. Due chitarre e una cantante senza
strumento promettono sempre belle cose: texture armoniche, stage presence potente,
et cetera. E le promesse vengono rispettate: fin dalla prima nota, quello delle
Canines è un post-hardcore (con in effetti un suo lato emozionale) trascinante
al massimo. Le dissonanze ben studiate e le ritmiche ostinate possono ricordare
band come Unwound o Jawbox, ma l’aggiunta di uno spesso strato di rabbia
femminista rende il sound molto più potente che straniante. La responsabile principale
di questa componente politico-estetica impetuosa, da digrignio di denti (i
canini, per l’appunto), è proprio la cantante: una presenza ipnotica a volte furiosa
a volte rapita in riflessioni dolorose che, con la sola espressione del volto e
la maniera di cantare, sanno torcerti le budella. La prima metà del concerto è
abbastanza dritta al punto: ottime canzoni, una dietro l’altra, su tanti
registri diversi ma con una bella coerenza. Le seconda metà, invece, è lancinante
e poetica, piena di trovate originali e poco convenzionali: un monologo in spoken-word
sull’oppressione delle donne da pugno allo stomaco, una canzone in galiziano,
sezioni strumentali molto più meditabonde. Persino la giusta e rituale arringa elettorale
è molto più profonda di quelle che ho sentito negli ultimi tempi: la frontwoman,
spagnola, ha un pensiero anche per noi stranieri residenti in Francia che non
possiamo votare. Grazie di cuore.
Il concerto finisce e mi spello le mani per gli applausi: magari il contesto dive bar “plus plus” non è il più congeniale a carpire tutta la mole di significato che Canines trasmettono, ma la loro urgenza e la loro profondità, almeno quelle, arrivano eccome. E, non per fare giochi di parole col nome del bar, mi è venuta la pelle d’oca. Ancora una band senza pubblicazioni che ci ha rivoltati come un calzino: le Zikettes, oltre che starci regalando spettacolo, sembrano destinate a grandi cose (o almeno, è quello che meriterebbero). La serata è scaldata, la gente sempre più numerosa. Fanno tappa allo Chair de Poule anche dei miei amici, a cui, in fila per la birra, vendo una serata di punk rock abbastanza accessibile, dopotutto. Per quanto potenti, i gruppi passati finora non li definirei propriamente estremi e l’ambiente, conviviale ma concentrato, si presta a far esplorare ai neofiti il mondo punk nelle sue regioni più salubri. Ma ovviamente parlo troppo presto perché le Zikettes non mancano di sorprese e il prossimo gruppo, Margarita, che dal nome immaginavo come una band frizzantina (magari un synth-punk, o qualcosa di un po’ più pop?), è in realtà un gruppo doom metal.
Parte la prima nota e i vetri recitano le loro ultime preghiere: una delle
due chitarriste delle Canines, nella pausa fra i due set, si è trasformata in
una strega del rumore e la sua distorsione ultra-violenta fa letteralmente paura.
I miei compari, appassionati di gruppi tipo Parcels o L’Impératrice, salutano intimiditi
e continuano altrove i loro vagabondaggi, convinti sempre di più del fatto che
mi manca qualche rotella. Io, qualche fila più indietro rispetto a prima (ma va
bene così), sono esterrefatto e felice, mi riempio di frequenze basse terrificanti,
alzo le corna e i pugni al cielo. E non mi fomento soltanto perché i volumi
sono forti, ma anche perché le canzoni, sulfuree e non prive di sottotesti
depressivi, non hanno nulla da invidiare a gruppi
stoner più blasonati in termini di “riff filled land”. E la musica delle
Margarita non è nemmeno troppo revivalista, ma presenta un approccio noisettaro,
abbondante nel feedback, che rende il tutto originale, sorprendente, un po’
angosciante e soprattutto pericoloso. Il set è caotico: il trio, a un certo
punto, rompe qualcosa, non si sa bene cosa. Nessuno dice nulla: cinque minuti
di silenzio e di aggeggiare su valvole e ampli e cavi e chitarre. E poi tornano
a un volume ancora più alto. C’è dell’attitudine. E, non mi stanco di
ripeterlo, c’è anche un grande sound che mi ricorda, se proprio devo scegliere
un gruppo, Boris: sia nei momenti più da jam-band alla Last Feedbacker (l’outro
fenomenale di Hot Wheels, per esempio), sia in momenti più adiacenti al
rock’n’roll come nel vecchio Heavy Rocks (Nose to Tail, pezzone tellurico),
Margarita mi dà sensazioni simili a quelle della band di culto giapponese. Detto
ciò, queste similitudini che intendo solo come un complimento lasciano il tempo
che trovano: le Margarita hanno personalità in abbondanza e, con un solo EP all’attivo
(il S/T del 2023 è fenomenale, recuperatelo), hanno già trovato la loro strada
precisa: una strada fatta di lentezza, suoni grezzi e granitici, con atmosfere
che coniugano cupezza e disperazione a un puro edonismo della distorsione. Che
scoperta.
