Il mio gennaio di musica comincia con il consueto volo Firenze-Parigi di
inizio anno. Non so voi, ma per me i viaggi in aereo sono frammenti di tempo in
cui l’anima è in completa anestesia e in cui non provo nulla. Le mie sensazioni
sul rientro a Parigi mi sono perciò sconosciute. Non tanto a livello emozionale:
ormai lo so che tornare dopo le vacanze mi fa, tutto sommato, piacere.
Il dilemma, a questo giro, è di natura energetica. Come sto? I bagordi
natalizi e tutte queste serate fuori di casa con quei matti dei miei amici mi
hanno prosciugato delle mie forze ancor più che la vita da impiegato? O al
contrario stare lontano dagli stress metropolitani mi ha rigenerato e sono
pronto a spaccare il mondo? La domenica 7 gennaio il dubbio persiste, mentre mi
ri-familiarizzo col mio habitat francese e col ritorno alla vita domestica in
solitaria. L’8 di gennaio mi sveglio, lascio entrare Ascanio, mi alzo e appena
mi ritrovo in piedi mi rendo conto che ho una voglia quasi incontenibile di
tornare ad abbuffarmi di concerti. La mia foga, però, si urta quasi subito con
la triste realtà: molte delle serate che a dicembre mi avevano fatto dire “magari
mi interessano, poi vediamo come mi piglia dai”, adesso sono sold-outtissime. È
in questo momento che scopro che la mia energia straripante non deriva da una
fonte rinnovabile e pulita ma da un combustibile fossile altamente inquinante:
la FOMO.
Per chi, tra i miei lettori, non conoscesse il termine (i miei genitori e
basta, penso), il demone chiamato FOMO altro non è che la sigla di “Fear Of
Missing Out”, la “paura di starsi perdendo qualcosa”. Fenomeno preponderante
nelle grandi capitali europee, questa sensazione di frustrazione derivata
dall’incapacità di andare a (tutti gli) eventi che potrebbero procurarci
piacere è un pericolosissimo vettore di umori neri che può portare anche a
conseguenze gravi come depressione, ansia o, la peggiore di tutte, andare a
chiedere a quel tuo amico un po’ ammanicato se riesce a procurarsi un paio di
biglietti per il concerto di domani sera con qualche loscata di lavoro.
Il primo attacco della FOMO lo subisco quando scopro che The Psychotic Monks alla Gaîté Lyrique non c’è proprio verso di riuscire a vederli. Ora, non mi strappo le vesti: li ascolto pochissimo, li ho già visti fare un set lunghissimo a Dour l’anno scorso da molto vicino e, anche se ormai sono conosciuti a livello internazionale, non si smette mica da un giorno all’altro di suonare ai festival alternativi in banlieue parigina. Questa rosicata che col senno di poi non ha ragione di esistere mi spinge a un’autoanalisi che si rivelerà in seguito molto utile: ad essere del tutto sincero con me stesso, volevo andare a vedere questo concerto “di consacrazione” (un po’ come quello dei Grand Blanc) più per scriverne a riguardo che per una vera e sincera voglia di godermelo. Via, un po’ tutte e due le cose, un cinquanta e cinquanta. Ma non va bene lo stesso: sono pubblico pagante e la passione della scrittura è solo un accessorio. L’amore per la musica dev’essere lo stimolo prevalente (novanta percento, toh) per le scelte dei concerti che ho voglia di andare a vedere. Che è anche la ragione per cui non faccio il giornalista e per cui ai concerti punk, pure se finirò per scrivere un mattone di sei pagine a riguardo, pogo e ballo invece di stare sul balconcino calmo, fermo e con un taccuino in mano.
Un secondo episodio di FOMO devastante riguarda un altro gruppo che non
ascolto quasi mai: gli Slowdive. Chi conosce il mio amico Paolo e magari ha
letto anche le sue pontatine per il Primavera Sound 2024 sa quanto per anni abbiamo trattato questa band, da molti considerata come il più
grande gruppo shoegaze della storia, un po’ alla stregua di come i fan dei
Beatles trattano i Rolling Stones. Noi c’abbiamo i My Bloody Valentine, ma di
che si ragiona su, paragoni che non hanno nemmeno luogo di essere. Poi un
giorno del 2022 Paolo va a vedere Rachel Goswell e soci a Barcellona mentre io
ero già tornato a Parigi e mi scrive un messaggio che non scorderò mai.
Recitava, col suo classico stile da vecchio telegramma, qualcosa del genere: “Fra [stop] Slowdive incredibili. Suono potentissimo, ti arrivava da tutte le parti, e poi
la voce eterea sopra. Alla fine hanno fatto una coda di chitarre lunghissima ed
erano lì con la testa bassa ad aggiungere strati coi pedali. Lì ho visto lo
shoegaze”. Dopo una descrizione del genere ho saputo subito che nella vita devo
vedere gli Slowdive, se non per “vedere lo shoegaze” quantomeno per poter
pareggiare con Paolone. Perché sì, a volte la FOMO sfocia anche in un primitivo
e inappropriato istinto di competizione.
Finisce che quasi mi snervo a cercare un biglietto in rivendita (di
concreto non c’è nulla tranne quel matto che lo vende su Viagogo a 1124€). Al
mezzogiorno del giorno del concerto, mi rendo conto che questo accanimento per riuscire
a trovare un modo entrare alla Cigale sta nuocendo alla mia salute. Col senno
di poi, poco male: da questa esperienza mi tengo le tecniche commerciali che ho
imparato e l'essermi evitato di vedere Rachel Goswell coi capelli da Crudelia Demon (ti
prego, torna castana) ma soprattutto riesco a trovare un po’ di felicità
nell’arte del ripiego. L’odioso Vasco Brondi cantava Per Combattere l’Acne
e io, per combattere la FOMO, ho scovato la soluzione perfetta. Dopo aver quasi
ceduto all’idea di andare a concerti che non mi interessano (Four Tet per
cinque ore in formato pseudo-Boiler Room a cui per giunta va anche la mia ex? Eh,
ma costa sette euro l’ora se fai il calcolo, mica male), ho scoperto che ci
sono altre sane attività anti-FOMO, musicali ma non per forza concertistiche: girare
per barretti alternativi, suonicchiare ed esplorare nuove nicchie, forse nuovi
ovili. E onestamente, è stato bello.
