giovedì 23 maggio 2024

Adulti ma mai troppo - Johnnie Carwash, il dopolavoro pop-punk che ti insegna la vita (Special guest: Altwain)

Johnnie Carwash live @La Boule Noire, Parigi, 16/05/2024

Introduzione

I contratti sono stati firmati in gran fretta. Alle 16:44 parte il treno che mi porta dalle profondità del Passo di Calais fino a Parigi, e io con il mio stagista sono stato inderogabile sugli orari. “Vabbè, il ritorno lo compriamo quando abbiamo finito l’appuntamento, no?”, mi ha chiesto. “Ah no”, gli ho risposto con fare da businessman, “Proprio no. Io devo assolutamente montare su quello delle 16:44. Ho impegni in città stasera”. Il ragazzo deve davvero vedermi come un venditore di un certo livello, penso mentre firmo copie su copie di promesse di affitto di parcelle agricole o mentre, ridendo e facendo l’amicone col simpatico contadino nordico, gli lancio un paio di sguardi di sbieco per controllare che stia verificando bene se tutte le pagine sono siglate a dovere. Strette di mano, biglietti da visita, promesse e frasi di circostanza. “Scusate, dobbiamo scappare”; “Grazie mille per la fiducia”; “Vi richiamerò senza dubbio non appena il progetto avanza”; “Alla prossima, spero”. Per un attimo, un attimo solo, tutto sembra ridicolo. Poi monto in macchina e, salutando con la manina, usciamo dalla fattoria. Mi giro verso il mio assistente. “Dieci ettari in one-shot? Let’s fucking goooo!”.

La mia sguaiata esultanza mi rivela qualcosa a cui non so come reagire. Ho appena avuto una scarica di adrenalina dovuta al fatto di essere riuscito a far firmare dei contratti a un cliente in relativa efficacia, e la cosa non riesce ad avere un senso immediato nella mia testa. Sono un po’ tramortito da questa piccola rivelazione: allora è questa la vita adulta? Mi riscuoto e me ne frego, sono comunque troppo contento: contento di non dover stare dietro a questo signore, chissà per quanto tempo, per dirimere le formalità e andare alla firma; contento di essere stato due giorni lontano da Parigi, mangiando un po’ male e dormendo in una città del cazzo, ma tornare a casa con qualcosa di concreto tra le mani; contento, perché no, di avvicinarmi un po’ di più al bonus aziendale di fine anno, grazie a questo documento che attesta della qualità e quantità del mio lavoro. Guadagnare tempo, soldi, fiducia in me: ragioni di gioire nobili, per carità, ma talmente seriose e responsabili…

Sentendomi un po’ in imbarazzo con me stesso, chiedo allo stagista se vuole mettere lui la musica. Il lavoro è finito, si torna a casa, e dopo due giorni che in macchina lo ammorbo con Nirvana, Superchunk e Shellac gli concedo questa regalia. Mette i Green Day. I Green Day sbagliati, ma pur sempre i Green Day. Uno dei gruppi più adolescenziali di sempre. Non può essere un caso. Accelero e mi prometto che stasera faccio baldoria.

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Piccoli piaceri da adulto, grandi dispiaceri da ragazzino

Poche cose mi rendevano contento, da ragazzo, come fare qualcosa di festoso il sabato sera. La settimana era lunga e uscire da scuola dopo quei sei giorni di durissima simil-prigionia, consapevole che la notte avrebbe portato rumore, ebbrezza e risate, era la sensazione di libertà definitiva. Ora che sono un onesto commerciale e ho obblighi meno stringenti su cosa fare del mio tempo e su dove passarlo, capita che la serata di festa che segue una settimana faticosa non assuma tanto i contorni dell’emancipazione giovanile quanto quelli di uno sfogo un po’ working-class: ci si rivendica il diritto di abbandonare la professionalità, o ancora la necessità di accantonare un modo di fare e di essere tristemente produttivista, per anzi regredire e dedicarsi ad attività magari non distruttive, ma di certo non a valore aggiunto: urlare, ballare, scatenarsi, dire cose stupide, bere. Lo ammetto, quel classico: “Ho sgobbato come un mulo, stasera mi dilanio” scevro di qualsivoglia pulsione romantica a volte me lo sento proprio mio e stasera, dopo quattro giornate di fila a girare per piccoli comuni di campagna, ho l’impressione di meritarmelo proprio. Pure se è giovedì.

Va detta un’altra cosa, però: il mood da lavoratore casinista ha più controindicazioni di quello da studente che esce dalla gabbia. In particolare, va detto che lo sfogo dell’impiegato, se lo svago è ben predisposto ma l’umore è cattivo, corre talvolta il rischio di trasformarsi in un tour de force di tristezza alcolica (quantomeno, nelle serate di gioventù il calore dell’amicizia si faceva sempre un po’ sentire). Ho predisposto praticamente tutta la settimana e tutti i suoi infiniti appuntamenti professionali intorno alla ricompensa che è il concerto di stasera: sarebbe un peccato arrivarci mesto, no? Ma il destino vuole che ultimamente io stia suonando molto in una band con la mia amica Lauren e in qualche modo questa convivenza forzata stia portando con sé un ciclo di piccole litigate e immediate riappacificazioni di certo non malsano, anzi, ma dal sapore quantomeno amarognolo. Mentre sono sull’autobus per tornare a casa dalla stazione e cambiarmi (la tenuta “rural business” per andare in città a far festa è troppo anche per me che non tengo allo stile) finisce che le scrivo un messaggio scherzoso, uno sfottò a cuor leggero, e ricevo in risposta un lapidario: “Puoi smetterla di dirmi cose veramente poco gentili?”. Non entro nel dettaglio del malinteso in questione ma, onde trasmettere un’idea del mio stato mentale mentre mi sto preparando a uscire, vi riporto un paio di filamenti dei flussi di coscienza, tutti un po’ diversi, che partono nella mia mente:

1) Vittimismo: “Ma possibile che noi toscani ogni volta che scriviamo una cosa ironica per ridere finisce che gli stranieri ci prendono per degli stronzi patentati?”