La serata non è finita, resta un ultimo gruppo. Purtroppo, però, non mi è
piaciuto per niente. Come già enunciato in queste sedi, non serve a niente che
io mi dilunghi su quello che non apprezzo di band che sono ancora assai underground
(AKA, sempre e comunque, la nostra gente). Anche se fossero critiche costruttive,
una recensione negativa di un gruppo emergente resta un esercizio controproducente.
Detto ciò, non c’è nemmeno bisogno di censurare i nomi, e non c’è vergogna: il
gruppo si chiama Aqua Tofana, è un trio post-punk, se vi interessa hanno anche un
EP e il loro set (che, da buoni completisti del cazzo quali siamo ci siamo comunque
visti dall’inizio alla fine) non ci ha ispirato molte parole che meritino di
essere ritrascritte se non una delle mie classiche battutacce da concerto che,
me lo accordo, fa molto ridere: “Hai presente Wire? Ecco, loro sono Rope”. Scusate.
Due parole prima di concludere: ma che serata spettacolare è stata?
Riposando le gambe al piano di sopra (AKA il ristoro dell’anima) io e Paul
facciamo il bilancio di una Fête da brividi e riflettiamo sul fatto che Salut les
Zikettes! sta dispensando benessere a destra e a manca. Già per noi due, che
non abbiamo bisogno dei servizi dell’associazione, avere una serata gratuita in
un posto così ganzo e con gruppi di questo livello è un regalo immenso. Ma per
le donne che grazie ad essa hanno trovato le loro compagne di musica, la loro
sala prove, la loro maniera di comporre e suonare, e tutto questo, per una
volta, senza dover sottostare a logiche patriarcali ancora troppo, troppo
presenti dal momento in cui una donna decide di voler fare musica… Beh, per
loro trovare la loro platea, il loro impianto, il loro palco, dev’essere semplicemente
una soddisfazione incommensurabile. Ce n’è di bisogno, nella musica di oggi, di
iniziative del genere, che rendano chiunque sia vittima di oppressione capace
di accedere, creare, migliorarsi, condividere. Senza ostacoli. Sono queste le
iniziative che danno valore aggiunto all’underground di una città, di un paese,
del mondo.
Da semplice consumatore, ad oggi, mi scopro grande fan delle Zikettes. Hanno
fatto prova di grande organizzazione, perché nonostante lo spazio inadatto si sentiva
tutto benissimo, e hanno portato grande musica, tanti stili diversi e canzoni
originali suonate da dio. Sono davvero delle ottime Musicistine. Ma davanti a
quello che c’è dietro a tutto ciò, davanti al progetto politico e alle azioni
splendide che le Zikettes si sforzano di realizzare per le donne, per la
musica, per la società, non posso che inchinarmi.
Sono davvero delle Eroine.
Yorick Vinesse
– Una stella
Yorick Vinesse live @La Connétable, Parigi, 22/06/2024 |
È forse per questo motivo che, ogni volta che vado a vedere artisti che
conosco personalmente, sento sempre il bisogno di precisare che li conosco
personalmente. Non lo faccio né per fregiarmene, né tantomeno perché nel
contesto è importante da specificare, ma perché se non lo faccio ho il terrore
che poi mi si dica che ho fatto un live report positivo solo perché a suonare
c'è una persona che ho voglia di sostenere per ragioni indipendenti dalla
qualità della sua musica. Che colpe ho io, però, se il mio più vecchio amico
d'infanzia suona nel migliore gruppo ska-punk italiano, o se il mio fidato
bassista suona in uno dei gruppi di funk-jazz alternativo più interessanti
della città?