Le serate al già citato Le Motel, per esempio, non solo hanno un che di
estremamente accogliente, ma regalano anche perle di estemporaneità fuori dal
tempo. Mitiche, ad esempio, le performance inaspettate sul palchetto, tipo
quella ragazza che canta cover di J-Pop che ci ha fatti volare. Splendide
anche, sul sottofondo della musica indie diffusa da DJ o concentratissimi o
distrattissimi, le conversazioni nostalgiche sulla vita musicale parigina e non
solo. Mi è bastato dire, una sera: “But I was there…” alla maniera di James
Murphy in I’m Losing My Edge per far partire la bambola delle storie su
grandi artisti e tempi non sospetti. Vince il mio premio personale quella dello
showcase al Motel degli allora sconosciutissimi The XX che chiedono al barista
di accompagnarli a fare da fonico nella prima minuscola tournée in Francia. La
sua risposta: “Questi non vanno da nessuna parte, dai”.
La fantastica Mécanique Ondulatoire è stata anche una scoperta tardiva
micidiale. Più sullo stile punkettone, quest’altro bar dell’undicesimo
arrondissement ha tra le sue qualità principali un’ottima varietà di birre, una
sala concerti dalla programmazione notevole e, soprattutto, una convivialità
sopra la media che si sposa appieno con la selezione musicale praticamente
perfetta. Una sera ci ho passato quattro ore di fila e sono passate come se
fossero dieci minuti, tanto sembra di giocare al Sarabanda dei sogni.
L’approvazione arrivata dal bancone quando ho chiappato il battito di mani
giusto durante Deceptacon potrebbe essere uno dei riconoscimenti più
soddisfacenti della mia carriera.
Chiudo il trafiletto con due altri locali che mi sento di consigliare. Affinché
non mi si dica che sono un ubriacone e che l’unica cosa che faccio quando non
sono ai concerti è andare a sbevazzare, vi racconto di due bar in cui sono
andato per un’altra ragione, ovvero suonare la batteria. Con un gruppo grunge
un po’ improbabile che ho anche mollato subito dopo (drama queen vera) abbiamo
acchiappato un set di mezz’ora un po’ fuori luogo a una serata universitaria.
Il rischio che il risultato fosse imbarazzante c’era, ma grazie al posto davvero
speciale è venuto fuori un concertino di tutto rispetto. Il Bar Les Disquaires,
sempre nella stessa zona dei due precedenti, è veramente bello e soprattutto ha
una saletta per la musica dove il Sound and Vision merita un dieci e
lode. La programmazione è completamente esoterica ma il layout del locale è
talmente rilassante e ben studiato, e il fonico e l’acustica talmente buoni,
che non dubito che tornerò presto a bere un bicchiere e farmi un concerto a
scatola chiusa, che poi è un’abitudine sana.
(P.s.: Del concerto ai Disquaires in questione ci sarebbe anche un video
piuttosto qualitativo su Youtube, ma non amo farmi pubblicità da solo, quindi
spulciate e lo troverete. Sul finale parte una cover di Holiday dei
Turnstile dove oso un paio di soluzioni davvero stupide.)
L’ultimo ma non ultimo locale è La Mazane, che la sera del mercoledì (il
miglior giorno della settimana) organizza delle gigantesche jam session funk e
soul. Il livello è altissimo e i conservatoristi numerosi, lo si nota da
subito. Quella matta della Lauren però se n’è fregata e si è iscritta
includendo me e un altro amico bassista quasi contro la nostra volontà. Io mi
sono fatto odiare in egual modo da tastierista e sassofonista per la mia
gestione dei volumi irresponsabile (ma il pubblico non l’ha vissuta così male,
credo), Taha si è trovato piuttosto a suo agio con la griglia di accordi un po’
berbera che gli è capitata (bella botta di culo per lui che è marocchino) e
Lauren ha tirato fuori dal cilindro delle melodie flamenche assolutamente
inaspettate. È stato solo un pezzo, sfangato anche per il rotto della cuffia, ma
resta ad oggi uno degli highlights del mese.
Detto ciò, di concerti qualcheduno alla fine ce n’è stato. Il principio di Life
Lately forse già lo conoscete: si tratta di una raccolta di live-report sui
concerti del mese sui quali ho troppo poco materiale per farne un articolo
“monografico”. Ciò non toglie valore ai concerti in sé, anzi: spesso sono tra i
migliori a cui assisto.
Ho già parlato troppo. Cominciamo.
Les Baltrink’ – Perché amiamo (o odiamo) i dive
bar?
Les Baltrink' live @Le Zorba, Parigi, 12/01/2024 |
Il primo concerto dell’anno capita un po’ per caso. Stiamo preparando il
concerto grunge sopracitato e il cantante/chitarrista/one-man-bandista scova
una serata punk di suoi amici di non so dove quando né perché. Se non si fosse
capito il ragazzo è abbastanza giovane, per fortuna o purtroppo, e sento che
sta volenterosamente accettando di aprirmi la porta a circoli che sono canonici
per gli studenti ed oscuri per uno come me, che sono un impiegato già pronto
alla trentina. Grazie Arthur, è un pensiero gentile.
