Pogo Car Crash Control live @Supersonic, Parigi, 31/01/2024 |
È da più di 4 mesi che scrivo su questo blog abbastanza regolarmente e
ancora non ho avuto l'occasione di toccare l'argomento come si deve. I miei
quaranta lettori (di manzoniana memoria) devono averlo capito che si tratta forse
del mio genere preferito, visti i continui e irritanti riferimenti al mio
tatuaggio dei Descendents. È proprio così: la musica hardcore punk non poteva
non incarnare il punto più puro del mio gusto musicale, per me che amo le
sensazioni forti, le composizioni immediate, i sentimenti crudi, i testi
coraggiosi, la celebrazione della velocità e della potenza, i suoni rustici.
Che sia negli ascolti entusiasmanti di album tutti così diversi ma sempre così intensi,
oppure nell’oblio dei mosh-pit sotto a palchi popolati da musicisti in cui mi
rivedo sempre un po’, l’hardcore punk avrà sempre la capacità di emozionarmi
come poca altra musica sa fare e avrà sempre un posto speciale nel mio cuore. Eppure,
lo ammetto, negli ultimi tempi ho avuto sempre meno voglia di andare a dei
concerti HC puri e duri.
Forse è complice una delle mie ultime avventure musicali. Per l’ultimo
annetto della mia vita parigina ho ricominciato a suonare in dei gruppi
musicali. Le mie velleità da batterista, purtroppo, erano state sopite per
tanto tempo: dopo gli ultimi spumeggianti anni del liceo, dopo qualche
memorabile data a livello locale con un gruppo alternative rock e a livello
nazionale con un gruppo speed metal, andare a fare l’università in una cittadina
francese ha purtroppo interrotto le mie inerzie di musicante. Per due anni ho comunque
rivestito un po’ il ruolo di batterista ufficiale del piccolo campus,
accettando praticamente tutti i “gig” che richiedessero la presenza di un po’
di tamburame: perlopiù le innumerevoli e col senno di poi fastidiosissime giornate/serate
a tema dell’associazione artistica (l’unica performance che ricordo con estremo
piacere è quella prima della festa “Tropicalia”, in cui suonai Ando Meio Desligado di Os Mutantes e feci talmente tanto casino che alla fine del
pezzo scagliai a terra due aste dei piatti). Da lì in poi, quasi il nulla
assoluto. Il mio breve periodo di vita nel Midwest americano stava prendendo
una piega interessante con qualche jam math-emo promettente ma il coronavirus
interruppe anche quella piccola, onirica, suggestione.
Quando la vita impiegatizia è diventata realtà, però, lo slancio è
ripartito e con Théo, conosciuto attorno a un concerto di cover punk rock di
Joe Dassin (Joe & The Dassinettes, chi c’era sa), ho finalmente coronato il
mio più vecchio sogno: formare un gruppo hardcore punk. La vita era facile
allora: assieme al bassista Maxime, l’uomo più dolce del mondo, avevamo un trio
forse un po’ inconcludente ma le cui sessioni, piene di cover disparate di
grandi classici di ogni epoca, erano un balsamo per l’anima. Su di noi
incombeva tuttavia una nuvola scura. Se i primi mesi di sala prove avevano la
leggerezza del prenderci la mano (Getting in Tune), il passaggio al
rituale compositivo mi fece cominciare a vacillare. Sentivo parlare di
breakdown, di drop D, di two-step e di altre cose che o non avevo mai nemmeno
sentito nominare o avevo accantonato in uno scompartimento della mente di nome:
“Quelle cose che vengono chiamate hardcore punk ma che non hanno niente a che
vedere con i miei gusti”.
Giusto a titolo esplicativo, una lista di cose che appartengono a quella categoria:
- Quell’Oi! quasi sempre di estrema sinistra e talvolta di estrema destra che gli antagonisti italiani chiamano “punk hardcore”; fateci caso, a questi concerti hanno sempre tutti le braccia tese.
- Tutti i filoni contemporanei che per partito preso da ex-metallaro definisco “metalcore” o “core” (“no core, no mosh, no fun”, dicevano i Mayhem), contenenti uno o più dei seguenti: doppio pedale, chitarre da più di sei corde (o accordate strane), batteristi che usano il china sui quarti per dare il tempo; fateci caso, a questi concerti la gente non sa pogare senza fare del male agli altri.