E che colpa ho io se, ad aprile, per puro caso ho conosciuto Yorick
Vinesse? Se uno vuole, Yorick è soltanto un amico di amici, ma le congiunture
del nostro incontro sono comunque buffe ed aleatorie: un biglietto per un concerto
di Adrianne Lenker a cui non posso andare, un chitarrista, una lezione di musica,
un sold-out, una rosicata, ed ecco che in un baleno mi ritrovo a scambiare messaggi
con questo ragazzo il cui nome e viso sono i più bretoni che io abbia mai visto.
Lo incrocio un paio di volte, in particolare quando viene a vedere il mio
gruppo pop suonare uno showcase messo su alla bell’e meglio, e mi rimane
simpatico fin da subito: è sorridente, scherzoso, gentilissimo e mi dà l’idea
di essere una persona molto alla mano. Quando un giorno mi arriva un suo messaggio
inaspettato in cui mi invita ad andare al suo concerto, nella cantina di un
bistrò del Marais, non ci penso su un attimo: certo, volentieri!
Che Yorick Vinesse suonasse e cantasse lo sapevo fin da prima di conoscerlo.
Ero nel Nord con il gruppo a bermi un aperitivo (al laghetto di Amfroipret,
consiglio) quando Quentin, il nostro amico in comune, accende Bandcamp e mette
su una canzone. “Che cos’è, Aznavour?”, gli faccio. “No, è il mio amico Yorick,
quello del concerto di Adrianne Lenker. Bravo eh?” “Accidenti, sembra uscito
direttamente dagli anni ’50, incredibile”, rispondo un po’ distrattamente mentre
guardo le anatre. Il cantautorato non è mai stata la mia passione profonda e se
questo eufemismo si può usare per quello italiano, figurarsi per quello
francese! In realtà però capitano, ogni morte di papa, epifanie eccezionali: mi è già successo di mettere per caso le mani su un album di un cantautore da ascoltare così, un po’ per svago un po’
per cultura generale, e sbadabam, accorgermi di essere caduto dentro al pozzo
del suo universo lirico e sonoro una volta che ho già lasciato sfilare via la
corda. In particolare, è quello che mi è accaduto con Non Al Denaro, Non All’Amore, Né Al
Cielo (1971) di Fabrizio De André: un disco perfetto, immortale, dove ogni parola
risuona come un colpo di gong sull’anima. Ma sono casi eccezionali e rari come
le apparizioni dei fantasmi: anche se una volta ne hai visto uno, e da allora credi
nella loro esistenza, non è qualcosa che vai a ricercare. Potrebbe ricapitare
di vedere un fantasma, chissà quando, e allora sarai pronto, ma il resto del tempo non ci
pensi.
Il concerto di Yorick si avvicina e non mi degno nemmeno di riascoltare i suoi
pezzi: se Quentin dice che è bravo è bravo per forza, quindi di per sé è sicuro
che non sarà un concerto brutto: nel peggiore dei casi mi annoierò, e non è così
grave. Margherita, la mia vicina di casa per tutta l’adolescenza fiorentina, ha
previsto di passare per Parigi proprio per il weekend in cui suona Yorick. Sono
molto contento perché è una bellissima persona, e anche se abbiamo preso strade diverse è proprio il genere di amicizia per la quale sentivo il bisogno di una
rinfrescata, un riavvicinamento, il ricordarci di nuovo che, nonostante le
nostre routine un po’ matte, facciamo anche solo un po’ parte della vita dell’uno
e dell’altra. Cos’abbia voglia di fare Marghe quando va in vacanza non lo so: l’unico
viaggio che abbiamo fatto insieme è stata una vecchia gita scolastica in Grecia
in quarta liceo, in cui per giunta dormimmo qualcosa come tre ore in cinque
giorni. Perciò, da anfitrione stressato quale sono, un po’ mi impanico: “Guarda,
dovrebbe essere un bel posto, se ti va andiamo, ma sennò facciamo altro eh, se
vuoi fare del turismo, non lo so…” “Cosimo, ma sei scemo? Un concerto di chanson
française nel Marais? Vengo subito!”. Non so se avrebbe reagito uguale per del
garage punk a Montreuil, ma amo pensare di sì. Ti voglio bene, amica.
La giornata è stata piena di belle cose, dal nostro devastante brunch (il
miglior croque-monsieur della città si mangia a casa mia, parola), passando per
tre ore di bagno nell’arte del Musée d’Orsay (è come ascoltare il drone metal: magari
non troppo spesso, ma ogni sei mesi ci vuole), fino al cenino improvvisato a pane
e formaggio sulla punta dell’Île de la Cité (non ci vengo mai da queste parti;
che bellezza però). Soprattutto, tante chiacchiere: ne avevamo, di cose da
dirci. È l’ora giusta per staccare e, alle 20 e qualcosa, arriviamo a Le Connétable.