2) Giustificazione: “Ok, non ho trovato una formulazione felice, però cazzarola, si vede che non volevo essere cattivo.”

3) Disprezzo di sé: “No, ma in realtà il problema è che non sono proprio capace di comunicare.”

4) Vendetta: “Certo che quando eravamo alle prove ed ho letto che era morto Steve Albini lei nemmeno si è accorta di quanto ci fossi rimasto male, anzi, non ha proprio capito la situazione. Eppure mi ero spiegato benissimo, avevo parlato di tutte quelle volte che ho visto gli Shellac, e poi la sera quando ho detto ‘Shellac’ mi ha chiesto di cosa parlassi… Me la sono legata al dito. Adesso almeno siamo pari.”

Finisce che arrivo alla Boule Noire col muso e un po’ alticcio (il pastis casereccio era per risparmiare soldi per il merch, non mi giudicate). Nella mia testa ci sono due poli di emozioni contrastanti: da un lato questa volontà di staccare, distrarmi e dimenticare che testimonia del mio ingresso nella vita adulta, dall’altro quel turbinio di sensi di colpa, tristezza e risentimento che fin da adolescente torna sempre a far capolino quando ho paura di perdere gli amici che considero fratelli per la vita. Stasera alla Boule Noire suona un gruppo che amo. Si chiamano Johnnie Carwash, suonano un pop-punk dalle influenze indie e twee ma tremendamente elettrico e potente. Questa band ha pubblicato due album, e guarda caso il primo si chiama Teenage Ends, il secondo No Friends No Pain. Bastano anche solo questi due titoli per capire che, nella loro musica, la mia vita ci si riflette abbastanza. 

Se vi è già capitato di leggere uno dei miei panettoni in prosa ormai sapete che andare ai concerti da solo è una pratica il cui mio apprezzamento spazia dal “non mi dà fastidio” al “mi fa un immenso piacere”. Ecco, in alcune rarissime situazioni lo spettro si allarga e arriva a includere il “mi fa girare i coglioni”, e oggi è una di quelle. Sarà che davo per scontata la presenza di Théo e Maxime, che invece ho scoperto assenti poche ore fa. Sarà che tra una storia e l’altra arrivo a pelo per l’opener (in teoria sarei in ritardo) e non posso nemmeno gironzolare e scambiare due chiacchiere con chicchessia perché la stanza è già buia (conosco, toh, giusto la barista, che mi serve una birra che meriterebbe già di essere l’ultima). Sarà che, in generale, quel che mi trasmette anzitutto la musica di Johnnie Carwash è un certo sentimento di comunanza e complicità che stasera per me si trova da tutt'altra parte.

Quando ho visto il trio lionese nell’estrema periferia parigina, anni fa ormai, in una serata dei Pogo Car Crash Control gremita di gente, ero rimasto particolarmente stupito di quanto il loro riffing coloratissimo e le loro ritmiche superveloci riuscissero in qualche modo a rendere il pubblico coeso, in un pogo furibondo quanto profondamente tenero. Ho ricordo di vedere gente abbracciarsi in mezzo al macello generale, e la cosa ha completamente senso: tutto, in quel che suonano Johnnie Carwash, richiama quelli che considero i capisaldi di ciò che si condivide in un rapporto di amicizia: racconti di dure storie di vita vissuta (tipo quando ti hanno offesa perché indossavi una Slut Skirt), confessioni di problemi sentimentali (Francis Cosmic, il tumulto di una cotta fatto canzone), ma soprattutto l’ammissione delle proprie fragilità (penso a Junk Food, inno dell’autocommiserazione alimentare che dopo le dosi ingenti di patatine fritte degli ultimi giorni sento molto vicino). Persino nella sua identità sonora, la band non fa che evocare col suo dolce rumore le sensazioni di fratellanza che rendono la vita degna di essere vissuta: ogni idiosincrasia sembra quasi una “running gag” tra amici, e perciò i gorgheggi della cantante Manon Tsaheli (quante melodie istantanee che possono essere trascritte solo con: uh-uh-uh-uh-uh-uh), le pause ritmiche calibrate alla perfezione e i finali a sorpresa sono tante delle piccole cose che, come in una bella amicizia, in superficie sembrano solo una piccola dispensa di simpatia ma in realtà costruiscono le fondamenta del sound, o dello stare bene insieme. 

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Altwain: indie rock, tu sì che mi capisci

Ecco, tutte queste cose stasera le sento lontane: non ho nessuno con cui fare una battutina del cazzo, condividere un mio dispiacere, magari scherzando e alzando le spalle ma facendo capire che a volte non è facile. Sono solo davanti a quattro sconosciuti che fanno l’opening act perciò faccio una cosa che ho sempre saputo fare: subire. Quello che arriva alle mie orecchie però ha il potere di rinfrancarmi senza nemmeno toccarmi. Immagini un po’ sfocate degli anni ’90 che non ho veramente vissuto mi scorrono davanti senza nemmeno chiedere il permesso a ogni strummata di chitarra, o a ogni nota lunga in cui il cantante non nasconde la voce un po’ lamentosa, e in queste istantanee intravedo qualcosa di inaspettato: un sorriso. L’indie rock in purezza, intimista e un po’ fragile, mi sorride e mi dice una cosa che ho sempre saputo ma che è sempre bene ricordare: lui mi capisce, e per me ci sarà sempre. Ci vuole così poco, a volte.

Il quartetto che mi sta risollevando il morale, scopro dopo la ballata più accattivante che ho sentito negli ultimi mesi (I Fall Behind, che suona come una versione da scantinato, nel senso più positivo possibile, di un pezzo di Darklands di Jesus & Mary Chain), in realtà è una one-man-band. Il ragazzo che canta ha registrato da solo un disco (in maniera deliziosamente lo-fi, scopro poi con piacere) e ha deciso di portare al pubblico la sua musica avvalendosi di musicisti usciti da band di tutto rispetto (una di loro suona con Irini Mons, che secondo fonti confidenziali sarebbe il gruppo francese del momento). I pezzi del recente EP Waltz of the Blades suonano da dio nell’impianto della Boule Noire, e trasmettono un’energia emozionale travolgente oltre che una passione smodata e mai celata per il rock dei nineties, il mio (il nostro) preferito. Le canzoni, soprattutto, sono scritte proprio bene e hanno sia una sonorità un po’ retrò che un effetto novità difficile da spiegare: mi verrebbe quasi da dire, con una battuta un po’ sarcastica, che Altwain sono i nuovi vecchi Hoorsees, anche se un po’ più emo e meno festaioli della band parigina che ci regalò A Superior Athlete. Il concerto scorre fresco come un balsamo di tigre sulle mie piccole contusioni interiori, con vari momenti salienti: il Waltz of the Blades in questione, che altro non è che uno slacker rock in tre quarti oscillante quanto schietto, o ancora U Feel Fine, una bomba jangle-pop che, pur essendo sorprendentemente convoluta per il suo genere, ha un impatto roboante.