Purtroppo, viene fuori che i ragazzi apprezzano abbastanza quest'ultimo
filone, e infatti lo infiltrano sempre di più nei nostri inediti. Io, pur
dubbioso, continuo a divertirmi: del resto mica devo ascoltarla, la musica che suono.
Due eventi concertistici, però, mi portano a farmi due domande. Il primo è il concerto degli Zulu e degli Speed nel giugno del 2023 al Glazart di Parigi. Maxime e Théo mi ci trascinano senza raccontarmene più di tanto e mi trovo davanti scene abbastanza stupefacenti: da ogni parte vedo mulinelli di mani serrate e calci volanti (il cosiddetto crowdkilling), e con loro un costante pericolo di prendere pugni sul viso. Non seppi come reagire davanti a tutte quelle persone (anzi no, a tutti quegli uomini) indemoniati e spaventosi che talvolta non sembravano nemmeno starsi divertendo ma solo presi da una foga malvagia. I set dei due gruppi, detto ciò, mi piacquero: gli Zulu li trovai molto toccanti nella loro maniera estrema di trasmettere il messaggio della lotta per l’emancipazione dei neri americani e gli Speed furono talmente veloci (beh), potenti e carismatici che il timbro del famoso “Forget Who We Are sound” non potei esimermi dall’apporglielo. In compenso, un primo germe mi si era insediato nella testa: ma che cazzo gli prende a sta gente nel mosh-pit?, è violenza gratuita?, è machismo?, e tutta un’altra serie di quesiti senza facile risposta.
Le sessioni di composizione si facevano sempre più frustranti e mi sembrava
sempre di più che le canzoni che scrivevamo con crescente naturalezza altro non
erano che accumulazioni sempre diverse della triade breakdown/twostep/tupatupa,
legate tra loro magari con un filo di criterio ma senza grande emozione. Per
schiarirmi le idee decido di andare all’Xtreme Fest nel Sud della Francia a
vedere i Descendents, ma purtroppo Milo ha un infarto tre giorni prima del
concerto. Finisco a farmi una giornata di concerti quasi a scatola chiusa ma
siccome è l’ultimo giorno dell’edizione, è presto e sono da solo (volevo godermi la spiaggetta, un lago artificiale dentro a un cratere profondissimo
scavato da anni di miniere di ferro), chiedo un po’ a giro come funziona. Un
tizio mi dice: “In sostanza ci sono due zone, una per il punk e una per
l’hardcore”. La frase mi stordisce: ma come, non sono la stessa cosa? Finisce
che scoprirò che in certo slang popolare francese, “l’hardcore” altro non è che
‘sta cazzo di musica dalla brutalità così prevedibile e dalla ritualistica così
rissosa. Oh, io ci provo anche a godermi roba tipo Walls of Jericho e Scowl, ma
cazzo se mi dà fastidio questo songwriting di mera demolizione e inutilmente
intricato. Non ci posso fare granché, perciò mi consolo con dello skate punk di
qualità (Snuff, Good Riddance, Cigar… ci fu comunque di che godere) e mi decido
che, una volta suonato il nostro primo concerto, dirò ai miei due compagni di
vita: “Mi dispiace, non siete voi, sono io”.
È finita nel migliore e peggiore dei modi allo stesso tempo. La ricerca di
un cantante ci ha portati a essere cooptati da un giovane deftonaro strapieno
di materiale pre-esistente, e alla fine suonare un concerto nu-metal in
cui di HC (in tutti i sensi) c’era poco o nulla. Dopo un disbanding quasi
silenzioso l’”OG Trio” è comunque rimasto un nucleo di amicizia solido, forse
anche un saltuario side-project. La fine dei nostri progetti compositivi comuni
ha anche spianato le nostre piccole divergenze musicali e abbiamo riscoperto la
moltiplicità dei nostri comuni denominatori: non solo l’hardcore punk americano
degli anni ’80, ma anche il pop-punk in purezza, il più spinto tra il garage
rock odierno, il beatdown HC nelle sue manifestazioni meno “core” e le frange del
metal anni ‘90 che invece osarono incorporare quest’elemento. Ci sono, perciò,
gruppi locali e non, moderni e non, che ci accomuneranno per sempre. In ordine
sparso: Minor Threat, MSS FRNCE, Blink-182, Pantera, Turnstile, Johnny Mafia, Sepultura,
Soul Glo, Johnnie Carwash, gli stessi Descendents.