Il posto mi mette subito simpatia: è veramente il prototipo del bistrò
artistoide e un po’ boemo, tappezzato di poster un po’ retrò (compresi quelli
dei giorni nostri) e popolato da gente sparuta che dà del tu ai camerieri,
vecchiette che bevono vino o digestivi e raccontano la loro vita a chi sta
dietro al bancone, avventori che hanno tutti una certa età e quell’aspetto stravagante
che genera automaticamente una domanda per l’immaginazione: che vita fa, questa
persona? Per me che mi aspettavo un posto fighettino, è una bella sorpresa.
Yorick è tutto sorrisi, sinceramente contento di vedermi e di conoscere Margherita.
La ringrazia già di tutto cuore per le foto che lei farà, con la sua nuova reflex,
la mette a suo agio in questa serata in cui è l’unica che non parla una parola
di francese. L’accoglienza è amabile, la cantina sotto al locale suggestiva come
solo una cantina parigina a forma d’arco sa essere, e non potremmo chiedere di
meglio. A suonare per primo, stasera, c’è un ragazzo di nome DESiRE LH, e se
andate a cercare la sua musica troverete un EP di jazz contemporaneo niente
male, ma in realtà stasera questo virtuoso del sax viene a suonare alcune canzoni
che ha scritto e concepito per essere suonate da un cantante solista. Io e la
mia amica, nella saletta che conterrà sì e no 30 seggiole, ci mettiamo un po’
defilati. Forse è perché, nella mia frequente paura di sentirmi ingombrante, ho
un po’ la sensazione autoindotta di essere l’unico conoscente in una sala piena
di amici. LH si siede su uno sgabello e fa un paio di battute. Poi il silenzio.
Le corde pizzicate della chitarra riempiono bene l’aria, in questo piccolo
spazio che in qualche modo riesce ad essere il contrario di angusto e, non appena
comincia a cantare melodie in inglese che urlano indie pop ai quattro venti,
con lunghe note di Yorke-iana memoria, mi sento al posto giusto. Il jazzman in
incognito propone, uno dietro l’altro, pezzi di un rock alternativo travestito
da folk ben congegnati, spesso e volentieri intensi ed ariosi, che suonano bene
in questo formato ma sui quali immaginerei anche un’intera band. È anche molto
buffo: più volte racconta di aver imparato a suonare la chitarra o il piano
qualche giorno prima, o di aver scritto questa o quella canzone il pomeriggio stesso.
Ci crediamo fino a un certo punto, perché anche se in effetti non tutto quello
che suona ha l’aspetto di una versione finale, la precisione e la musicalità di
ogni istante sono ineccepibili, qualsiasi sia il registro che DESiRE propone,
che si tratti di esplorazioni botaniche contemplative o di colonne sonore da
giornata piovosa tristanzuola.
Il primo set è stato simpatico ed è passato in un batter d’occhio. Io e la
mia amica, che abbiamo entrambi nella musica i nostri epicentri e i nostri
orizzonti, seppur molto diversi, concordiamo sul fatto che non è stato niente
di strabiliante ma che ci ha comunque trasportati in un’atmosfera familiare e rassicurante,
che non è poco. Al punto che, dopo la rituale sigaretta dell’intermezzo, dico a
Marghe: “Ma se ci mettessimo in prima fila? Chi se ne frega, no?” “Va bene,
così faccio due foto al tuo amico”, mi risponde ignorando che io Yorick l’ho
visto due volte in vita mia. Ma, di nuovo, chi se ne frega: per il secondo set,
perciò, siamo a tu per tu con lui che, lievemente nervoso con la chitarra
in braccio, si gratta la testa guardando se ci sono tutti. È l’ineluttabile momento
di cominciare a suonare e, nella luce soffusa, Vinesse annuncia che la prima
canzone parla dell’infanzia. Cartable (“cartellina”, tipo quella di educazione tecnica),
si chiama. Cominciano i primi arpeggi ed arrivano, in un francese dalla dizione
encomiabile, le prime immagini. La voce che le racconta è ultraterrena al punto
che, anche se elementari e medie le ho fatte a Firenze, mi proietto in una
scuola inesistente della provincia francese. Ogni rima colpisce e trasporta, i dettagli
diventano generalità e tornano dettagli nel valzer delle parole giuste dette
nella maniera giusta al momento giusto: le lattine di Oasis, Ahmed e Melissa
che non guardano la macchina fotografica per la foto di classe e poi, passano gli
anni, sentirsi traditi per una ragazzina che si addormenta sulla spalla di un
compagno sul pullman della gita… È tutto così vero, così sensato, che a metà
della canzone mi giro verso Margherita con gli occhi sbarrati e, nel riflesso
dei suoi occhi, mi vedo già in fondo al pozzo con lo sguardo puntato verso la
corda che penzola a venti metri sopra alla mia testa. “Ma è pazzesco!”, le
dico. “Non capisco una sega”, risponde con la sua consona delicatezza, “però sì”.