L’highlight del set, però, è indubbiamente Elliott, canzone dedicata a Elliott Smith nel principio ma, stasera, a Steve Albini. E Altwain, mentre io urlo un po' troppo forte, lo rimarca bene: “Domani nuovo album”, e chi come me l’album in questione lo aspettava da tempo e si ritroverà ad ascoltarlo con uno spirito diverso da quello previsto, semplicemente, sa. L’intro di basso mogia, le corde tese di una chitarra solista sghemba e dal sapore fatato (nel senso di Pixies), la voce che si fa sempre più svuota-polmoni: è tutto molto intenso e chi vuole, se vuole, può vederci uno o più messaggi sulla vita: non si è mai soli, essere tristi è ok, la vita continua e altre banalità che raramente si ha il coraggio di ammettere che banalità non sono. Così com’è l’indie rock: anche il più basilare, il più dritto al punto, senza contaminazioni o influenze esoteriche, senza grandi tecnicismi, che potrebbe essere uscito trent’anni fa e nessuno se ne accorgerebbe, lo si può accusare quanto si vuole di essere banale ma, quand’è fatto bene, non lo sarà mai veramente. E, proprio alla fine del concerto, sento Altwain descrivere un fantasmatico Elliot Smith con le parole: “Messy hair”. Messy Hair era il nome di un show radiofonico di sola musica anni ’90 che tenevo qualche anno fa. Non può essere un caso.

Applaudo, esco dal locale e fa ancora giorno. Fumo una sigaretta e mi accorgo che non sono nemmeno più scazzato. Sono solo un po’ su di giri, perché è quattro giorni che mi vesto da adulto, vendo le performance di un’azienda di pale eoliche a sindaci di villaggi sperduti e firmo contratti. Perché è proprio arrivata l’ora di staccare da tutta questa compostezza. Mi sa che è ora di andare a dilaniarsi.

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Johnnie Carwash: perché noi adulti abbiamo bisogno di pop-punk

In una Boule Noire parecchio pigiata (ebbene sì, sold out) mi approccio a rivedere, finalmente, uno dei miei gruppi del cuore. Non l’ho ancora detto, ma Johnnie Carwash sono una delle band francesi che ascolto di più in assoluto. Quando ho scoperto Teenage Ends nel 2022 è stata una piccola rivelazione: è stato un po’ come avere, dopo anni di bianco e nero, un nuovo punk a colori. In quest’anno domini 2024, il fenomenale No Friends No Pain è venuto a riconfermare la tendenza: i lionesi sono semplicemente di un livello superiore. Non succede così spesso di trovare una band così estrosa, sincera e piena di vita, dal suono così coeso ma che non sembra mai voler rispettare dei canoni preimposti (le canzoni, ad esempio, sono a volte caramelline da nemmeno due minuti, a volte epiche da più di quattro, e in nessuno dei due casi è una forzatura). Soprattutto, non succede quasi mai in un genere che, suo malgrado, è tra i più manieristi e artefatti al mondo: il cazzo di pop-punk. Sia chiaro, io amo il pop-punk, anzi: una delle prime volte che mi sono sentito davvero adulto è stato proprio quando, piallandomi un disco dei Saves the Day mentre bazzicavo Excel, mi sono accorto che durante la mia adolescenza, quella vera, di musica così ne avevo ascoltata troppo poca. Ciò che mi rende ultra-selettivo in materia di pop-punk, però, è soprattutto una questione di natura matematica: il problema della teoria commutativa.

Quanti sono i gruppi che ho provato ad ascoltare a fondo, non riuscendo mai a entrarci dentro perché, purtroppo, cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia! Posso fare degli esempi: Suffer dei Bad Religion, che in teoria è un capolavoro del suo genere, è un disco che non posso soffrire (ahah) perché mi dà costantemente l’impressione essere preso per il culo da una band che ha una bagaglio di idee musicali miserrimo ma che è bravissima a riproporle a ruota per farle sembrare un “signature sound” (diceva un grande cuoco veneto: “Stessa merda de prima, disposta in modo diverso”); un gruppo come gli Anti-Flag, che invece le canzoni interessanti le sapevano scrivere, possono anche sciorinarmi un universo sonico tutto nuovo ma bastano pochi minuti di ascolto affinché le infinite invettive politiche di Justin Sane diventino indistinguibili da un Ugandan Knuckles qualsiasi che mi urla nelle orecchie: “El gobierno te miente”!

I gruppi pop-punk che amo, perciò, fanno essenzialmente parte di due categorie: ci sono quelli che sono talmente originali nel sound che non mi importa che siano ripetitivi (penso ad esempio ai Cigar, che suonano in modo talmente rischioso da far passare il songwriting in secondo piano), oppure quelli che magari hanno un sound semplice ma sanno accostargli una giusta varietà stilistica e tematica (dite quello che vi pare, ma il periodo d’oro ’99-’01 dei Blink-182 altro non rappresenta che questa maestria ed equilibrio). Cosa succede quando i due fattori (sound strabiliante; capacità di saper svariare) si sommano? Penso che l’esempio chiave siano i Descendents, un gruppo talmente fondamentale che me lo sono tatuato sulle gambe. Poco sotto, ci sono Johnnie Carwash. Per farvi capire il livello.