Siccome l’uomo è una creatura meschina abbiamo ovviamente entrambi dei
secondi fini: lui vedere un po’ di colleghi e fare una micro-promozione del suo
gruppo, io scoprire la sala di stasera, Le Zorba, forse il bar di Belleville
che meglio incarna la categoria
talmente-squallido-da-fare-il-giro-e-diventare-quasi-cool. È da tempo che le
persone più disparate mi vantano di quanto sia intrattenente passare una serata
nello sgabuzzino di sotto. Addirittura, penso che il mio compare Théo abbia
mandato ai gestori dei repellenti video in cui, a torso nudo, suono malissimo del beatdown
hardcore. Ovviamente non ci è valso un ingaggio.
Arrivo parecchio prima di Arthur e si respira già l’aria del pienone. Per
cosa, precisamente, non lo so, perché non ho ascoltato nemmeno un nanosecondo
delle band della serata. Ma del resto sono qui più per la venue che per altro.
Mi guardo intorno: la parte di sopra, che già conoscevo, è il tipico PMU un po’
zozzo che col buio serale diventa da bosco e da riviera, e infatti mi si è popolato
di simpatici gen-z alternativi, stilosi, molto diversi tra loro e molto diversi
da me. Una scalinata inutilmente angusta porta al piano di sotto dove si
trovano la stanza degli adesivi e dei graffiti con l’uniposca (che ospita
casualmente anche dei sanitari) e una vera cantina d’antan, capolavoro di
umidità e di insospettabile eleganza. Devo dire che sono da solo ma ben lontano
dall’essere a disagio, anzi, mi sto divertendo un sacco ad esplorare il locale,
leggere le reference oscure sui muri, scoprire vecchi manifesti e osservare i
guasconi più stagionati su al bar che discutono tra loro, incuranti del viavai
di abiti neogotici e Y2K che gli passano davanti, o ancora ammirare i gestori
che barcamenano birre con estrema professionalità ma riescono anche a essere
concilianti con gli avventori più esuberanti tipo la “post-punk mom” che si
impadronisce della playlist e toglie il reggaeton per mettere Nina Hagen. Io
sorseggio lentamente la birra, faccio svariati e silenziosi viaggi da sopra a
sotto, da dentro a fuori, mi sento appagato e questa sensazione mi ispira il
titolo di un ipotetico saggio breve: “Perché amiamo i dive bar?”.
La risposta è semplice: perché tutto, qua, è amplificato. Le ragazze carine
sembrano molto più carine, le persone strane molto più strane, i giovani molto
più giovani. A cosa sia dovuto questo fenomeno non mi è dato saperlo:
sicuramente per spiegarlo scientificamente dovremmo conciliare i principi
fisici newtoniani e le conclusioni sulle monadi dei neoplatonici, ma siccome
non sono Borges non mi perdo in elucubrazioni. Resta il fatto che per noi
amanti del punk l’amplificazione è tutto, e quindi sono contento che il mio
anno di concerti cominci così, dive-bareando, Vampireando.
Purtroppo questo venerdì sera sono un po’ vincolato: vengo direttamente
dall’ufficio e ho dietro lo zaino con il computer aziendale. La cantina
straborda di gente fino al soffitto e, appena la prima band comincia a suonare,
mi accorgo che l’unica opzione che mi resta per salvaguardare il mio prezioso
hard-drive (contenente cartelle dal valore inestimabile piene di foto di pale
eoliche) è quella di mettermi nell’angolino contro il muro alla maniera del
wojak col cappello di carta alla festa di compleanno. Del resto, lo diceva
anche Mao, il pogo non è un pranzo di gala, e i giovinastri di stasera sono
giustamente in cerca di emozioni forti.
La festa è abbastanza epocale: gente eccentrica che vola da tutte le parti,
battutacce, schiamazzi, anche un paio di simpatiche volgarità (le due opening
bands, che poi sono quelle che hanno portato tutti i loro amici, si chiamano
Cold Cum e Spaghetti Sluts). Io però non vedo una mazza, e il suono (a tratti
anche la musica) sono tanto, ma tanto scrausi. Parte una cover quasi offensiva
di Well Done degli Idles, e comincio ad avvertire i primi malesseri, un
po’ come Max Collini che ascolta Albano e Romina a Praga in Tatranky. Con
loro, un secondo incubo editoriale ad occhi aperti: “Perché odiamo i dive bar?”
(magari con prefazione del generale Vannacci).
Come la forza centrifuga e la forza centripeta, anche il principio di
amplificazione del dive bar ha il suo rovescio della medaglia: durante i primi
due concerti mi sento più vecchio, più snob e persino più straniero di quanto
io lo sia veramente, e non posso farci niente. Sarà che tra cavi che si
staccano a destra e manca e feedback incontrollabili le performance sono,
perlomeno fonicamente, al limite dell’aberrante; sarà che sono volontariamente fuori
dal fulcro dell’azione, non solo per proteggere l’avvenire dell’energia eolica,
ma anche perché pogare giusto per il gusto di pogare non è che mi sconfinferi
più di tanto; sarà che i riferimenti di questa party music per giovani francesi
o non li ho (Spaghetti Sluts suonano una cover di Les Filles Adorent e
la cantano tutti, dev’essere tipo un equivalente di Le Donne di Fabri
Fibra), o non mi fanno tanto ridere (Parapet è una canzone dedicata a un
video storico di un belga che cade dalla bici al Tour de France, sarà di culto
ma a me pare una clip di Paperissima Sprint); sarà che leggo in certi sguardi,
in certo stage banter e in certe canzoni (chi cazzo è Louison Colère?) quel
sentimento giovanile di appartenenza a una “scena” che tanto rifuggo e quasi
osteggio, dopo alcune brutte delusioni adolescenziali. Sarà. Fatto sta che ho
“visto” un’ora abbondante di musica e sono qui fuori a farneticare che ancora i
5€ del biglietto non me li sento propriamente ripagati, davanti al povero
Arthur che è lì a pregare perché i suoi amici non mi sentano.
