Arab Strap live @Carré Belle-Feuille (Festival BBMix), Boulogne-Billancourt, 25/11/2023 |
Introduzione: un inizio di stagione
È fine novembre ed è venuto un gran freddo. Le foglie cadono dagli alberi,
e mi godo il loro odore quando si accumulano per terra giallognole e ancora un
po’ fresche. Vedere il vapore uscirmi dalla bocca mentre respiro l’aria del
mattino mi mette una certa esaltazione: finalmente finisce una mezza stagione
dubbiosa e arriva un vero inverno. Vado al mercato e noto con piacere il
ritorno di una vecchia amica, l’“endive”, l’insalata belga, compagna fedele
delle mie cene invernali. Tiro fuori dall’armadio il piumino canadese marrone
chiaro, che mi dà un aspetto serio ma gentile. E poi ovviamente, come con la
verdura, mi rigusto un po’ di musica di stagione. L’equivalente delle indivie,
il gruppo invernale definitivo, per me sono i Mineral: quel midwest emo
sensibile, un po’ tremolante un po’ pungente, descrive l’inizio dell’inverno
come non lo fa nessun’altra musica. Metto su The Power of Failing e Five, Eight and Ten mi racconta come mi sento meglio di come potrei farlo io
stesso: un po’ malinconico, un po’ preoccupato dal freddo e dal buio che arriva, ma soprattutto emozionato dalla novità e sorpreso da quest’emozione che si rinnova ogni anno
come una prima volta. Per un po’, voglio godermi questa energia. Poi, magari,
tutte le foglie saranno cadute e i rami degli alberi disegneranno nel cielo scheletri
scuri come nella copertina di Burning From the Inside dei Bauhaus. Ma ancora
non mi sento “dark”, no. Mi sento elettrico come la scarica di feedback che ti
ridesta prima dell’ultimo ritornello di Slower.
Mentre mi godo queste sensazioni di cambiamento del sabato mattina, mi
metto a organizzare la giornata. Verso le 19 stasera devo essere a Boulogne.
Ottimo: una scusa perfetta per farmi una passeggiata di due ore e passa e
attraversare il famoso Bois nell’aria meditabonda dell’“heure bleue”. Poi
arriverò alla sala e ci sarà un grande concerto. Ricontrollo la pagina
dell’evento per avere l’indirizzo preciso e l’occhio mi scivola su una parola
in particolare: festival. Festival, festival, festival… Un festival? In questo
momento dell’anno? Cosa?
Era ancora una fine settembre dal sapore estivo quando è stata annunciata
la line-up del Festival BBMix. Appena ho guardato il cartellone due nomi, in un’associazione
imprevedibile, mi hanno subito fatto saltare sulla sedia: Arab Strap e La
Féline, una combo di artisti diversissimi tra loro che, per motivi diversi,
volevo assolutamente rivedere. Ancora si usciva fuori di casa con le maniche
corte, ai concerti si sudava tantissimo e la parola “festival” aveva quella
naturalezza tipica delle giornate d'estate. Ne avevo anche fatti un bel po’ di
festival quell’estate, più di quanti ne avessi mai fatti, e in tutto ciò avevo
definito la mia politica a riguardo, ovvero: siccome sono sempre esperienze un
po’ impegnative, non me la sento di fare più di una giornata e vengo solo il
giorno in cui ci sono gli artisti che preferisco. Poi se scopro che lo spirito,
la linea editoriale e l’organizzazione generale mi piacciono, tornerò l’anno
dopo un po’ più studiato. Perciò a settembre prendo i miei biglietti per il
sabato del BBMix con serenità e senza pormi la domanda che invece oggi mi
preme: a cosa diavolo assomiglia un festival di periferia a inizio inverno?
***
Lacrime di gioia con R. Aggs e la sua danza
allegra contro un mondo malato
Arrivo al Carré Belle-Feuille con le gambe un po’ provate. La passeggiata
di dieci chilometri e pochissime pause che ho appena fatto mi ha riportato coi piedi per terra, e specialmente la pettata di 45 minuti nel gigantesco
Bois de Boulogne, molto meno bucolica del previsto, ha trasformato la mia
energia minerale in uno stato meditativo un po’ triste (in sostanza ho
attraversato un solo sentiero, costellato di prostitute e parallelo a uno
stradone dove le macchine sfrecciano a tutta velocità). Succede.