E quando vedo gruppi di questo tipo in concerto è come se fossi travolto da un’incontrollabile alluvione di buonumore. Mi mette di estremo buonumore il fatto che, come ai concerti degli anni ’50, ci sia un presentatore: Johnny Chômage, un sedicente hard-rocker tutto cuoio che annuncia la band come se parlasse di personaggi mitologici; mi mette di buonumore il setup: il batterista Maxime Frain, tra i più impressionanti in circolazione, picchia talmente tanto sul suo ride/crash che non ha neanche bisogno di metterci un panoramico vicino, basta il microfono del bassista Bastien Boudet (che fa le seconde voci su un panoramico: what the fuck?); mi mettono di buonumore gli abiti che sono tutto tranne che da veri duri: una salopette “sotto la quale gira la voce che non ci sia nulla”, un paio di shorts da bagno, un abito rosso da pic-nic sul lungo-Saona. Ma quando parte la musica mi accorgo che c’è altro, oltre al buonumore. Ci sono i riff e le melodie, c’è il rumore, c’è l’energia, distillati con sapienza e inebrianti. Ma ci sono anche i testi.

C’è, ad esempio, l’accettazione della propria condizione, qualsiasi essa sia. I’m a Mess? Sì, a volte sì: sono mezzo ubriaco, da solo, fuori c’è ancora il sole e domani in teoria lavoro ancora. Stuck in my Head? Beh, sì: mi è bastato irritare brevemente una persona per diventare tutto un’elucubrazione. Anxiety? Mi capita: poco fa ero convinto che la serata sarebbe finita a guardare il mosh-pit da un angolino e tornare a casa completamente depresso. È incredibile come cantare a squarciagola i ritornelli di queste canzoni, dalle melodie semplici e viscerali, abbia un effetto terapeutico sui propri malesseri.  Ma la musica di Johnnie Carwash non è solo coscienza di sé. Sono, come dicevo anche prima, i racconti dei momenti tra i peggiori della nostra vita che ci fanno dire: “Dai, tutto sommato potrebbe andarmi di peggio” (“Public Toilet you’re so closed / I hate you you are the worst”). È affrontare con audacia i nostri peggiori imbarazzi, quelli che a distanza di anni ci fanno ancora bestemmiare dal nulla quando ci ricordiamo di quanto siamo stati ridicoli (Napoléon mi ricorda troppo una rara volta che a scuola rifiutai il corteggiamento di una ragazzina cotta di me; e, per fortuna un po’ meno, delle svariate volte che è successo il contrario). È anche scavare in questi ricordi e in questi sentimenti più infantili e scoprire che alla fine non siamo poi così tanto cambiati (I Wanna Be In Your Band racconta di quel misto tra ammirazione e invidia nei confronti della gente “cool” che ci circonda; un po’ l’ho pensato anche stasera, mentre fumavo da solo e, vedendo certi personaggi ricorrenti ridere in circolo, mi sono detto: “Loro non lo sanno che c’è un tizio che scrive mallopponi in italiano sulle loro serate”).

E poi, infine, la musica di Johnnie Carwash è puro e semplice benessere: è pensare a un sole che sorride mentre ululiamo le melodie di Sunshine (l’intro più svergognata nella storia dei sophomore albums: le linee vocali di Tsaheli sono semplicemente geniali); è cantare cori iconici saltando da tutte le parti (è mai riuscita a non funzionare U Want Me Dead, la prima canzone di Johnnie?); sono le tastiere suonate dal batterista in U’re a Dog, che fanno pensare a vecchi videogiochi della nostra infanzia. È anche, ogni tanto, rallentare, riprendere il fiato e ammirare la vita da lontano, come nella bellissima e toccante WALIAG, dolce ballata indie pop che in mezzo a una tempesta di BPM vertiginosi e distorsioni assassine riesce a non stonare affatto.

Può sembrare un controsenso, ma è la musica più adolescenziale che esista che ci può fornire gli strumenti per vivere bene le difficoltà del passaggio all’età adulta. Ammettere i nostri problemi e i nostri errori, relativizzare, rifiatare, stare bene con noi stessi sono cose di cui, crescendo, si ha sempre più bisogno. E il buon pop-punk, queste cose, ce le può dare tutte. Ma soprattutto, il buon pop-punk ci ricorda sempre che, alla fine, non bisogna avere paura di invecchiare, finché riusciamo ad accettare noi stessi. Perché, come ho già avuto modo di affermare in passato, in noi stessi resterà sempre, finché lo vorremo, almeno una piccola parte di pura emozione adolescenziale.

Ma non basta. A volte ci vuole anche un po’ di sano menefreghismo che ci aiuta a non farci abbattere troppo dalle fatiche del lavoro, dagli scazzi con gli amici, o da tutte le altre cose da adulti. Ci pensa la sequenza finale del concerto di Johnnie Carwash a riassumere questa filosofia: Teenage Ends, certo. Ma I Don’t Give a Shit.

Non può essere un caso. 

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Conclusione

Qualche parola per concludere, anche se non ce n’è bisogno.

Uno: mi scuso per la qualità orripilante della foto che ho fatto. Ho imparato di nuovo, dopo l’episodio Mary Bell, che dalla Boule Noire è praticamente impossibile uscire con del materiale audiovisuale decente. Tanto peggio.

Due: ringrazio la gioventù del comune di Barga per avermi imprestato l’espressione, anche se non gli ho fatto onore: non si dice “dilaniarsi” ma “dilaniassi”. Per chi si preoccupa per me, mi sono dilaniato, sì, ma con responsabilità e moderazione. Il giorno dopo ho persino lavorato discretamente bene. 

Tre: Steve Albini avrebbe sicuramente disprezzato quest’articolo, e a me avrebbe fatto piacere. Per quanto poco può valere, dedico tutte le mie parole ed emozioni alla sua memoria.

Ultima cosa: quest’estate, a un festival vicino ad Albi, Johnnie Carwash suonano lo stesso giorno dei Descendents. Ripetermi così tanto diventa quasi ridicolo ma porca vacca, non può veramente essere solo un caso. 