Scendo per l’ultima band senza grande convinzione. C’è moltissima meno
gente di prima e riesco a vedere il palco, su cui si appresta ad attaccare un
quartetto punk dall’aspetto simpatico, specialmente il cantante (Lou) che con
il “dad bod” messo bene in vista dal crop-top risponde già alla definizione di
“nostrismo”. Attaccano a suonare e spalanco gli occhi. L’unico commento che
vorrei fare me lo tengo per me, perché è intraducibile in francese: concertone
della madonna!
Les Baltrink’ convincono, e con loro questo hardcore punk senza fronzoli, che
omaggia ovviamente gli anni ’80, insaporendolo però con le vene di modernità
giuste (poco breakdown, tanta dissonanza). Complice la minore affluenza, ma
anche il fatto che sono musicisti decisamente abili, i loro suoni sono sporchi
ma finalmente nitidi, e la loro stage presence (quasi più “floor presence”) e
testi sono ancora ironici, ma più feroci che festaioli. Quando parte À Moitié (che oltretutto appartiene allo stesso universo lirico di I’m not a Punk dei Descendents) finalmente posso appoggiare lo zaino computerizzato
in un angolino e, con molta calma, impazzire. Adesso no, non mi sento affatto a
disagio all’idea di fare un po’ di sano casino.
Il pregio della musica dei Baltrink’ è che è originale senza essere
elaborata e divertente senza essere stupida. Un pezzo scritto con maestria come
Le Contrôleur : La Genèse, dove il punk abbraccia anche frange di
noise-rock più radicali, riesce a illustrare perfettamente il giusto mezzo che sono
riusciti a trovare nelle loro composizioni. Ma questə pariginə (hanno un
inedito molto spassoso a tema scrittura inclusiva), al di là dei soli due
singoli che sono usciti sulle piattaforme, hanno ancora tantissimo da dire: ora
vanno a mescolare del post-punk darkettone con un buon D-beat di quelli che fanno
bene all’anima, subito dopo regalano dadaismi quasi grindcore, poi sorprendenti
armonie e disarmonie vocali che si incastrano alla perfezione… Insomma, non ci
si annoia mai.
Il concerto dura quanto deve durare un concerto HC DIY tradizionale: poco
ma giusto. Tra il cantante Lou che sembrava davvero stare per morire di
asfissia, “stage antics” abbastanza spinti e un pubblico caldissimo ma
concentrato, ho l’impressione di aver passato gli ultimi trenta minuti in un
tornado ma, soprattutto, di aver visto dei giovani talenti dall’energia
straripante che, se incanalata col giusto voltaggio, può davvero generare
qualcosa di potente.
(La mia foto, e di questo mi scuso, fa sembrare il reattore di 100MW che si
è acceso quella sera come una misera lampadina a Led. In compenso, @crade_,
fotografo di punk parigino, lo seguo da un po’ su Instagram e ho scoperto a
posteriori che era alla serata. Andate a vedere le sue, di foto, che sono
bellissime.)
Soprattutto, nel dibattito interiore hegeliano che mi ha accompagnato per
tutta la sera, dopo la tesi e l’antitesi Les Baltrink’ mi hanno finalmente portato
una sintesi. Perciò, in conclusione: “Perché andiamo nei dive bar?”.
È semplice: perché odiamo essere anonimi in mezzo a persone speciali, ma amiamo
sentirci speciali nel nostro anonimato; perché odiamo quando troppa pulizia
mette in luce la bruttezza, e amiamo quando un po’ di sporcizia fa risaltare la
bellezza; perché odiamo i posti in cui non viene data nessuna serietà alla
musica, ma amiamo i posti in cui è la musica a non dare troppa serietà a sé
stessa; perché odiamo quando i gruppi che dovrebbero suonare bene suonano male,
e amiamo quando i gruppi che dovrebbero suonare male suonano bene; perché
odiamo vedere un concerto noioso in un palazzo reale, e amiamo vedere un
concerto divertente in uno scantinato.
Perché odiamo andare a sbattere, ma amiamo tuffarci.
The Vaccines –
La sottile linea rock
The Vaccines live @Festsaal Kreuzberg, Berlino, 22/01/2024 (foto di mio babbo) |
Tra le varie comparse speciali dei miei articoli a volte rispunta nientepopodimeno che la
persona con cui ho condiviso i miei primissimi ricordi musicali e con cui, per
tutta una vita, ho condiviso e continuo a condividere musica: i’ mi’ babbo (che
sarebbe mio padre). Oltre ad essere una persona fondamentale per me, lo è anche
per il mio trapianto francese. Ne è un predecessore, perché ha fatto il grande
salto diversi anni prima di me. Ne è un promotore, perché mi ha convinto, e
anche con argomenti che hanno retto la prova del tempo, che migrare era una
buona idea. Ne è un mediatore, perché mi ha aiutato tantissimo a prepararlo e
ad eseguirlo.
Dopo dieci anni suonati in quel di Parigi, di cui uno di coinquilinaggio
col sottoscritto e due di costanti appuntamenti per soffrire insieme con la
Fiorentina o mangiare il risotto o il cinese raccontandoci gioie e dolori, i'
mi' babbo parte a farsi un meritato anno sabbatico e se ne va per qualche mese
a Berlino. Io a Berlino non ci passo dall'epoca del viaggio della maturità,
voglio tornarci e se posso trovare la scusa di un concerto in terra teutonica
ancora meglio. Oltretutto il Natale si avvicina e regalare un concerto mi
sembra l'opzione perfetta: sforzo minimo, risultato massimo. Ne ho adocchiato
uno perfetto per lui, che è cresciuto con la new-wave degli anni '80: Echo
& The Bunnymen, il 7 aprile. Il giorno di Natale gli allungo una busta col
fare tronfio di chi anche quest'anno l'ha sfangata con gran classe. Lui la apre
e, un po' desolato, mi fa: "Il problema è che io parto da Berlino il 4"...