Entro nel locale, che in realtà è un teatro dal retrogusto comunale.
Assomiglia a quello che si dice di Boulogne nella regione: borghese, sì, e anche
tanto, ma con un suo lato “street”. Nella grande sala dove di solito si va a
prendere aria in mezzo a due atti, i 2 Limited DJ (un gioco di parole rivolto
ai 2 Many?) stanno mettendo un disco dei Tropical Fuck Storm davanti al bar. Mi
offro subito una birra ma mi accorgo che non posso portarla dentro la sala e mi
trovo costretto a ingollarla in fretta e furia, in questo ambiente un po’
inedito, dove sono più giovane della media e forse anche un pochino intimidito.
Lo spazio dedicato ai concerti è bellissimo, un grande auditorium rosso e
comodo. L’opening act monta sul palco poco dopo che mi sono seduto, le luci
calano e non ci vuole un master in psicologia per accorgersi che l’intimidazione
del luogo è arrivata anche lassù. Con la sua zazzerona di capelli, shorts da
calcetto, calzini e camicia colorata, quest’artista che non conosco mette
subito simpatia. Il tavolo pieno di cavi, aggeggi e altri oggetti esotici
riflette quel caos ordinato tipico degli artisti e degli adolescenti, e quando
noto la chitarra e il violino a fianco di tutto quell’hardware non ho idea di
cosa aspettarmi.
L’artista in questione è Ray Aggs, personalità chitarristica molto attiva
nella scena di Glasgow in tanti gruppi situati tra l’indie rock e il post-punk
(Shopping, Trash Kit o Sacred Paws, toccherà recuperare), che stasera monta sul
palco del teatro sotto al moniker solista R. Aggs. Chi mi legge sa quanto
rispetto io abbia degli opening acts: quello di scaldare il pubblico, metterlo
nel giusto stato d’animo, aprire le danze, creare interesse e aspettativa, è
uno dei lavori più difficili al mondo. Fare bene una o più di queste cose è
fondamentale: ho visto serate finire in sfacelo perché gli opening act non
erano all’altezza. Ovviamente i modi per portare a termine questa missione di
vitale importanza sono infiniti. R. Aggs, in una serata di musica
essenzialmente triste, decide di farlo erogando buonumore sugli spalti come se
stesse sparando da una pistola d’acqua. La sua musica, essenzialmente indie pop
ma dalle solide fondamenta club music, si arricchisce di un chitarrismo dalle
melodie rapide, dolci e concise che è semplicemente pieno di vita. La voce naïve
ma dalle incursioni intense di Aggs, insieme a certi passaggi di violino, ogni
tanto possono dare un’idea di malinconia. Ma non ci si può veramente intristire
davanti al suo modo di ballare autentico e soprattutto al suo sorriso schietto,
che trasmettono un bisogno sincero di elargire positività, mentre le drum
machine e i synth spingono, spensierati.
Chiudo gli occhi e mi immagino sulla pista da ballo. Le canzoni si
susseguono, e tutte scaldano il cuore. Alcune le ricordo ancora, ma non le
ritrovo sui suoi due simpatici album su Bandcamp, il che lascia presagire l’arrivo
di nuova musica (in compenso su Youtube trovate un intero concerto al bar
alternativo Chair de Poule nell’undicesimo arrondissement, per rendervi conto
del fantastico live act, e una chiacchierata di un’ora e passa con Big Jeff, il
più leggendario spettatore di concerti della storia). Dei pezzi che ho sentito
dal vivo, sono contentissimo di ritrovare la minimalista New Beat, che mi
aveva colpito perché suona come quelle scrollate di spalle finto indifferenti che
si fanno ripensando a una vecchia delusione amorosa.
Appena finisce un’altra canzone sorridente, R. Aggs mi prende alla
sprovvista facendo il più bel discorso che abbia sentito quest’anno da
un’artista sul palco: un momento di lucidità per pensare alla crudeltà del
mondo, alla difficoltà di essere artisti e sentirsi a volte inutili, ma
persistere nello scopo di diffondere messaggi che ci facciano sentire umani. Non
si può veramente spiegare perché, ma mi ritrovo con le lacrime agli occhi come
non succedeva da tempo. Non un luccichio, quello succede spesso, proprio le
guance rigate. Meno
male che siamo al buio (“I’d like to say that it’s nice to see you, but I can’t
really see you”).