Ci vediamo lì.

mercoledì 1 maggio 2024

Reverso (Episode 2) - Bien plus qu’un énième concert d’Ivanoska : ce qu’est le 25 avril pour un italien

Ivanoska live @Piazza Santo Spirito, Firenze, 25/04/2024

Quand je révèle ma date de naissance à quelqu’un qui vient d’Italie, peu importe son âge ou sa région d’origine, je reçois toujours en retour un grand sourire et une phrase du genre : « Ah, la chance ! » ou « Incroyable, quelle coïncidence ! ». Le 25 avril ici est certes un jour férié, mais ce serait ridicule de le comparer à d’autres festivités similaires en France ou en Italie, tellement sa date est-elle évocatrice : c’est une journée qui est vécue comme une fête véritablement nationale et propre à nous les italiens, un peu comme le 14 juillet pour les français, mais en réalité elle n’a pas la valeur institutionnelle que peut avoir une célébration de naissance d’une république (nous l’avons aussi, une Fête de la République : c’est le 2 juin) ; elle célèbre, de fait, la fin de la Deuxième Guerre mondiale, tout comme la Fête de la Victoire du 8 mai, mais elle est incomparable, par mobilisation citoyenne et valeur sentimentale collective, à ce « V-day » transnational un peu mou ; elle commémore, tout comme l’Armistice du 11 novembre, des soldats tombés au combat, mais non de façon patriotique, identitaire et presque nationaliste, mais au contraire en rendant hommage au courage de la lutte armée résistante. Le 25 avril, c’est la Fête de la Libération, une célébration des partisans qui chassèrent les troupes allemandes et mussoliniennes du pays en 1945 et, par là, c’est la journée où l’on fête les valeurs antifascistes qui fondent notre pays. 

Cela devrait être un « ça va sans dire », que l’Italie se fonde sur l’antifascisme, mais vu qui nous gouverne cela ne paraît plus si anodin. Puis encore, je crois que ma vision des choses est biaisée : grandir dans cette ville de gauche qu’est Florence, aller à l’école publique et me faire attirer, pendant mes années de lycéen, par une scène culturelle qui reposait essentiellement sur l’initiative de collectifs, squatteurs et groupes d’inspiration marxiste, cela a façonné ma vision de l’antifascisme comme une sorte d’acquis qui demeure comme valeur de base de nous tous, peu importe l’orientation politique. D’autant plus que, vis-à-vis de ce microcosme de gauche florentine, je me suis finalement positionné (non sans mes petites hontes d’adolescence) sur une position assez modérée, en gardant toujours en moi un socle d’antifascisme que, naïvement, j’ai vu pour longtemps comme la plus naturelle des valeurs de base de l’être humain. J’aurais aimé croire que cette graine était incorporée chez tout le monde, mais visiblement ce n’est pas vraiment les cas, voire ce l’est de moins en moins. Au fur et à mesure que notre pays se droitise, on entend de plus en plus de politiciens haut-placés qui affirment que le 25 avril est une célébration « clivante » et on ne les entend que très rarement citer les mots dérivés d’« antifascisme » pour parler non pas de jeunes émeutiers, mais d’idéaux démocratiques (Giorgia Meloni s’en est bien gardée, lors des célébrations institutionnelles). Cette année il y a même eu un épisode de censure et obscurantisme : un monologue de l’écrivain Antonio Scurati sur le meurtre de Matteotti (le principal opposant politique de Mussolini) aurait dû passer à la télé mais la chaîne nationale a décidé de ne pas le transmettre, provoquant une énorme polémique sur le contrôle de nos médias publics et sur le message politique qu’ils prônent.

Enfin, cela ne reste que du domaine de politiciens détestables que de mettre en avant cette vision de la Fête de la Libération comme une festivité conçue uniquement par et pour les subversifs révolutionnaires. La réalité des choses c’est que le 25 avril, tout comme le 1 mai par exemple, a toujours été connotée comme une fête de gauche mais qu’elle n’a pas de vraie orientation politique mise à part cette convergence vers le dénominateur commun qu’est l’antifascisme et tout ce qui en découle. Je me suis toujours considéré de gauche plus pour proximité à des idéaux généraux et quasiment abstraits que pour identification dans telle doctrine ou telle lutte spécifique. J’estime les deux façons d’être « de gauche » respectables, quoique différentes et, finalement, cette festivité les concilie bien.

Le 25 avril, à Florence, cela se fête en Piazza Santo Spirito. Pour l’occasion, une scène est montée à proximité des arbres qui décorent le milieu de cet espace qui a marqué une partie de notre jeunesse. Avant que des tonnes d’arrêtés municipaux viennent réprimer ces occasions de convivialité, on se retrouvait souvent pour boire des coups sur le parvis de l’église que, dans la sobriété de sa façade couleur crème, l’on fatiguerait à identifier comme une des œuvres de Brunelleschi, ce qui est pourtant le cas. Sur la grande place, plusieurs stands de bouffe et boissons longent des rangées de tables et, plus loin, on aperçoit différentes organisations plus ou moins exotiques qui montrent comme elles le peuvent leur présence : il y a l’Association Nationale des Partisans, des groupes trotskistes ou léninistes, ou encore des représentants de communautés d’immigrés (on remarque, cette année, les péruviens et les sri-lankais) ou de mouvements sociaux comme les syndicalistes de l’usine mécanique GKN ou les opposants du tunnel de la LGV Lyon-Turin. Bien entendu, la place est aussi largement peuplée de gens comme moi qui flânent et ne portent aucune revendication particulière. L’hétérogénéité de l’appareil politique dans ce lieu sacré et profane est donc, pour moi, rassurante : elle garantit en quelque sorte la sérénité de la journée, ou encore l’impossibilité de désagréables débordements.