Ma l’hardcore punk, chi lo ama, sa che non è soltanto qualcosa che si
commemora. L’hardcore punk, anzitutto, lo si vive. E perciò, c’è un gruppo che
più di tutti rimarrà di culto per noi. Cosa sarebbe l’hardcore punk senza le
“local bands”? Probabilmente nulla. E il gruppo per eccellenza della regione di
Parigi, la band che col suo sound riesce a metterci tutti d’accordo, possono
essere solo loro, gli unici e inimitabili Pogo Car Crash Control.
***
Ho scoperto Pogo Car Crash Control (o PCCC, o P3C; viva le sigle nell’HC!)
nel lontano 2021. Ad essere onesto, sono quasi sicuro di essere stato al
corrente della loro esistenza anche un po’ prima. Ho già parlato della mia
amica Sophie, che viene (ed è fiera di venire) dal dipartimento 77, la
Seine-et-Marne, il più rurale dei distretti che circondano Parigi. Il povero
77, terra di cereali e di piccoli capolavori medievali, la cui immagine è stata
infangata anni or sono dalla Walt Disney Company. Il povero 77, popolato da
gente onesta che a Parigi avrà sempre la stimmate di vivere in culo ai lupi.
Il 77 non sarà Manchester, ok, ma ha anche lui il suo orgoglio musicale: la
Ferme Electrique, per esempio, è uno dei più bei festival della regione e ogni
anno anticipa i successi futuri e celebra quelli passati. E, tra i (non
tantissimi) artisti che rendono fiera la Seine-et-Marne, Sophie mi cita fin
dagli anni dell’università Pogo Car Crash Control, che fanno “hardcore punk
moderno, ma ti giuro, ganzissimo”. Non le faccio un granché caso. Sarà che,
forse per colpa del nome un po’ kitsch, me li raffiguro per anni come una
piccola gimmick-band della zona che suona alle serate dei liceali per fargli
provare il brivido dei primi, timidi e teneri mosh-pit (immaginatevi la scena
della festa de Il Tempo delle Mele ma con una band che suona Tornado of Souls dei Megadeth in sottofondo).
Flash-forward a ottobre 2021. Una pandemia mondiale ci ha privati del
calore della folla ammucchiata per veramente troppo tempo, la variante omicron
fa ancora paura ma sembrerebbe che ce la stiamo levando dalle palle. Ai
concerti si scannerizza ancora un QR code vaccinale prima di entrare, e spesso
la gente viene obbligata a portare mascheracce o a stare seduta a distanza. Ma
stasera, forse, è il momento buono per provare sensazioni quasi remote: Sophie,
che è da qualche tempo che scruta con cupidigia un concerto dei suoi beniamini
P3C in prossima banlieue, è convinta che sarà una serata “totalement badass”, e
chi meglio di me per accompagnarla.
Qualche giorno prima del concerto mi ritrovo ad ascoltare i due album di
Pogo a ripetizione. Contro le mie aspettative, il sound del quartetto di
Lésigny è estremamente maturo. I primi ascolti di Déprime Hostile del 2018 mi
spazzano via: è suonato con una precisione spaventosa ma la produzione si
mantiene volutamente (e piacevolmente) sporca, specie nelle distorsioni e negli
scream laceranti del cantante Olivier. La cosa più originale, però, è il
songwriting: i riff nichilisti, che si rifanno un po’ a quel “metalpunk” che
tanto andava di moda per la prima metà degli anni 2010 (penso a band come Toxic
Holocaust o Midnight), sono numerosi, dritti al punto e soprattutto sparati a raffica; le sezioni sono numerose e variegate ma, a differenza dei
tanti gruppi contemporanei che non amo, non sono un pastiche di rallentamenti e
soluzioni aggressive banalotte, bensì un’impalcatura di canzoni punk ben
ragionate che riescono nell’ambizioso compito di coniugare la foga di una
quantità smisurata di correnti hardcore (crossover, beatdown, crust,
death’n’roll…) alla pesantezza angosciante che caratterizza certi metalli (tanto il thrash che lo sludge), il tutto a servizio di un
songwriting depressivo ma sorprendentemente “chanson française”: impossibile non
accorgersi che quando non gratta, la voce di Olivier non è ”clean” ma ha una
solennità emotiva più propria dei cantautori francesi che dei gruppi metalcore
e affini. Il secondo album, Tête Blême del 2020, riesce a prendere
quest’amalgama apparentemente impossibile e farla funzionare ancora meglio, in
un contesto un po’ più hi-fi che non la snatura ma anzi la rende ancora più
violenta, e soprattutto con il raggiungimento di un’orecchiabilità e di una
maestria negli intrecci chitarristici degni di una grande band.