Per fortuna posso rimettermi a sesto ridendo un po’. Il finale è un omaggio
alla musica house del Regno Unito, sopra le righe e teneramente comico: R. Aggs
sbaglia a premere un bottone facendo glitchare tutto e a quel punto “fuck it”,
prende la sua stessa musica e ci si diverte, la distorce, accelera i BPM
all’inverosimile e ci fa il regalo di proporre qualcosa che nessuno risentirà
più suonato così. Il concerto finisce e mi sento riempito di gratitudine. La
nuova stagione, forse, mi rende ipersensibile. Ma indipendentemente da questo, mi
commuove vedere ancora artisti impegnati in una causa fin troppo sottovalutata,
quella di farci capire quanto l’autentica gioia possa essere un’arma potente
per migliorare il mondo.
***
Lacrime di nostalgia con La Féline e il suo
sguardo sulla terra natale
Mi asciugo un attimo e ne approfitto per andare a fare un giretto di
ricognizione. Il Carré Belle-Feuille si è riempito, anche di facce familiari. I
DJ, che pensavo sarebbero serviti a chiudere la serata, sono lì soprattutto per accompagnare gli intermezzi, e
spinnano roba simpatica compresi i Superchunk. Mi accorgo, però, che gli orari
del BBMix sono belli serrati: non si ha nemmeno il tempo di fondersi un minimo
con l’ecosistema che già bisogna tornare in teatro per un altro concerto. Ma è
coerente che il rituale festival del solstizio d’inverno richieda una certa
austera disciplina.
A questo giro mi siedo vicinissimo al palco: sono davvero curioso di rivedere
La Féline, alias musicale della scrittrice Agnès Gayraud. Quando venne alla
Ferme Electrique del 2022, se non ricordo male, veniva per rimpiazzare un
gruppo un po’ all’ultimo minuto, ma ero riuscito comunque ad esplorare parte
della discografia. Il pop curatissimo e sinuoso di album come il solenne
Triomphe (2017) e l’esotico Vie Future (2019), in particolare, mi avevano decisamente
ammaliato. Il concerto de La Féline dentro al fienile della Ferme, in compenso, era stato profondo quanto irrisolto: la voce e presenza carismatica della
cantante e le sue linee di basso penetranti avevano sedotto praticamente tutti,
ma la formazione estremamente scarna (solo un batterista con lei), in una
setlist che proponeva canzoni decisamente barocche, aveva portato a un senso di
incompletezza o di potenziale non del tutto sfruttato. Poi, verso la fine
dell’anno 2022, è uscito Tarbes.
Al contrario dei suoi predecessori, quest’album ha un concept estremamente
semplice: è un disco sulla città natale dell’artista, Tarbes per l’appunto,
quarantamila anime nell’estremo Sud-Ovest. È un disco con meno florilegi e meno
allegorie, più diretto e facile all’ascolto, i cui temi principali sono il
ricordo, il passato perduto, le origini, che ovviamente a un trapiantato come
me risvegliano sentimenti reconditi. Ed è per questo che sono euforico appena
vedo La Féline (vestita di rosso sgargiante come l’ultima volta) che monta sul
palco con altre tre persone e attacca con l’opener, Tarbes: a questo
giro, con canzoni meno elaborate e più musicisti, penso che sarà un concertone.
Sul mio volto c’è sorriso entusiasta quando Agnès Gayraud comincia a cantare:
“Ça fait un moment que je ne suis pas retournée à Tarbes […] C’est un
peu loin d’où je vis désormais. Les mois passent. La ville où je suis née, oh
Tarbes”. Poi, porca puttana, risuccede: “Je pense aux Pyrénées […] Aux années
de lycée, quand déjà je savais que je partirai un jour de Tarbes”. Lacrimoni di nuovo.
Gli acuti della cantante occitana sono il grido dell’emozione della mia
quinta superiore a Firenze, la consapevolezza di allontanarsi da qualcosa di amato per
una sorta di destino che sembra al contempo inevitabile eppure non del tutto
sensato. Sono sensazioni quasi inspiegabili, che solo una voce speciale come
quella de La Féline possono risvegliare. E così, mentre mi riasciugo questo
pianto precoce, parte Une Ville Moyenne, una canzone d’amore verso la
città dove si è cresciuti, dalle immagini semplici, da poesia crepuscolare: i
gatti, i senza tetto, i muratori, “la folla graziosa delle strade pedonali”. Il
pop dalle velleità funk è confortante, di una nostalgia senza tristezza. Mi
riò, e finalmente mi posso godere la musica senza essere troppo sopraffatto
dalle emozioni.