Et bien oui, tout le long de mon développement personnel, pendant les années à Florence et bien au-delà, je me suis fait tâcher de « centriste » (j’ai haï cela) ou de « social-démocrate » (cela, ça me va un peu mieux) pour une raison controversée : allergique à la violence comme je suis, j’ai toujours eu un problème avec les manifestations et le culte caché de la bagarre que j’y ai souvent trouvé. Cela peut paraître pathétique pour plusieurs (« lâche », d’ailleurs, ça ne me dérange pas), mais c’est comme ça. Dieu merci, cela n’a pas empêché que je sois resté très proche humainement d’amis qui, eux, trempent la lutte militante dans le lait au petit déjeuner. Pourtant la Fête de la Libération, de par son universalité, est la seule occasion de rassemblement fortement politisé avec laquelle je sois à l’aise. C’est beau d’entendre un chant comme : « Le 25 avril n’est pas une récurrence ; maintenant et toujours, résistance ! » qui met d’accord tout le monde et, quoique cela puisse paraître très solennel, cette journée et son cortège dans les rues du quartier qui longe la rivière Arno ont aussi une certaine insouciance rigolote, qui peut apparaître dans des chants comme : « Fascistes, crapules, retournez dans les égouts ! » ou tout simplement dans le climat relaxé du public, composé par ces bons florentins de gauche qui, finalement, sont la catégorie humaine qui plus au monde est capable de me faire sentir à la maison.

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« C’était mieux l’année dernière » c’est la typique phrase sarcastique qu’à Florence on utilise pour toute célébration annuelle. Oui enfin, ce n’est pas comme si la Fête de la Libération changeait tant d’une année à l’autre : les chants sont les mêmes, le trajet de la manif’ tout pareil, les longs communiqués criés depuis la scène très similaires à quelques variations près, le vin et la bière tout aussi mauvais mais toujours aussi bon marché. Pour moi pour qui, étant aussi mon anniversaire, chez le 25 avril demeure indéniablement une part de récurrence, il y a quand même quelques différences remarquables : l’année dernière il y avait un peu plus de monde, la météo était un peu meilleure, je passais les vacances dans l’appart où j’avais grandi au lieu de la nouvelle maison de ma mère, j’avais une zouz. Mais tout cela paraît secondaire, quand c’est la Fête de la Libération, car le joyeux sentiment d’unité que cette journée à Santo Spirito dégage dépassent toute autre chose, et j’ai une énorme chance à ne pas avoir à organiser une fête d’anniversaire : tout ce qui me rend véritablement heureux, chez la fête, est déjà là.

Même la musique passe en arrière-plan, dans une journée similaire, ce qui est étonnant à m’entendre dire. Je n’ai jamais fait secret de ma faible appréciation d'une grande partie des groupes musicaux auxquels on peut donner l’étiquette de « political band » (j’en fais mention dans mon article sur Trotski Nautique). Quand l’essence même de la proposition artistique d’un groupe est celle de prôner des messages en soutien de différentes luttes militantes chez soi ou partout ailleurs, le risque que les chansons ne soient plus le but final du processus créatif mais uniquement un instrument qui en sert un autre est toujours présent. Ne pensez pas que mon jugement est celui des crypto-fascistes qui estiment que « l’art ne devrait pas s’emmêler à la politique » ou d’autres immenses conneries de ce type. J'écoute et aime de très nombreux groupes fortement politisés, et mes groupes italiens préférés de tous les temps ont un lien au militantisme de gauche indéniable et très fort : CCCP Fedeli alla Linea, par exemple, dans leurs délires hallucinogènes, témoignaient aux débuts du punk en Italie d’une nouvelle culture de la rébellion pour sortir des cases d’une vie compartimentée par le système capitaliste, que ce soit par la théorie marxiste (Morire) ou encore par des suggestions étrangères comme la « troisième voie » de Kadhafi (Punk Islam) ; le Consorzio Suonatori Independenti (CSI), qui naquit des cendres des CCCP, racontait dans Linea Gotica (1996), l’album rock le plus émouvant de l’histoire d’Italie, l’héroïsme des luttes partisanes, et non seulement celle des italiens contre le nazi-fascisme (Linea Gotica) mais aussi celle des résistants dans la guerre de Yougoslavie (Cupe Vampe) ; quelques années plus tard Offlaga Disco Pax racontaient dans chacun de leurs morceaux les réalités des Italies philo-soviétiques des années ’70/’80, parfois touchantes et quasi-utopiques (Piccola Pietroburgo), parfois glauques et décevantes (Cioccolato I.A.C.P.). Cela dit, il s’agit de groupes que je trouve spectaculairement au-dessus du lot, non seulement dans le génie de leurs idées musicales mais aussi dans l’urgence et la finesse de leurs messages politiques.

Quel est donc, ce « lot » des groupes militants ? Et bien, justement, il suffit de regarder les line-ups des 25 avrils partout en Italie pour trouver les centaines de groupes qui le composent. On a souvent rigolé, par exemple, en disant que chez les différents groupes oi! qui se produisent aux soirées de gauche à Florence (et que malgré moi j’ai vu en concert maintes fois) la différence entre un morceau et l’autre, essentiellement, sont juste les arguments et que même ceux-ci sont assez généralistes et stylisés : que l’on doive parler d’une thématique ultra-spécifique comme l’indépendantisme basque en Espagne, ou dénoncer une problématique universelle comme les méfaits de la police, si le ton termine par être exactement le même la profondeur de l’analyse se perd et la force du message aussi. En plus je n’aime pas le oi!. Cela dit, ce n’est pas bien grave si le groupe sur scène ne satisfait pas à 100% mes goûts : tant qu’il est bien conscient de jouer pour la cause antifasciste et que ça fait danser un peu de monde, pour moi il peut même y avoir un joueur de la Juventus sur scène. Bon ok, pas à ce point, mais vous comprenez ce que je veux dire.

Cette année, pourtant, c’est un peu différent, il y a Ivanoska qui jouent. Enfin, différent… ça doit être leur troisième 25 avril, voire plus. Et c’est sûr que, de près ou de loin, eux aussi je les ai vus de très nombreuses fois en concert. Mais c’est le groupe d’un très bon ami qu’il me fait plaisir de voir, puis ils sont très nombreux, très bons musiciens et donc assez spectaculaires en live ; surtout, leur ska-punk (genre que j’aime énormément) est toujours plaisant. La journée donc converge sûrement et gaiement vers ce concert un peu habituel qui pourrait mais pourrait aussi ne pas être l’apogée émotionnel de cette journée. Les rituels de la festivité, notamment, se font accompagner de mille rencontres de personnes qui appartiennent soit à mon passé à cause de la distance, soit à mon présent malgré celle-ci, ainsi que d’échanges avec des inconnus qui sont tous un peu surprenants et rigolos, bien que circonstanciés. C’est un peu un festival du retour aux sources, l’injection de florentinité à laquelle je suis accro au point d’avoir le besoin physiologique de revenir tous les quatre ou cinq mois. C’est ce même besoin qui me mène à vouloir traiter cet énième concert d’Ivanoska avec un peu d’importance (je dis à tout le monde : « On se revoit dans le pogo »).