Di quello che succede da quel momento in poi cosa posso dire? Non è facile
per niente, raccontare un’epifania. Di certo, per la prima volta nella mia vita
sono completamente assorto nella chanson française, che per anni ho definito “l’unico
genere che non mi interessa” (che cafone che sono a volte). E a differenza dell’episodio
De André, le parole mi colpiscono non tanto per la loro spettacolarità
immaginifica e le morali filosoficamente complesse, bensì per l’esatto
contrario: l’universo narrativo è di un’immediatezza realistica che ti penetra
nel cervello, talmente rievoca ricordi nitidi e al contempo, quando dispensa morali,
sono sempre di quella semplicità che ti stupisce e ti fa dire: in effetti è così
vero, perché non l’ha mai detto nessuno?
Yorick Vinesse non ha pubblicato nessun album: ha due demo su Bandcamp (“E se
le ascoltate troppo poi vi obbliga a pagare, no?”) e due registrazioni su
Instagram (“Di cui una ha avuto molto successo, ha tipo quaranta like”). Ve le
racconto e ve le linko, perché sono pubbliche. Ma, anche se forse sto
spoilerando un futuro disco di enorme successo, mi permetto di raccontare anche
qualche inedito. Perché Yorick Vinesse è un cantautore nato e quello che conta
più di tutto il resto sono le canzoni. C’è Soir de Juin, uno dei più bei
brani sull’amicizia che io abbia mai sentito, una splendida ballata su quanto, nei
momenti di difficoltà dei nostri compari più fidati, non ci sia niente di più
facile ed efficace che portarli a vagabondare per svagarli e scordare i
dispiaceri. C’è La Tristesse, un crescendo che racconta lo spettro delle
tristezze della vita, che va da una sbronza di troppo al pensiero dei potenti
della terra che con un ordine condannano a morte intere popolazioni. C’è una
canzone dedicata a Mousse, senzatetto della Gare du Nord che forse, in fondo in
fondo, ha capito qualcosa della vita in più di noi. C’è una canzone su un
bistrò (“Perché quando si fa della chanson française bisogna fare delle canzoni
sui bistrò”) che proietta nella mia mentre mille diapositive dei miei pasti in città di
provincia a spese dell’azienda di cui, una su tutte, una descrizione del viso delle cameriere
forti che sopportano i commenti inopportuni dei clienti. C’è Rond de Serviette, la
mia preferita: una “circle composition” su quei pranzi dai nonni sempre più
rari, che comincia tenera (“Siccome siamo in tre, nonna ha cucinato per trenta”), diventa
un po’ preoccupante (“Chissà se ancora votano, probabilmente votano secondo l’aspetto
fisico”), poi lacerante (quel che fa male è il non capire la vita che fanno,
che hanno fatto: “Potrei volergliene, ma non capirebbero perché”), di nuovo
preoccupante (“E purtroppo credono alle bugie più grossolane dei giornali”),
per finire in tenerezza (“Ti saluta mio padre, gli dico mentre me ne vado con
lo stomaco strapieno e due settimane di arrosto nello zaino”). C’è Petite Fille, una canzone luttuosa dedicata a un’amica morta quando era ancora
bambina, talmente dolce che potrebbe far piangere l’uomo più cinico del mondo. C’è
una canzone dai sottotesti country che parla di un ritiro spirituale in
montagna e in solitaria, “solo io e il mio banjo”, un rarissimo e memorabile omaggio
alla bellezza della solitudine.