Il quartetto di stasera è composto dallo stesso batterista della Ferme,
dallo stile discreto ed elegante, i sintetizzatori suonati da un’altra bravissima
cantante e una chitarra blueseggiante che sa aggiungere quella vena di
inquietudine tipica di quando il sound de La Féline si fa un po’ oscuro. È il
caso, per esempio, di Place de Verdun, ricordo di una tumultuosa
passione giovanile da vecchio film erotico francese, oppure Va pas sur les quais de l’Adour, una tenebrosa descrizione delle passeggiate che tutti noi
abbiamo fatto almeno una volta in luoghi poco consoni allo “struscio”, senza
sapere bene perché né per come. Ma Tarbes, che è il fulcro del set di stasera,
è molto altro: sono le storie medievali delle nostre città, come quella di Jeanne d’Albret, canzone dall’epica tragica sulla regina protestante che bruciò la
cattedrale (secondo la versione di Gayraud, lo fece lei stessa personalmente);
è la malinconia di vedere le cose cambiare quando si torna a casa, come nella
dolceamara Tout Doit Disparaître; sono le tradizioni che abbiamo nel
nostro DNA anche se non le pratichiamo veramente, come quella della lingua
occitana: la versione a cappella a due voci di Fum è da pelle d’oca.
Il concerto de La Féline, insomma, è toccante e mi entusiasma. Il finale è
splendido: l’elegia de La Panthère des Pyrénées, omaggio alle nostre geomorfologie
interiori e alle topografie della terra natale: pendii, creste rocciose, massi,
animali mitici. Il crescendo è mistico e sensuale (come diceva il Maestro del
pop sofisticato) e amo pensare che trasporti i presenti sulle proprie
montagne del cuore: io personalmente mi immagino a fluttuare sopra al Passo
dell’Abetone nell’Appennino Tosco-Emiliano. Allo stesso modo, la scanzonata Dancing
parla della pista da ballo un po’ dubbiosa che ognuno di noi ha avuto in
gioventù (ci si vergogna di parlarne, di questa, contrariamente alle montagne).
Sotto le note della strumentale vellutata de La Route de Pau, Agnès Gayraud e soci si prendono una pioggia di meritati applausi. “Bràva!”, le urlo, e a questo giro non è tanto perché voglio distinguermi dalla folla (in francese si usa “bravó” per dire “brava”, “bravi”, “brave”), ma perché mi sento davvero un po’ ritrasportato in quel labile concetto che è “la mia terra”. Ormai, dopo tanti anni qua in Francia, non saprei bene cosa vuol dire. Di sicuro, però, non è un luogo dove si dice “bravó” per applaudire i grandi artisti. Mi concedo almeno questo piccolo moto di fierezza, tipica di noi toscani, ma, si dice a giro, un po' anche degli occitani.
Niente lacrime con gli Arab Strap e la loro
autentica tristezza
Il prossimo concerto è tra quindici minuti e la coda al bar (per comprare
birre “da shot”) sembra infinita. Onestamente, meglio così, la birra nemmeno mi
va. È una serata più sentimentale che festaiola, e mi va di restare ancorato a
questa comoda sedia reclinabile, a guardare Aidan Moffat con la sua barbona
bianca che sistema il palco con faccia seriosa.