Del concerto che si consumò all’Hangar di Ivry-sur-Seine in quella serata uggiosa ho
il ricordo che potrei avere di una frattura nello spazio-tempo. Pogo Car Crash
Control, quando attaccano a suonare, hanno il potere di trasformare la venue in
una bolgia insensata e, tra chop di batteria elettrizzanti, riff vorticosi,
ritornelli contagiosi e una presenza scenica indemoniata, riescono a trasmettere
al pubblico il vero significato del loro nome: dentro al pit incontenibile dei
loro concerti ci si sente davvero come il pupazzo giallo e nero dei crash test
automobilistici, costretti a subire impatti disumani per conto di una volontà
superiore e ineluttabile.
Su quel che è capitato dopo quel concerto fotonico non mi sento di
dilungarmi troppo. Ho avuto la fortuna di rivederli live all’indimenticabile
Pogo Fest, in cui si sono rivelati anche ottimi curatori e a cui eravamo
presenti, a nostra insaputa, sia io che Théo. Doppia fortuna, ho anche avuto
occasione di scambiare qualche parola con molti di loro: con la bassista Lola
che quella sera mi ha venduto la maglietta del gruppo e mi ha raccontato
rapidamente il movimento che c'è dietro al logo “More Women on Stage” che
brandisce sempre sul palco; con il cantante Olivier che era alla Ferme
Electrique a far festa grossa; con il chitarrista Simon, beccato davanti alla
stazione dei treni di Tolosa per quel viaggio della speranza che fu il ritorno
dall'Xtreme Fest (facevamo veramente a gara a chi era più rincoglionito). In
seguito ho conosciuto Théo e Maxime e abbiamo scoperto immediatamente la nostra
passione comune per i P3C. La band ha inoltre pubblicato un terzo album nel
2022, Fréquence Violence, dove il loro stile si è accostato molto di più alle
sonorità che ho disdegnato a inizio articolo: più melodico, a tratti più
radiofonico e soprattutto tanto, tanto più “core”. Lo ammetto, a me non ha mai convinto
appieno, a Théo è abbastanza indifferente, mentre Maxime lo ha adorato. Il
nostro disaccordo su quest’opera controversa non ha però intaccato il piccolo
status di culto che il gruppo ha per noi tre, anche perché si sa: solo le
grandi band pubblicano album divisivi.
A fine 2023 Pogo Car Crash Control tornano nelle nostre vite con un annuncio anch’esso
divisivo: tra gennaio e febbraio 2024 organizzano tre date a Parigi (non a
Savigny-le-Temple, a Ivry-sur-Seine o a Issy-les-Moulineaux, no, proprio a
Parigi). A parte le date, non si sa quasi nulla di questa micro-tournée nella
capitale: né le sale, né i prezzi, né il formato dei concerti. Soprattutto, non
se ne conosce bene la ragione.
Da un po’ di tempo, mi arrivavano voci di corridoio a cui non davo troppo
credito. “Si stanno per sciogliere”, dice qualcuno una sera al Trianon mentre
ci godiamo lo splendido concerto post-rock dei Cosse (in cui suonava la
bassista dei P3C), “Si vogliono prendere una pausa di riflessione”, afferma
Sophie, che dopo il suo trasferimento in Borgogna è riuscita a vederli suonare
nelle più profonde campagne del Giura (Franca Contea). Che questo ritorno alle
origini in tre venues “importanti per la loro storia” (cito) sia un presagio di
fine delle trasmissioni?
Questo alone di mistero a me, Maxime e Théo un po’ ci fa incazzare.
Soprattutto, quello che risveglia i miei ancestrali polemismi da fiorentinaccio
è un sistema di progressiva fuoriuscita delle informazioni decisamente
contorto. Prima ci dicono che saranno tre setlist diverse incentrate su “tre
periodi diversi della loro storia” (cito). Presumibilmente prima data primo
album, seconda data secondo album, terza data terzo album, ma non si sa e ci
rode. Viene annunciata per prima la terza data alla Maroquinerie, e non la
compro perché presumo che suoneranno Fréquence Violence. Viene annunciata per
seconda la prima data alla Mécanique Ondulatoire (piccolissima) e va sold-out
senza che possiamo nemmeno accorgercene. Siamo lì a incrociare le dita per la
seconda data e viene fuori che è al Supersonic Club. Un po’ godiamo, perché
vorrà dire che è una data gratuita (non si paga mai il biglietto al
Supersonic!), ma vista l’affluenza ci chiediamo lecitamente come diavolo
riusciremo a entrare. Per fortuna spunta fuori un biglietto salta-fila gratuito
(da utilizzare tra le 19 e le 20) che riusciamo ad accaparrarci tutti e tre.