Meno male che avevo messo l'opzione: "O un altro concerto a scelta da
te" a pié di pagina. Che risolve solo parzialmente il problema, però: ora
che cazzo lo porto a vedere? Le opzioni sembrano tutte scomode, non di suo
gradimento o entrambe. Un po' procrastino, un po' mi dispero, ma a inizio gennaio, appena sono tornato a Parigi, è mio babbo a venire a togliermi le
castagne dal fuoco: "Ci sarebbero i Vaccines tra due fine settimana. Mi
ricordo che quando siamo andati in montagna prima di Capodanno li ascoltavi
sempre. Io ci vado volentieri". Non ci penso su nemmeno un minuto e prendo
i biglietti. Grazie papà.
In effetti, i Vaccines sono stati la mia piccola rivelazione del mese di
dicembre. Un po' per caso mi sono imbattuto in Norgaard, canzone che ha
destato subito il mio interesse per l'omonimia con un centrocampista che ha
fatto 6 presenze in maglia viola e poi è esploso in Premier League (tipico). La
ascolto, la riascolto, la ri-riascolto e la trovo perfetta. Il conseguente ascolto
del suo album, What Did You Expect From The Vaccines? del 2011, è stata
un'esperienza fantastica perché, oltre a divertirmi ed emozionarmi molto, mi ha
riconciliato con l'indie rock inglese di inizio anni 2010, che è sempre stata
un po' la mia bestia nera, ispirandomi poi a scrivere l’articolo su I Cani.
Di questo disco mi piacciono un sacco di cose: l'immediatezza delle
melodie, di cui molte sonno inni istantanei e che funzionano praticamente sempre;
la vibe da film "coming of age" abbastanza inedita, che invece del
pop-punk statunitense con gli skateboard e i campus universitari mi riportano a
un immaginario fatto di pinte al pub e feste selvagge (ma anche un po’
deprimenti) al suono del britpop; ultima ma non ultima, l’arrapatezza (non
giriamoci intorno, di quello parlavano le indie band inglesi di quegli anni)
che traspare dalla musica, molto sanguigna, caciarona ma anche sensibile, a
differenza di quella delle opere coeve di gruppi come gli Arctic Monkeys in cui
è solo strana e un po’ rachitica.
What Did You Expect, perciò, me lo sono divorato e ho anche fatto
scarpetta: la mini-raccolta di B-side è ganzissima (c’è una cover di Good Guys Don’t Wear White dei Minor Threat, pazzesco) e le demo, che sono
uscite nel 2021, suonano da dio (Wrecking Bar sembra cantata dagli
Unknown Mortal Orchestra dell’epoca di II). Sono poi passato a Come of Age del
2012, che mi piace ma più a sprazzi, soprattutto perché si sente da lontano un
miglio che è un album concepito per essere la loro conclamazione radiofonica
(l’iter industriale era assolutamente prevedibile) e quindi spinge meno sul
lato punk del suo predecessore. Di quello che hanno fatto i Vaccines una volta
diventati grandi, devo dire, non ho sentito niente di buono: il materiale degli
ultimi dieci anni, salvo se mi sono perso qualcosa, mi pare un poppazzo
facilone che va dal mediocre all’esecrabile. Qualche pezzo di quel quasi ritorno
al rock che è l’ultimo album, “Pick-up Full of Pink Carnations” (gennaio 2024!),
mi sento però di salvarlo.
Andare ai concerti di gruppi di cui non ti piace buona parte del materiale
è una scommessa che nella mia vita ha sorprendentemente quasi sempre pagato. L’esempio
principe può essere, tra tanti, l’ottimo concerto degli Helmet al Petit Bain a
dicembre 2023 che, poverino, è capitato in un mese in cui Life Lately non aveva
senso di esistere e non ha ricevuto nessun report. La mia teoria è che le band,
quando sono meno ispirate del solito da un punto di vista compositivo,
solitamente lo sanno, e perciò curano tantissimo il live show che possono
offrire (spesso più delle band ispirate). La ragione è ovvia: hanno un bisogno molto
maggiore delle esternalità positive che un gran concerto può portare:
fidelizzazione del pubblico, mitigazione delle maldicenze sul catalogo recente,
reputazione da live band.
Dopo disdicevoli disavventure con Deutsche Bahn e un lungo viaggio continentale, arrivo finalmente nel nuovo quartier generale del babbo, in una Berlino Est coperta dalla neve. Ci godiamo assieme quest’atmosfera post-punk abbastanza magica e giriamo per musei, statue memoriali, bar tedeschi e ristoranti asiatici (a ciascuno il suo). Riusciamo persino a infiltrarci in una manifestazione contro l’estrema destra, e facciamo anche un’esperienza musicale-cinematografica di cui forse vi riparlerò. Alla fine di questa bellissima vacanza di tre giorni, mio padre ammetterà che Berlino non gli piace quanto Parigi, ma che senza dubbio può fornire un bel cambiamento d’aria. “Ça dépayse”, dicono i francesi. Chissà se lo diceva anche la compianta Françoise Cactus, cantante degli Stereo Total, che alla tratta Paris <> Berlin aveva dedicato un album fenomenale.
La mia ultima serata a Berlino la passiamo nella Festsaal di Kreuzberg,
che, dopo essere stata rapidamente ricostruita dopo il devastante incendio del
2013 (dicono che prima fosse molto elegante), è oggi una struttura di ferro
ultra-razionalista ma che mantiene una sciccheria: i divanetti laterali dove
cazzeggiare prima che la musica cominci e soprattutto dove dedicarci a
un’attività di grande spessore intellettuale: guardare la gente. L'età del
pubblico di stasera orbita intorno alla trentina, sembra abbastanza
multi-culturale e la sorprendente ratio 2:1 delle donne rispetto agli uomini è
abbastanza esplicativa del fatto che come diciamo noi fiorentini, noti per la
nostra raffinatezza, i Vaccines sono un po' un gruppo "da fiche". È
un complimento, dai.