Non mi sembra cambiato per niente da quando ho visto gli Arab Strap in
concerto l’ultima volta. Certo, era tanto tempo fa, e un’esperienza sensoriale
del tutto diversa. Eravamo al Primavera Sound, avevo appena visto i Descendents
(momento più bello della mia vita?) e Paolo quasi trascinò quel mucchio di
stracci e sudore che rimaneva di me a vedere questo gruppo scozzese che non
conoscevo, a parole sue “iconico degli anni ‘90”, di cui non sapeva veramente
spiegarmi il genere. Ancora una volta, e sono due articoli di fila che lo dico,
grazie Paolo. Quello che vedemmo quel giorno fu un concerto penetrante in tutti
i sensi: ricordo ancora le drum machine a volumi altissimi che suonavano come
bastonate, e la voce di Moffat che, pur non capendo niente di quel che diceva,
mi raccontava storie sulla dura banalità, e la banale durezza, della vita. Dopo
un concerto di musica adolescenziale, speranzosa (avevo perso la voce cantando Hope),
ecco che mi piombò addosso l’immagine che avevo dell’età adulta. Dischi
effettivamente iconici come The Week Never Starts Round Here e Philophobia in
realtà sono stati pubblicati quando i due Arab Strap avevano 23, 25 anni, e raccontano
della vita sociale studentesca, di relazioni un po’ casuali, di amici di amici,
di feste e di eccessi: tutte tematiche giovanili, ma private di ogni tipo di
spensieratezza. Persino The First Big Weekend, che a prima vista sembra
una divertente epopea di cazzonaggine da liceale, in realtà è una canzone sul
sentirsi fuori posto, incapace di divertirsi, tormentato da un sentimento di
inadeguatezza sociale, in cerca di oblio…
Nonostante la profondità dell’essenza della loro musica, gli Arab Strap possono
avere anche un lato festoso e quella sera a Barcellona furono capaci di dosarlo
come si deve, dimostrando di saper essere dei veri mattatori. Accompagnati da
tanti musicisti, di cui anche un violino, i due scozzesi fecero uno show
storico, emozionante e ricco di intrattenimento. Primavera
Sound: Live in Barcelona (2017) degli Arab Strap è l’unico live album tratto
di un concerto a cui ho assistito, o almeno l’unico che consideri davvero rilevante.
È registrato benissimo ed è pure gratis su Bandcamp. Difficile trovare scuse
per non scaricarlo.
Stasera tante cose sono diverse da quel giugno di sei anni fa. Non è solo che siamo
in un teatro, o che è inverno. Stasera gli Arab Strap ci portano uno show che
si chiama Philophobia Undressed. Il loro album di culto del 1998, Philophobia,
verrà suonato per intero e, anzi, “denudato”, anche se non so cosa vuol dire.
Due cose vanno specificate: uno, Philophobia è uno dei dischi più tristi che
conosca. Due, ormai ho pianto a tutti i concerti di stasera, e anche per motivi
abbastanza inspiegabili e imbarazzanti: ho un vero timore di cosa sta per succedere.
Ma poi, finisce che non verso nemmeno una lacrima. Non è che la performance
non sia profonda o sentita, no. È che si può piangere di gioia, di rabbia, di
commozione, di disperazione e di mille altre cose, ma è davvero difficile
piangere di pura e semplice tristezza.
Gli Arab Strap montano sul palco in due, come nella loro formazione
originale. Non ci sono fronzoli né arrangiamenti particolari: Aidan Moffat
canta, manda delle basi semplicissime (basso, drum machine e un paio di
strumenti al massimo) e suona un piatto e un timpano; Malcolm Middleton non
molla mai la sua chitarra e disegna musica. Non è minimalismo, è essenzialità.
La loro musica, non per caso, è indefinibile: indie sì, ma troppo poco
energetico per essere rock e troppo poco orecchiabile per essere pop;
elettronica sì, ma né veramente club, né veramente sperimentale. È musica che non vuole appartenere a un genere, ma il cui solo obiettivo è quello di comunicare.
Parte Packs of Three e piombiamo subito in un oceano di
nichilismo. Moffat parla di dispiaceri sessuali con una tonalità che ti stringe
le budella e il suo accento scozzese, che sei anni fa nell'euforia generale mi
era sembrato un elemento di “novelty”, oggi mi appare come uno strumento, per
l'appunto, di messa a nudo. Tante band scozzesi ci hanno insegnato che di
cantare in “BBC English” ne sono facilmente capaci. Cantare nella stessa
maniera con cui si parla nella vita vera è la scommessa di chi accetta di
portare gli ascoltatori nella propria quotidianità. E nello squallore degli
aneddoti di chi è cresciuto troppo in fretta nella Glasgow a cavallo tra anni ‘80
e ‘90, fa male catapultarcisi. Il bello di Philophobia, però, è che la sua
musica è deprimente ma mai repulsiva, e nel dolore si aprono tantissimi
spiragli di lancinante bellezza: il riff che arriva alla fine di Here We Go
è cupo ma dolce come una carezza, la coda distorta che nobilita il mogio
spoken-word di New Birds è esaltante, il lungo tappeto sonoro di Islands
è un barlume di speranza (“There’s land ahoy”). In molti, me compreso, hanno
detto che in fondo Philophobia è un disco slowcore, ma anche questa definizione
gli sta stretta: ci sono canzoni che sono persino vivaci, come Not Quite a Yes, un bilancio crudo sulle contraddizioni di quello strano costrutto
sociale che è la seduzione.