L’intricata faccenda è durata circa un mesetto, durante il quale si sono
dette le peggiori cattiverie possibili: “Ma che cazzo di maniere sono?” “Oh, un
po’ se la tirano eh!” “Ma vedi te se devo stare dietro a ‘sti quattro e ai loro
giochetti”. Fatto sta che alla fine ci viene data la conferma di avere tre
biglietti per vedere Tête Blême suonato per intero, gratis, in una sala
spettacolare e stiamo godendo talmente tanto che ci vergogniamo delle infamie gratuite degli ultimi giorni. Fatto sta che alla fine Pogo Car Crash Control
sono riusciti a fare tre sold-out a Parigi in pochi giorni. Forse le scelte
divisive sono quelle che pagano di più.
***
Arriviamo al Supersonic per tempo e ci rendiamo conto che questo mercoledì
sera il sold-out è di quelli che provocano un paio di svenimenti
impreventivati. Uno potrebbe essere quello di Théo, che ieri ha fatto notte
brava con le alte sfere del musicbiz ed ha la sua classica esilarante
espressione tramortita. Il Supersonic, per chi non ci fosse mai stato, è una
saletta a due piani medio-piccola specializzata nella disciplina dello scouting
estremo: ogni sera (dell’anno!) vi suonano gruppi semi-sconosciuti, molto
spesso internazionali, molto spesso con uno o più album ben prodotti all’attivo
e che portano sempre musica interessante. Io non so come venga fatta la
programmazione di questo posto, forse tramite i famosi algoritmi usati dalla
dirigenza del Brighton FC; resta il fatto che, tranne per l’iconico pilastro che
copre la vista a metà dei presenti, il Supersonic è una sala concerti quasi
iperuranica, che sfugge alla comprensione. E forse, proprio per questo, non ci
vado poi così spesso. Una cosa è certa, nessuno (al mondo?) l’ha mai visto
pieno zeppo come nella serata di oggi, in cui suona un gruppo che a Parigi è
parecchio conosciuto. In effetti, mentre ci beviamo un bicchiere tutti insieme
(di Club Mate per Théo, straight-edge suo malgrado), ci rendiamo conto che per
vedere il concerto come si deve bisogna agire di strategia, ed elaboriamo
calcoli geografici paragonabili a quelli dei generali tedeschi nella scena-meme
de La Caduta.
Con la superbia di chi si sente la volpe del deserto di ‘sta ceppa
annuncio: “Non vi preoccupate ragazzi, voi seguitemi e vedrete che anche la
prima band la vediamo da vicino” ma dopo aver incespicato su una
scalinata satura di gente (!) ci disperdiamo quasi subito. La mia sfrontatezza
in compenso mi ha portato in un punto un po’ defilato niente male per vedere
l’opening act.
I Cheap Teen hanno all’incirca la nostra età e non so assolutamente nulla di
loro tranne che Pogo Car Crash Control li hanno voluti ad aprire la data.
Conoscendo la selecta P3C, so che non devo aspettarmi un gruppo banale, e così
è. Il loro noise-rock dalle tinte punk, che oscilla tra il sofisticato e il rude,
è perfetto per scaldare il pubblico. Una musica intelligente ma che ti prende
allo stomaco, un po’ come l’outfit del bassista: maglietta dei Sonic Youth e
giacca dell’abito (mesi fa avevo fatto una battuta su quelli che fanno la
stessa cosa con la maglia di Unknown Pleasures, paragonandoli all’anticristo). Il
drumming tecnico, il canto nervoso, le chitarre graffianti: tutto urla post-modernismo,
ma le sfuriate HC spezzano le ipnotiche nenie post-punkare del quartetto
parigino (no, anzi, di Maisons-Alfort). Un pezzo come Down by the Castle,
che riesce a coniugare in chiave contemporanea l’ethos sabbatico dei migliori
The Jesus Lizard alla spinta un po’ rock’n’roll dell’hardcore punk d’antan (il
riff alla fine mi fa pensare ai Germs per qualche motivo), non è solo una gioia
per le orecchie ma anche il modo perfetto per prepararsi all’aggressione sonora
senza compromessi che sta per arrivare, godendoci le prime scariche elettriche con
un po’ di eccentrica ricercatezza. E così, tra i Don Caballerismi nevrotici
della fantastica Gnome, il dance-punk efferato di 4 Boys in a Lake
(un omaggio agli Slint forse, ma mi viene più da pensare al paraurti di
un’automobile che a una gita al lago), o ancora pezzi punk-rock più puri e duri
ma sempre con un paio di idee arzigogolate come Sorry e i suoi soli di
batteria, la mezz’ora dei Cheap Teen al Supersonic convince tutti i presenti,
compresi i miei amici che, al primo accenno del diradarsi della folla, spuntano
magicamente, entusiasti, nella seconda fila che gli ho tenuto calda.