On parle avec notre moche accent pendant qu’on regarde les monuments, on se raconte des potins, on observe les gens. Bien sûr, on picole. En général, on profite de l’ambiance de la place en évitant, il faut l’avouer, le peu de lourdeurs pseudo-formelles (communiqués, pamphlets, discussions politiques…) qui poursuivent après le cortège avec les chants et les drapeaux. Que l’on soit en train de perdre le sens de la célébration, je n’irais pas aussi loin, car la Libération ça se veut toujours joyeux. Que l’on soit en train de l’oublier, offusqués par l’euphorie, ça peut-être. Ce n’est pas vraiment grave ni offensif. Mais à un moment, depuis la scène, arrive le bruit des amplis. Puis, tout d’un coup, un chant.

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Le trompettiste d’Ivanoska porte une cagoule et hurle Il Partigiano au-dessus du feedback des guitares comme si c’était un morceau screamo. C’est déchirant.

« Le tirailleur a cent plumes
L’alpin en a une seulement
Le partisan n’en a aucune
Et reste sur les montagnes pour faire la guerre

Là-haut, sur les montagnes, tombe la neige
La tourmente de l’hiver
Mais même si venait l’enfer
Le partisan reste là

Quand, ensuite, il tombe, blessé
Ne le pleurez pas dans votre cœur
Parce que si l’homme est libre, quand il meurt,
Il s’en fiche, de mourir »

J’ai des frissons et plus que dans aucun autre moment de la journée je repense avec netteté aux combattants sur les montagnes (entre autres, sur le front ici en Toscane) morts pour notre liberté. Malgré l’alcool. Malgré les blagues. Malgré notre fichue ironie de florentins, toujours aussi déplacée. C’est une véritable claque, un moment solennel aussi inattendu que nécessaire. Le pouvoir de la musique, sûrement. Mais aussi un esprit insaisissable qui fluctue dans l’air. C’est un sentiment de gravité qui est beau pour quelques instants, pourtant pas censé durer pour toujours. Le sens même de la Fête de la Libération est celui de rappeler que l’antifascisme est le socle de nos valeurs et, une fois que l’opération de rappel est réalisée (un peu brusquement, même), de reprendre à faire la fête. Je m’en aperçois maintenant, de nouveau, probablement pour une énième fois, mais c’est toujours aussi surprenant et puissant.

Un D-beat fend l’air, et le mosh-pit pour tous les gens qui le souhaitent s’invite au rendez-vous (c’est assez immense). L’intro de Libertà est le véritable début de ce tourbillon festif et chanter : « Tout le monde déteste la police » (en français) un acte libératoire qui fait bien la jonction entre la profondeur d’un chant résistant et les formes plus modernes et moins héroïques de résistance comme peuvent l’être une saine et respectable méfiance envers les autorités. Certes, le morceau parle de bagarre avec les policiers et de cocktails molotov qui explosent, activités assez éloignées de mes centres d’intérêt, mais les power-chords hardcore punk qui se mêlent aux cris rocailleux du chanteur et aux cuivres (il y a la totale de trompette, saxo et trombone) sont irrésistibles et impossibles à ne pas pogoter. J’aime donc prendre les paroles, ainsi que la pochette de l’album L’Uomo Per Bene (2022), un peu comme une exagération qui fait effet scénique, un équivalent militant rock des flingues d’or du gangsta rap. Peut-être que c’est un énième symptôme de ma naïveté ; je m’en fiche ; on s’amuse. Ainsi, le grand classique 1312, qui finalement ramène en Piazza Santo Spirito du ska pure souche (le riff des cuivres a un air de Madness), ne feigne pas être une gigantesque party hit, avec même sa chorégraphie à faire avec les doigts pour rappeler, avec la voix et le corps à l’unisson, à quel point on n’aime pas les keufs. Mais Ivanoska, malgré le fait que leurs compositions soient imprégnées d’idées revivalistes, ne sont pas un groupe ska-punk musicalement banal (le risque, dans ce beau genre, est toujours très élevé), et le rappellent bien avec Porto, déclaration d’intentions d'un dark-ska ténébreux mais tout aussi festif.

La force du concert d’Ivanoska repose, outre que sur cette variété stylistique, sur un équilibre entre le sérieux et le divertissant qui rend leur musique puissante sans être lourde et amusante sans être stupide. Les discours du chanteur sont touchants, sans être pour autant des harangues ennuyantes à la Bono Vox (et j’aime bien U2, que ça se sache). Il emporte, au groupe, de rappeler que les chansons à thématique « flics », pour combien dansantes elles puissent être, veulent avant tout commémorer les trop nombreuses victimes d’assassinats policiers que nous avons connus en Italie ces dernières années (Uva, Aldrovandi, Magherini, Cucchi… la liste est douloureusement longue). Impossible de ne pas penser aux massacres en Palestine pendant les puissants breakdowns de la dure Frontiere (« Le sang des gens, de ceux qui n’ont plus rien, coule sur ton visage et tu ne peux pas le couvrir »), même si à la base c’est une chanson qui s’attaque aux politiques anti-immigration de nos derniers gouvernements (« Les Italiens d’abord ?, bienvenus dans les vingt ans », en référence à la durée du régime fasciste dit « ventennio »). Et même Sultan Ska, malgré le fait qu’elle soit essentiellement instrumentale, ramène inévitablement mes pensées aux partisans italiens des années ’40, avec ses tonalités folk un peu campagnardes, tout en rendant hommage à la lutte héroïque des Kurdes d’aujourd’hui (le Rojava étant, pour ma génération, la chose la plus proche d’un idéal d’utopie socialiste). Et donc, après de nombreuses fois que j’ai vu Ivanoska en concert, que j’y ai dansé et pogoté même, je comprends que ce groupe n’est pas seulement une « political band » qui m’amuse plus que les autres, mais carrément une de celles qui sortent du lot : parce que leurs messages sont universels mais sincères et loin d’être généralistes, et que les assez rares fois qu’ils parlent de luttes circonscrites et particulières, on n’a pas l’impression que ce soit pour faire les devoirs du bon militant et pouvoir avoir la conscience sereine, mais plutôt pour donner d’exemples afin de proposer une vision globale sur ce qu’est, aujourd’hui, vouloir être un résistant.