Il quartetto inglese è un gruppo navigato che sa fare scelte oculate. Quella
di imbarcare nel loro tour Teen Jesus and the Jean Teasers è una di queste: non
poteva esserci opening act più ragionato di una band di quattro ragazze
australiane che suonano in maniera punk senza essere (troppo) scandalose e in
maniera pop senza essere (troppo) commerciali, fresche per giunta dell’album di
debutto. L’uguaglianza di genere è ristabilita, le radici dei Vaccines
ricordate, il Commonwealth rinsaldato, le nuove leve… Levate, immagino. Una
mezz’oretta di “slay punk” (mi rivendico il neologismo) fa piacere a tutti di
tanto in tanto. Le aussies sanno intrattenere tra gimmick simpatiche (Cayenne Pepper e i suoi venti secondi di hardcore) e canzoni genuinamente
interessanti, sia le più pop (Salt potrebbe essere una collaborazione tra
Beach Bunny e Thirty Seconds to Mars: incubo per alcuni, Propuesta Indecente
per me), sia le più punk (I Used To Be Fun ha un riffing quasi semplicistico
ma funziona bene per mettere in risalto le voci e le bassline che sono la cosa
più interessante del gruppo). Ci sono anche momenti più bassi, per carità (la
title-track I Love You non mi fa provare granché malgrado le promesse
del titolo), ma niente di scandaloso. Alla fine Sono solo canzonette e
noi, all’alba dell’attacco dei Vaccini, siamo di buon umore e in quinta fila
con una birra piena in mano. Bella performance (la nostra).
I cinque inglesi finalmente salgono sul palco su Live and Let Die di
Paul McCartney: aroganza vera (con una sola R). La cosa che ci più sorprende è
che, a vari livelli, sono tutti piuttosto bellocci nelle loro camicie
stiratissime. “Ma è una boy band invecchiata!” esclama mio babbo. Si, è vero, la
prima impressione che fanno è quella, ma quando Justin Young comincia a
dimenarsi a destra e a manca col microfono in mano e con un fare istrionico e
quasi spiritato, i Vaccines cominciano ad apparire sempre di più come ragazzi
della Londra bene, dalla faccia pulita ma con una simpatia malcelata nei
confronti della polverina bianca. La presenza scenica del frontman è fenomenale
ma è veramente sul filo del rasoio tra l’iconico e l’antipatico: è un attimo a passare
da Brett Anderson a Robbie Williams, da Morrissey a Harry Styles. Eppure
l’equilibrio è quasi miracoloso e ci tiene incollati a vedere quel che succede.
La setlist, pure lei, brilla dei suoi equilibri precari: l’alternanza di
canzoni un filino troppo “cheesy” ad altri momenti decisamente emozionanti, in
cui il sing-along è incontrollabile, è studiata nei minimi dettagli, anche per far
rifiatare il pubblico o colpirlo a sorpresa nei momenti più dubbiosi (Wrecking Bar (Ra Ra Ra) come seconda canzone dopo un singolaccio dell’ultimo disco
fa esplodere la sala).
Quello che più causerà dibattito tra me e mio babbo, però, è la gestione del
suono. La band suona in una maniera precisa all’inverosimile e ha un volume
tanto tanto alto, da ippodromo, con la voce di
Young che annega letteralmente nel riverbero e tutta un’altra serie di effetti
che ce lo fanno sì sentire bello pieno, ma snaturano un po’ l’umanità della
voce. L’equilibrio tra la volontà “stadiůůům rock” (impossibile non citare
Fenriz stasera) e il senso di intimità che certe canzoni possono trasmettere è
anche lui precario ma, a mio avviso, sorprendentemente funzionante. Del resto
pure i primissimi Vaccines vivono di questa dicotomia, basta pensare alle
ballad di What Did You Expect (Wetsuit tra un po’ la cantava pure la
sicurezza): senza messa a nudo non sarebbero interessanti, senza coro da stadio
non sarebbero memorabili. Il concerto, perciò, malgrado i suoi previsibili alti
e bassi, funziona, e funziona proprio grazie alla maestria che hanno i Vaccines
di restare in equilibrio sulla sottile linea che divide il miglior rock e il
peggior pop (un altro gruppo che ho visto, sempre con mio padre, operare gli
stessi funambolismi? Gli U2 nel 2015!).
Che dire perciò:
la serata finisce in fretta e in simpatia, e ha come condimento un bella dose di
fanservice. Segnalo in particolare il wall of death più rispettoso della storia
che è partito con Teenage Icon e l’accoppiata finale esageratamente
ruffiana di If You Wanna e All In White con tanto di luci che si
spengono all’ultimo ritornello: una combo di canzoni che chiuderebbe
felicemente e con soddisfazione pure un concerto dei Napalm Death. Nell’encore
la speranza Norgaard (sempre stata bassa) non si rinnova ma in compenso voglio
fare un plauso particolare a Sometimes, I Swear che oltre ad essere una
canzone dei Vaccines attuali che ci ricorda quanto i ragazzi, synth o non
synth, la musica rock la saprebbero scrivere bene, è anche l’unica canzone della
serata a contenere quel “forbidden beat” (ovvero i sedicesimi sul charleston)
abusatissimo nell’indie rock inglese. Io lo tollero solo una volta a concerto,
ed evidentemente anche loro sono d’accordo con me. Fa piacere.
La mattina dopo mi alzo di buon mattino e passo un’ottima giornata di
treno. Non penso che mio babbo sia rimasto estasiato dal concerto, per carità.