L’atmosfera è elettrica, tra fotografi e video-maker (lo sapevate che sul
canale ufficiale dei Metallica c’è un video di una performance di Pogo Car
Crash Control?) che provano a ritagliarsi il loro spazio e gente che trasporta
birre (da bere rigorosamente in tre sorsi) in mezzo a una calca di una densità
umana quasi insensata. Quindici minuti passano in frettissima, tanti sono gli
stimoli che ci accerchiano. Poi, finalmente, il gruppo che tutti aspettavamo
sale sul palco nell’acclamazione generale. Siamo tutti felicissimi, al punto di
perdonare anche la maglietta della Juve (merda) a Olivier, e la cosa più bella
è notare che i quattro di Lésigny sono felici quanto noi di essere lì. Cominciano
a suonare una versione metal dell'Halloween Theme di John Carpenter e l’aria si sospende.
Poi tutto si ferma. È il momento.
Le prime quattro battute del riff di L’Odoeur de la Mort fanno officio
del famoso “segnale” del Gladiatore. È l’intro perfetta: appena entrano il
basso e la batteria l’inferno si scatena sul serio. “Ça craint!”, canta in coro
il pubblico. Un’espressione intraducibile, tra lo schifato e il preoccupato.
Tradotta letteralmente: “Fa paura”. Ed effettivamente, il terremoto magnitudo
diecimila che sta avvenendo sotto al palco un po’ spaventoso lo è. In compenso,
nel pubblico non c’è traccia di quella prepotenza rissosa (via, diciamocelo:
mascolinità tossica) che si può vedere ai concerti a cui va Théo. Forse
complice la bellissima maglietta della bassista Lola che recita: “England
didn’t invent punk rock. Women did.”, o forse soprattutto il fatto che la
musica ha comunque un’anima sentimentale al di là della sua violenza. Per
esempio, un pezzo come Déprime Hostile (che parte per seconda a
sorpresa, che regalo!) è sicuramente distruttivo ma non è un annientamento fine
a sé stesso: lo sfogo che la ispira è reale, sincero, “relatable”. Che mi
faccia venire voglia di spingere da tutte le parti, quello è un altro discorso, che vale anche per tutto il resto della setlist, lunga, perfetta e piena di
sorprese.
L’inizio del concerto non va solo a trecento chilometri all’ora, ma anche a
occhi chiusi e sul cavalcavia. Pourquoi tu Pleures fracassa la sala, e
ogni colpo di crash del batterista Louis è come se spaccasse i vetri del
Supersonic. In balia degli eventi, sballottolato da ogni parte, vedo ogni tanto
la pelata di mio fratello Maxime che rispunta dal marasma e, appena parte un
omaggio al breakdown di Domination dei Pantera, ci abbracciamo quasi
commossi da questo ritorno a sensazioni ancestrali (in terza media guardavo
Live in Moscow 1990 una volta al giorno).
Di recente, a Berlino, sono andato a visitare un bunker nazista adibito ad
oggi a galleria d’arte (Boros Collection) ma che, negli anni ’90, era solita
ospitare rave BDSM. La guida ci raccontava che, in mezzo alla struttura, quando
c’erano centinaia di persone che ballavano (ed altro), l’ossigeno cominciava a
scarseggiare, ragion per cui in certi punti venivano messe delle candele che,
col loro spegnimento, indicavano alla gente che era tempo di rifluire. Ho
trovato l’immagine molto suggestiva e adesso eccomi qua, in seconda fila dietro
a una diga di fotografi tenaci, a ritrovarmi anch’io senza ossigeno. In qualche
modo è una bella sensazione, ma ho bisogno di una boccata d’aria, quindi mi arrampico
con le forze che mi restano, salgo sul palco, scuoto la testa e salto giù. Solo chi ama l’hardcore punk sa
quanto questi siano i veri piaceri della vita.