Un’altra cosa davvero impressionante di Philophobia è come sia un album
tristissimo e lungo più di un’ora ma che in realtà è ben digeribile e scorre in
fretta. Ogni canzone è un piccolo pugno nello stomaco, ma sempre nuovo e che ti
lascia sempre la curiosità di vedere come sarà il successivo. “It’s not the
most cheerful record”, dice Aidan Moffat in glaswegian, facendo ridere
nervosamente tutto l’uditorio. I Would Have Liked Me a Lot Last Night
colpisce particolarmente in profondità: sarà che ho appena letto Trainspotting,
sarà che mi ritrovo a pensare che è stata scritta 25 anni fa da due ragazzi di
25 anni, e che ho 25 anni in questo momento… Resta una canzone di un’attualità
disarmante, che racconta tutto ciò che non vorrei diventare e che ho paura che
i miei amici diventino, una dichiarazione di annichilimento spaventosissima.
Philophobia finisce di divorarci i sentimenti con la closing track The First Time You’re Unfaithful, donandoci, dopo tanta inevitabile volgarità (sesso,
droga, gelosia…) una prova di delicatezza e di coscienza di sé: “You said you
know what I’m like”…
Sentire Philophobia è stato un privilegio irripetibile, e non me ne
frega nemmeno granché di pretendere una First Big Weekend (per quello posso
aspettare il PS 2024). L’encore ci vizia comunque con due canzoni del
repertorio “quasi-ballabile” degli scozzesi: The Turning of Our Bones, coito
inquieto e perverso, e la struggente The Shy Retirer, grande classico
nonché una di quelle rare canzoni che sanno rendere la house music tragica.
Il concerto termina ed è stato molto apprezzato da tutto il pubblico. Sondo
rapidamente i volti dei miei vicini di posto: sono tutti seri, non contriti ma
sicuramente segnati. Chi è venuto da solo, come me, non sembra volersi
attardare nell’atrio tra bevande, DJ e merchandise. Dopo il set degli Arab
Strap, accogliere il freddo delle strade di Boulogne e crogiolarci nella
consueta solitudine della metropolitana sembra un buon piano per sentirsi bene.
Conclusione: la stagione continua
La giornata di oggi, e la musica di stasera, dipingono perfettamente la parabola
delle sensazioni dell'arrivo di un lungo inverno. All'inizio un entusiasmo che sfida l'intimidazione del freddo con ottimismo. Poi, subito
dopo, una languida malinconia che però dà ancora un sentimento di conforto
inspiegabile e domestico. Infine, l’accettazione che la semplice e pura tristezza esiste, e che bisogna viverla senza artifici se non, al limite, un briciolo di
fiera rassegnazione. In questo trambusto emozionale, il Festival BBMix ha avuto
il ruolo di fautore della catarsi, come le tragedie in un teatro greco: la serata di oggi è stata un vero e proprio rituale di purificazione.
Durante il suo set, a un certo punto La Féline dice che anni fa era venuta al BBMix per vedere gli Young Marble Giants. È lì che mi sono incuriosito davvero alla filosofia del festival e ho esplorato le vecchie line-up. A parte che ci sono stati headliner da capogiro, tutti con un'essenza squisitamente invernale, ma poi hanno tutti come fil rouge il concetto stesso di catarsi: Swans, Spain, Boris, James Chance & The Contorsions, Wire, Faust… Andare a un festival per ritualizzare l'arrivo della stagione più dura dell'anno e accettarla con naturalità mi sembra un concetto bellissimo. Magari l'anno prossimo sarà tramite scariche di drone e shoegaze, ritmi sabbatici e ossessivi oppure ancora con la crudezza di uno slowcore scheletrico. Poco importa: l’idea mi convince e l'anno prossimo presenzierò.
Ma l'anno prossimo è ancora lontano. È cominciato un lungo inverno, e
probabilmente non sarà facilissimo. Ma la stagione continua.
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