Ma alla fine, se un regalo è una scusa per passare tre belle giornate insieme,
chi se ne frega. È questo il bello del regalare concerti: nel peggiore dei casi
si è passato un buon momento in compagnia. Anche qui, si tratta di un equilibrio su
una sottile linea, tra la generosità estrema e la pigrizia da scanfatiche.
Ci vuole una certa classe per stare in equilibrio su una sottile linea. I
Vaccines ce l’hanno. Io non lo so, ma va bene lo stesso.
Soulwax – La
febbre della domenica sera
Soulwax live @Elysée Montmartre, Parigi, 28/01/2024 |
Il karma della FOMO, a fine mese, mi ha ricompensato. Quei Soulwax in
doppia serata soldout pure loro mi avevano fatto rosicare un bel po’, ma
trovare dei biglietti è stato talmente facile che non c‘è nemmeno stato troppo
gusto. Addirittura, due giorni prima mi si sblocca pure la fila d’attesa di
Dice (pensavo che fosse una leggenda metropolitana). Dico a Lauren che
l’opportunità è ghiotta e riesco pure a cooptare la mia accompagnatrice di
concerti preferita. Grazie, karma della FOMO!
Ora, la rosicata se non fossi riuscito a vedere i Soulwax non è tanto
dovuta a una mia profonda passione per loro. Anzi, sarò onesto al 100%: come
per gli Psychotic Monks o gli Slowdive, io i Soulwax li ascoltavo davvero poco.
In compenso, è da quasi un anno che sono ossessionato con i mix del loro side-project,
2 Many DJs, dove la musica house e la cultura popolare si sposano, sì, ma
ubriache a Las Vegas. L’abbondante e variegato materiale dei due DJ, microcosmo
anche noto come Radio Soulwax, è diventato una mia piccola oasi di benessere,
lo ascolto molto spesso e ha pure parzialmente ispirato il concept della band
in cui suono, nonché la nostra prima cover… Insomma, i fratelli Dewaele per me
sono leggende, e sapere di perdermi un concerto in cui posso vedere dal vivo
gli ideatori del mash-up No Fun / Push It (The Stooges / Salt-N-Pepa) mi
avrebbe fatto male. Aggiungici il fatto che con loro suona la batteria
nientepopodimeno che il mio secondo batterista thrash metal preferito (il primo
è Dave Lombardo), ovvero l’esiziale Igor Cavalera dei Sepultura di cui amo sia
la musica (lo skank-beat di Beneath the Remains penso che non me lo
spiegherò mai) sia la persona (ma quanto è bello il video in cui spiega Refuse/Resist?).
Per finire la lista di ragioni per cui mi sono sentito in dovere di andare a
vederli c’è anche l’iconicità della band e il loro status di aggeggiatori sperimentatori ormai quasi mitologico: Tommaso, che i progetti “elettronici ma venati di rock” e
“sperimentali ma ascoltabili” li conosce tuttissimi, penso che percepisca i
Soulwax come delle leggende. E non solo lui.
Presi questi ambitissimi biglietti, me ne vado a Berlino e viste le diciotto ore di treno tra anda e rianda mi esploro meglio la discografia, che senza sorprese adorerò e per
giunta in tutte le varie fasi delle loro carriera, seppur Any Minute Now del
2004 sia l’album che più rientra nelle mie corde. La club music che si insinua
nel rock, a due che hanno anche solo pensato un mash-up 9 to 5 / Eple (Dolly Parton / Röyksopp), non poteva riuscire male, e infatti funziona benissimo. Ma anche le uscite
più radicalmente elettroniche tipo Nite Versions del 2005 o From Deewee del
2017 hanno momenti altissimi, in cui i due fiamminghi di Gent sono veramente
assimilabili a dei Daft Punk in versione Benelux, meno piacioni e più geek. E
che piacere immenso perdermi in questi ascolti proprio mentre, con l’Eurostar,
mi godo i paesaggi di questa terra promessa, coperta di neve e di bellezze
straordinarie come la stazione di Calatrava a Liegi o ancor meglio alcune
centrali eoliche che in Francia farebbero morire di crepacuore tutti i nostri
prefetti retrogradi e bigotti. I concetti cripto-fascisti di “nocività”,
“distanza di sicurezza” o ancora “integrazione paesaggistica” qui non esistono.
Che gran popolo, i benelussi.
È domenica e i cancelli aprono alle 19 ma io e Lauren abbiamo trattato il
pomeriggio come se stessimo facendo un “pre-game” per una serata in discoteca a
mezzanotte. Quando arriviamo all'Elysée Montmartre (in cui per una lunga serie
di sfighe non sono mai riuscito ad andare) ci troviamo davanti una sala enorme,
molto più moderna e minimalista delle sue sorelle (Trianon, Cigale etc.), ma
che mantiene un retrogusto Esposizione Universale 1889, con i suoi porticati di
ferro battuto e l'elegante parquet. Siamo tra i primi ad arrivare, ma per me è
come se lo spettacolo fosse già cominciato, perché dalle casse esce
dell’esoticissimo materiale di Radio Soulwax. Mi ritrovo a ballare, da solo in
mezzo a una gigantesca pista da ballo vuota, un mashup di In My Eyes dei
Minor Threat e Banned in DC dei Bad Brains pieno di “chops” favolosi (l’ho
anche ritrovato: il mix si chiama Hardcore or Die del 2011, ed è bellissimo).
Per chi mi chiedesse ancora a cosa serve arrivare ai concerti così presto, ecco
una risposta.