Il concerto va avanti per una buona ora e un quarto, con pochissime
interruzioni. Non ho mai visto Pogo Car Crash Control suonare così tanto, ed è
una goduria. Per fortuna, dopo un inizio veramente estremo, la band ci
offre qualche momento di ristoro in mezzo al bombardamento continuo: con la
solenne, disperata e quasi gotica L’Histoire se Répète, oppure Comment lui en Vouloir da Déprime Hostile, un heavy rock dallo swing malefico che strizza
l’occhio anche agli anni ‘80, o ancora la balladona Cristaux Liquides da
Fréquence Violence. Nella generosa setlist di stasera in effetti c’è spazio
anche per tanti pezzi di quest’ultimo album, e non posso fare a meno di pogarli
tutti perché dal vivo sono devastanti e in piena coerenza con l’anima P3C. Devo
ammetterlo: non stonano in nulla col resto della setlist, nonostante un
approccio tanto più “moderno” dei brani degli anni precedenti (vedasi Ville Prison dove, in mezzo al beatdown più smaccato della loro carriera, a un
certo punto parte un rap insperato).
Come al solito, però, oltre alla qualità della musica e all’abilità dei
musicisti, è la loro presenza carismatica a rendere il concerto superlativo.
Sarà anche un cliché, ma vedere la convinzione con cui Pogo suonano le loro
canzoni è sempre qualcosa di emozionante: si agitano dappertutto, quando si
guardano ti accorgi subito che si vogliono bene, e cantano tutti le canzoni con
foga anche senza microfono. Lola e Olivier prima delle battute finali battono
il cinque al pubblico e non parlo di mani che si sfiorano: con entrambi il
“clac!” è secco e sonoro. Pura potenza.
La chiusa del concerto fa onore al caos che si è scatenato al Supersonic. Passano
tre veri anthem: Qu’est-ce qui va pas ?, il sing-along più atteso: da
cantare col tono di voce di chi sta vomitando mentre parla; l’instant classic Tête Blême: da cantare tutta saltando fino al soffitto (un tizio è veramente
salito sul balcone del piano di sopra mentre faceva crowd surfing); Crève
(2016), il primo singolo della carriera di Pogo Car Crash Control, il cui sound
spietato è così fedele al loro nome: il wall of death è catartico e inevitabile. Non
c’è nemmeno bisogno di chiedere l’encore: il gruppo, lo si vede, ha dato tutto
e forse qualcosa di più. Noi anche.
***
All’uscita siamo abbastanza su di giri. Bazzichiamo ancora un po’ per la
sala (in cerca di un dolcevita da due soldi che ho perso quando lo zaino mi si
è aperto nel pogo) e becchiamo un sorridentissimo Olivier, a cui Maxime dice
amichevolmente: “Eri più chiacchierone del solito stasera”. Nonostante i suoi
testi ultra-apatici si vede che è un buontempone. All’uscita parlo con Simon,
che mi racconta della sua passione per i dipinti di Caravaggio, mi conferma che
i P3C sono solo in pausa dai concerti per finire un nuovo album (che sollievo!)
e alla fine mi insegna un importantissimo gesto gangsta territoriale da
dedicare alla mia famiglia della Seine-et-Marne: il “77 mitraillette” (leggasi “sett
sett mitraiétt”).
Mentre con Max cazzeggiamo ancora un attimo per sbollire, Théo si dichiara
distrutto e alza bandiera bianca abbastanza presto. Dietro alle occhiaie e
l’aria spaesata, si vede che anche lui è comunque impressionato dalla scarica
di punk appena ricevuta. “Sono stato un po’ indietro ma ti ho visto quando sei
montato sul palco e hai fatto il tuo ‘slam’, forte!”, mi dice. Che cazzo vuol
dire “slam”, precisamente, io non lo so, ed è proprio dalle nostre differenze
di linguaggio che comincia una riflessione sulla vera essenza dell’hardcore
punk.