Insomma, ci sono un sacco di canzoni stupende, che ti restano impresse
nella mente, che avresti voglia di riascoltare a nastro (e attualmente non si
può: da allora, quelle senza link non le ho più sentite). E poi c’è Yorick Vinesse.
Eh sì, perché la persona che le ha scritte, queste canzoni, ha una voce che trattando
di temi così moderni, con un’inflessione da folklore francese tradizionale, sconvolge.
Perché il suo modo di suonare piano e chitarra, oltre ad essere pulitissimo e
cristallino, sa anche stupire con note blu inaspettate nei momenti giusti. Perché il
ragazzo, quando si rapporta al pubblico, è adorabile e anche perché, mentre
suona, mi arriva qualche sguardo di quell’azzurro bretone che un po’ mi
scombussola (è secondario, ma va detto: oltre che bravo, questo cantante è
anche molto bello). Insomma, Yorick Vinesse è semplicemente una stella.
Usciamo dalla sala, che per il calore dell’emozione umana si era scaldata
oltremisura, con qualche goccia di sudore sulla fronte. Il tempo di rinfrescarci, nel
crepuscolo del secondo arrondissement, e io già mi sento addosso una certa fretta
di andarmene. Non è perché non conosco nessuno (e Margherita, socievole com’è, ce
li troverebbe facilmente due o tre amici per la serata). Non è per stanchezza (vorrei
semmai andare a sbevazzare, e nel Connétable ce n’è in abbondanza). Non è nemmeno
perché in teoria avrei un appuntamento al Motel con Paul, Théo e Maxime (potrebbero
starsene anche per conto loro e se la passerebbero bene lo stesso).
No. In realtà voglio andarmene al Motel in fretta perché mi sento addosso
un inaspettato moto di timidezza. Tra qualche istante Yorick Vinesse verrà
verso di me con un gran sorriso e qualcosa gli dovrò pur dire. Ma che cosa gli
dico? “Yorick, sei al corrente del fatto che se metti insieme queste canzoni in
un album hai già tra le mani un capolavoro generazionale?”; “Yorick, non
pensavo che il momento in cui un concerto di chanson française mi entra nell’anima
sarebbe mai arrivato: è come un’epifania”; “Yorick, hai tutto quello che serve
per essere uno dei più grandi, un’icona, ed è un onore conoscerti”. No via, non
si può.
Il fatidico momento arriva, Yorick mi si avvicina con un gran sorriso e mi ringrazia
per essere venuto, dal profondo del cuore, con lo sguardo più sincero
possibile. A quel punto vado un po’ in tilt, non so troppo cosa fare, bofonchio
qualcosa tipo “ma di che mi ringrazi”, gli dico che il concerto è stato “wow” o
un’altra cazzata del genere, parliamo un attimo dei suoi vaghi progetti di
registrare qualcosa e poi io e Marghe leviamo le tende senza colpo ferire. Io
di solito con gli artisti con cui parlo, specie se già li conosco, so
intavolare bene una conversazione e sono tutto tranne che impacciato. È, forse,
una delle qualità di cui sono più fiero. E invece stasera, col più amichevole
di tutti, mi sono mancate le parole giuste. Forse è davvero la paura di essere preso per un marchettaro che, senza avvisare, è tornata ad angosciarmi. O
forse semplicemente è il fatto che, quando raggiungi una stella, finisci
accecato.
“Allora, eravate
a un concerto? Di cosa?”
“Pensa, chanson française. Un amico di Quentin, il chitarrista.”
“Te, la chanson française?”
“Théo, devo ammetterti una cosa: è tipo uno dei concerti che mi hanno cambiato
la vita.”
“Ah sì?”
“Eh, sì! Questo qui canta come un dio ma soprattutto ha scritto dei testi incredibili,
realistici, commoventi… Cioè, questo per me tra due anni fa piangere un intero Zénith.”
“Come si chiama?”
“Yorick Vinesse.”
“Non lo conosco.”
“Certo che non lo conosci, ha fatto solo due demo.”
“Quindi mi stai dicendo che avresti scovato il prossimo eroe della chanson française?”
“Eh… sì. Mio malgrado, sì. Ma cioè, questo è un talento in purezza. Tipo, il
prossimo Brassens, il prossimo Léo Ferré, una roba del genere.”
Guardiamo il
bancone, beviamo un sorso di birra.
“Lo sai, vero,
che saresti un ottimo addetto stampa?”
“Non lo so, Théo, io vendo pale eoliche”.