Finalement, c’est la force de la Fête de la Libération elle-même : quelle qu’elle soit ta maîtrise de la théorie, ta doctrine, ton substrat social (Skinhead parle de classe ouvrière, pourtant le pit ne manque pas de bourgeois, moi y compris), ce ne sont pas ces choses qui distinguent un antifasciste d’un autre. Le savait bien Francesco Guccini qui, tout en n’étant guère mon « cantautore » italien préféré, avait raconté si bien dans L’Avvelenata qu’être musicien engagé ne veut pas dire être sauveur et défenseur d’une foi sacrée, mais avant tout être libre. La reprise en version punk rock de cette grande ballade anticonformiste, avec en invité d’honneur le frontman des Fish Bones (le groupe ska « de mon âge » qui a accompagné toute mon adolescence), est un petit chef-d’œuvre d’intégrité artistique et, en bas de la scène, un énorme mosh-pit où, entourés de visages amis, on peut célébrer le sens de liberté que seul le sentiment d’unité de tels moments peut transmettre. Terminer avec la joyeuse et tendre Hawaiian Tea (en théorie ça parle d’herbe mais c’est avant tout une belle chanson d’amour) serait parfait : c’est de loin le morceau le plus mémorable et accrocheur du répertoire, pratiquement un tube culte à Florence. Quasiment tout le monde chante le refrain. Mais il faut quelque chose de plus.

Bella Ciao, c’est quelque chose de sérieux. Que ce soit devenu le morceau cliché de l’Italie à l’international, ces dernières années, cela me navre un peu. C’est une chanson qu’il fait sens de chanter dans de très rares occasions. Notamment, une fois par an, le 25 avril. Cela doit se faire de façon ni trop solennelle, ni trop irréfléchie : c’est tout un art. La version punk d’Ivanoska rend parfaitement le mélange de chant de montagne, de chanson d’amour et d’élégie funéraire qu’est ce morceau, véritable manifeste de la lutte partisane italienne. On la chante avec fierté, et c’est d’une unicité inexplicable à tout étranger. Le concert termine et le sentiment que je ressens n’est pas seulement celui d'avoir redécouvert la puissance d’un groupe que j’avais pris pour acquis, mais aussi de la festivité en elle-même.

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À Florence, on se plaint tout le temps. On dit, entre autres, que notre scène musicale est pauvre et ce n’est pas tout à fait faux : je trouve en effet assez fou que, dans une ville qui par taille est comparable à Toulouse, on n’ait pas de jeunes groupes intéressants qui jouent le noise rock, l’indie pop ou les autres genres que je traite sur Stereo Totale quand je parle des concerts en France. J’en rigole pourtant beaucoup à l’étranger : la scène reggae, ska et ska-punk florentine est plutôt prospère ! C’est absurde, et néanmoins pas plus que ça. Les opportunités de s’épanouir, artistiquement et culturellement, sont étonnamment très faibles ici, et pour cela on peut bien sûr blâmer l’administration publique, les businessman du spectacle ou encore des mentalités un peu conservatrices vis-à-vis des musiques actuelles. Pourtant certaines niches, dans les squats, les soirées des collectifs de gauche, les groupements politiques d’étudiants et travailleurs, offrent encore des possibilités d’expression. Evidemment, celles qui émergent le plus ne peuvent que suivre un peu les codes, les tons, les tournures stylistiques de cet environnement culturel. Ce n’est ni un bien ni un mal, c’est un fait.

Ce qui est sûr, c’est que c’est simple de ne toucher qu’à la surface, avec notre regard de florentins ironique et rude et dire, de la journée d'aujourd'hui, que le 25 avril c’est toujours la même chose, qu'Ivanoska ils y jouent pour la millième fois, que les chansons parlent toutes des mêmes arguments… On le fait peut-être pour se donner des airs, pour ne pas avouer que nous avons tous, au fond de nous, besoin du 25 avril une fois par an. Aussi bien les modérés à la con comme moi que les militants acharnés. Aussi bien ceux qui vont à Santo Spirito tous les ans depuis gosses que ceux qui estiment n’avoir rien à y faire, avec les gens dans la place.

Pour repenser à la raison ultime pour laquelle on doit continuer d’affirmer à nous-mêmes et aux autres que nous sommes et resterons, toujours, antifascistes. Pour repenser à ceux qui ont pris un fusil et se sont cachés dans les bois, il y a à peine trois générations, pour chasser l’envahisseur. Pour comprendre qu’encore, dans le monde, il y en a qui sont dans la même situation. Pour, en égale mesure, se souvenir et ne pas oublier. Pour faire perdurer ces valeurs.

Il ne faut jamais sous-estimer à quel point, dans cela, peut être précieuse la tradition. Car la tradition n’est pas récurrence, elle se renouvelle aussi : après le set d’Ivanoska, par exemple, partent trois minutes de hardtek, pour rappeler au public que les teufeurs sont actuellement en révolte (il y aura, dans quelques jours, une free-party itinérante dans la ville). Mais la tradition est avant tout réaffirmation. Et donc, tradition soit-il : une énième marche dans les mêmes rues, les mêmes chants et les mêmes drapeaux. Un énième après-midi passé dans le même endroit, avec à peu près les mêmes personnes. Un énième concert d’Ivanoska, pourquoi pas, avec à peu près les mêmes chansons.

Mais le sentiment d’unité, de compréhension profonde de ce qu’est le 25 avril, de ce qu’est la Fête de la Libération, de ce qu’est d’être italiens et donc avant tout antifascistes, lui, ce sentiment, il est toujours un quelque peu nouveau.

Ora e sempre, resistenza!