Mi è chiaro ormai da tempo che esistono delle fratture all’interno del gruppo
di persone che si rivendicano amanti di quello che tutti noi definiamo con
l’aggettivo “hardcore”. Chi usa un certo gergo, chi ne usa un altro. Chi si
fomenta col crowdkilling, chi se ne disgusta. Chi ama i breakdown col doppio
pedale, chi li odia. Eppure, davanti a un gruppo come Pogo Car Crash Control tutte
queste divergenze si appiattiscono, al punto che Théo si sbigottisce dalla
potenza del mosh-pit di stasera pure se non sono volati pugni roteanti, o al
punto che io mi scateno con i riff stoppati di Tourne pas Rond pure se sono
“core” all’inverosimile.
Mio padre ama citare spesso un aforisma di Keith Richards che afferma che: “C’è il rock, ma c’è anche il roll”. Al giorno d’oggi, in cui navighiamo in un oceano di categorie, generi e sottogeneri, forse bisognerebbe tornare a pensare a quelle parole che, nella storia della musica, hanno avuto come primo scopo quello di descrivere le intenzioni degli artisti. Tanti sottogeneri sono nati proprio da quei termini poco ortodossi usati da un pubblico inconscio della sua influenza sulla critica futura: “cool” o “funky” per il jazz, “freak” per il folk, “dream” per il pop, etc. Ci sono tanti altri aggettivi simili che, pur non riuscendo ad entrare nei libri di storia (o anche solo su rateyourmusic) hanno ormai una valenza evocativa immensa per definire un genere di musica: penso a “stadium” per il rock oppure “trve” per il black metal che, per quanto sia nato quasi come un meme, spiega più concetti di tante teoretiche arrampicate sugli specchi.
Ecco, l’aggettivo “hardcore” è un po’ a metà strada tra queste due funzioni
semantiche. Oramai assorbito dalla critica musicale di tutto il mondo, il
termine distingue certo alcune tipologie di punk da altre, ma alla fine della
fiera quello che fa sopra a tutto è definire un set, anche piuttosto ampio, di
attitudini e modi di essere e di fare sulle quali siamo già passati varie volte
nell'articolo di oggi.
Forse se scindiamo il termine nelle sue due componenti principali riusciamo
a risolvere la nostra complessa missione: trovare il ponte tra
quello che amo e quello che odio dell’universo “hardcore”. Senza avere la
presunzione di battezzarmi novello Keith Richards, mi permetto perciò di dire
che c’è l’“hard” e che c’è il “core”. Il “core” è quella tendenza, un po’
protagonistica, di mettersi al centro dell’attenzione, esaltare le appartenenze,
l’eccesso, persino la violenza. Dall’altra parte l’“hard”, o “fattore H” come
amerò definirlo da ora in poi, può essere visto come quella pulsione che spinge
un artista punk a dire quello che ha da dire nella maniera più sincera, diretta,
spinta e viscerale possibile. Inutile a dirsi, è per il fattore H che amo
questa musica.
Ecco, in un gruppo come Pogo Car Crash Control una cosa salta all’occhio:
la barra del fattore H è straripante. Talmente alta che mi fa soprassedere pure
alle loro scelte più “core”. Ovviamente l’equilibrio perfetto tra i due elementi non esiste davvero ma dipende e
dipenderà, da sempre e per sempre, dai gusti di ciascuno. Théo ama quando il “core”
la fa da padrona, e non ho niente di cui biasimarlo. Maxime, finché c’è un
minimo di fattore H, apprezza tutti i livelli di “core”. Come funzioniamo, invece,
io e la mia intolleranza per il “core”, a volte fatico a capirlo. So però di
per certo che, finché avrò la mia dose di fattore H, l’hardcore punk mi farà
sempre sentire soddisfatto, commosso, estasiato. E finché io e miei amici, per
quanto siano diversi i nostri gusti, potremo vivere insieme il fattore H, ci
vorremo sempre un mondo di bene. E ci sentiremo allegri, uniti, speciali.
E così, sentendomi un po’ speciale, torno a casa fradicio di mosh-pit. La
mattina dopo mi metto immediatamente sotto la doccia per espiare i miei
peccati di ieri sera senza sensi di colpa. Mi preparo ad andare a lavoro e, con
noncuranza, mi rimetto la giacchetta che ho portato ieri sera sopra alla
maglietta all'uscita del concerto in assenza di dolcevita. Il mio naso sente qualcosa e la mia mente ritorna subito lì, in mezzo al
cerchio della morte del Supersonic. La giacca odora di pogo. Un misto tra
sudore, detergente per bagni, birra, acqua di colonia, sigarette, deodorante,
saliva, bibite gassate. Mi sorprende: non è spiacevole.
Grazie, P3C.
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