Abbiamo una discreta cazzonaggine addosso (“la connerie”), forse perché di
rado ci capita di andare a concerti di musica iper-danzereccia. Ammazziamo il
tempo con stupidità e coi classici “shenanigans” che ormai sono elemento
fondante della nostra amicizia, tipo le imbarazzantissime pacche sulle spalle alle ragazze alla “my friend thinks you’re cute”, i colpi di capoeira a
sorpresa e le coreografie spazialmente ingombranti, perciò gli opening act
(abbastanza all’acqua di rose) passano in fretta e noi ci facciamo anche un po’
notare. Se la performance dei Natasha, duo di DJ di Gent, può anche avere un
simpatico sapore di passaggio di testimone (a un certo punto hanno pure passato
un pezzo che sta su As Heard on Radio Soulwax Pt. 2, Disko Kings mi
pare), il duo Asa Moto, composto da una sorta di cantante/MC e una sorta di
strumentista/tuttofare non convince appieno con le sue canzoni pseudo-trip-hop un
po’ mosce e senza direzione apparente. La gente, come al club, arriva piuttosto
tardi ed è solo quando cala il silenzio che annuncia il main act che la densità
umana comincia a farsi sentire. In compenso, il sold-out non è di quelli
straripanti che si vedono da altre parti. Di fatto, hanno venduto abbastanza
biglietti da riempire la sala, ma permettendoci anche di stare larghi a
sufficienza per poter avere un pochino di mobilità.
Il momento tanto atteso è finalmente arrivato e già dal setup si preannuncia un concerto ambiziosissimo: tre batterie sopraelevate, quattro synth con dei controller “di design” mostruosamente grandi, un paio di strumenti mai visti prima (il vibrafono elettrico verticale mi mancava), il tutto un po’ per dire: qui non si scherza mica. Roba seria, insomma, ed effettivamente quando la band monta sul palco si nota che la concentrazione è altissima, le frequenze calibrate alla perfezione, le parti di batteria composte con una cura maniacale. Una minuscola delusione di inizio concerto c’è ed è la constatazione che forse, tutta questa ricerca della perfezione va un po’ a discapito dell’energia. Va detto che però, a compensare questo deficit, ci sono un reparto sonoro penetrante e luci formidabili che riescono a mantenere l’effetto goduria.
Mi concedo un secondo appunto negativo, ovvero che certe scelte sono state
forse troppo ambiziose: con tre batterie simultanee, seppur suonate alla
perfezione, l’effetto “flam” è inevitabile quando le pelli non vengono colpite nello
stesso millisecondo, rendendo talvolta un po’ sdrucciolevole la prestigiosa
sezione ritmica. Certo è che quando Igor Cavalera dopo una decina di minuti attacca
l’intro di batteria di Missing Wires è impossibile non provare cose, e a
partire da quel momento mistico che risveglia i demoni ancestrali del mio
metallaro interiore il concerto comincia a risalire la curva della gasazione in
maniera esponenziale. Is It Always Binary ad esempio è riuscitissima,
con il batterista brasiliano a capo della batucada futurista di stasera e i
loro intrecci di assoli e quando subito dopo parte il capolavoro electro Krack
(da Nite Versions) viene voglia di saltare fino al soffitto a ritmo del suo leggendario
drop. “Filthy bass, bro”!
Perciò, tra headbanging e balli da discoteca parecchio burini, il concerto
avanza a un ritmo incalzante e il divertimento è esagerato. Le pause sono
pochissime e la miscele di canzoni a effetto “continuous mix” funzionano sempre
bene. Del resto, i fratelli Dewaele restano DJ nati pure con il basso in mano o
le dita sulla tastiera. C’è anche tanto di cui cantare, visti i tantissimi
pezzi da From Deewee (splendido il wonky di Do You Want to Get Into Trouble?)
e altrettanti dall’epoca Nite Versions. Le versioni di quest’ultimo album
vengono spesso preferite a quelle più rock di Any Minute Now. Non ce ne si può
lamentare, perché nella forma mentis da clubber ormai ci siamo dentro fino al
collo: Another Excuse è ipnotica e trance come non mai, Miserable Girl nella versione di stasera è zozza all’inverosimile e E Talking
ha una linea di basso che sconquassa le zone pelviche di ogni singolo membro
della massa di corpi sudati che sembra muoversi a rallentatore sotto alle
luci stroboscopiche dell’Elysée Montmartre.
Quando l’elegante ritmo da chill-out di Goodnight Transmission chiude la serata, la soddisfazione è palpabile. Per una buona ora e mezza, il club ultra-inclusivo dei Soulwax ha accolto con eguale accoglienza nerdoni come me e discotecari navigati e pure belli “alti” (il popper che circolava a due file da noi, in fondo, è una nota di colore: scene che non vedevo da tempo). Effettivamente, chiacchierando con la gente all’uscita, c’era di tutto: appassionati di techno delusi dall’assenza di I Love Techno e intellettuali occhialuti che rimembravano di aver visto la band quando ancora veniva considerata indie rock e a cui avrebbe fatto piacere sentire una Too Many DJs.
Una cosa la noto: sono in pochi, me compreso, a dirsi soddisfatti al cento
per cento dal concerto. Sarà che forse, come Icaro, i belgi hanno volato un po’
troppo vicino al sole. In compenso, tutti si sono divertiti tantissimo e
soprattutto sono contenti di aver passato la loro domenica sera a ballare fino
a diventare madidi. “Sunday is the new saturday”, dice a un certo punto il buon
Stephen Dewaele, e secondo me ha ragione.
Era una settimana fa, e nonostante tutto, la voglia di ascoltare i Soulwax
non ha fatto che crescere. È lunedì, sono in ufficio e decido di mettere su Accidents and Compliments. Al concerto di domenica scorsa, era stata l’ultima canzone
“spingiona” della serata. Appena attacca, la sensazione della testa che
ondeggia a ritmo di cassa dritta mi ritorna dentro, provocandomi ancora lo
stesso piacere.
È proprio vero che “part of the weekend never dies”.
Nessun commento:
Posta un commento