martedì 31 ottobre 2023

La Notte delle Pontatine - Primavera Sound 2024 Edition (feat. gli Amici Miei)

Se dovessi creare un’alternativa al "political compass" per parlare delle mie passioni ho molto chiari i due criteri che userei per sostituire i due iconici assi cartesiani "destra-sinistra" e "autoritario-libertario". In orizzontale ci sarebbe l’indice della soddisfazione che mi provoca la passione in questione, dall’alto in basso invece la razionalità, ovvero se sia umanamente logico o meno continuare a coltivarla.

Prendendo questo schema, possiamo per esempio vedere nel buon cibo il perfetto esempio di passione estremamente razionale e ad alti livelli di soddisfazione. Sulla parte alta, quindi restando sempre nell’ambito del razionale, troviamo invece gli scacchi nel settore a bassa soddisfazione. Inequivocabilmente considerato dai più come il gioco più riuscito della storia, poche regole ma dalle possibilità infinite, questo gioco immortale mi provoca tanto diletto quanto frustrazioni esagerate dovute alla quantità di mosse che mi perdo per distrazione e alle scoppole che russi e indiani mi impartiscono quotidianamente online. Spostandoci nel quadrante basso, quindi nel reame dell’irrazionale, troviamo l’oggetto principale del mio blog che è il rumore della musica. Quest’oggetto misterioso e seducente che allontana tanta gente anche a me vicina è chiaramente una passione irrazionale, anche perché pericolosa per la salute uditiva, ma mi provoca un piacere esagerato, talmente grande che non posso più tenerlo solo per me e devo condividerlo col mondo scrivendone su internet. Dall’altro lato, invece, c’è la Fiorentina, squadra di calcio che razionalmente dà poche ragioni di essere tifata proprio perché fonte di sofferenze costanti, da cui il piazzamento nel lato sinistro (ma la fede non si può spiegare e non ha come obiettivo quello di provocare godimento, perciò sempre forza Viola).

Ovviamente, come nella politica, esistono gli estremi ma anche e soprattutto posizioni intermedie. E pensando alle mie altre passioni ne ho due che si posizionano perfettamente al centro: una in relazione alla musica ad alti volumi per periodi prolungati e una alla Fiorentina. La prima è il Primavera Sound. Questo importantissimo festival che ha luogo ogni anno a Barcellona è a un livello di razionalità medio perché, certo, i festival con tanta e buona musica in un buon clima piacciono a tutti ma l’approccio con cui io e i miei amici ci relazioniamo al PS sarebbe insopportabile a molti: abbuffate di concerti da 10/12 ore filate, spostamenti costanti, "rutas" che a volte assomigliano a marce militari. A soddisfazione non posso permettermi di metterlo a livelli esageratamente alti: certo, si gode sempre, però ogni anno c’è una porzione di un di che lamentarsi, tra la linea editoriale che non è più quella di una volta, i prezzi che sono stati veramente gonfiati a sto giro, il suono che a questo o quel concerto faceva cagare etc… Il Primavera non sarà un festival perfetto in tutto ma è pur sempre il Primavera, è una religione, una tradizione, e come dirò sempre "forza Viola" continuerò sempre a dire che "un anno sono quei 361 giorni che stanno attorno al Primavera".

La mia seconda passione "centrista", questa volta più calcistica, sono i video del signor Alessandro Catto. Per chi non lo conoscesse, si tratta di uno youtuber/cronista che produce quotidianamente aggiornamenti sulla Serie A e soprattutto sulla mia squadra del cuore. Veneto ma tifosissimo della Fiorentina, Catto è la colonna sonora delle mie giornate: collegare la cassa bluetooth al cellulare e mettere il suo video più recente è il mio primo riflesso la mattina prima di mettermi sotto la doccia. Lo ascolto mentre mi preparo per andare in ufficio, durante le mie faccende domestiche o mentre cucino, spesso anche sui mezzi pubblici. La scelta di ascoltare in continuazione Catto non è del tutto razionale né del tutto soddisfacente perché oggettivamente potrei vivere benissimo senza ore ed ore di radiodiffusione di disquisizioni su sessioni di calciomercato deludenti o considerazioni sulla gestione di mister Vincenzo Italiano degli equilibri del centrocampo. In compenso, i malesseri dell’essere un tifoso viola vengono un po’ meno quando si ascolta Catto perché è semplicemente troppo bravo. Comunicatore nato, parlantina fluida, un simpaticissimo accento di Caorle, neologismi a manetta e inside jokes affezionanti… anche se certe volte mi capita di astrarmi all’ascolto (durante lo shampoo mi curo poco delle critiche al DS dell’Udinese), Catto resterà per me l’esempio definitivo di come si dovrebbe fare opinionismo in modo da rendere il pubblico partecipe, diffondendo le proprie visioni su un argomento con quel poker fondamentale di brio, coraggio, leggerezza e professionalità.

La "lingua cattiana" ormai è entrata di prepotenza nel mio linguaggio quotidiano e ho persino fatto scivolare un paio di espressioni nelle pubblicazioni di Stereo Totale. La mia parola cattiana preferita, però, è senza dubbio "pontatina". Una pontatina è una suggestione profetica, a metà tra il suggerimento e il pronostico, e si applica soprattutto al calciomercato: molto spesso sentirete Catto "pontatinare" tale giocatore per tale squadra. Una pontatina di tutto rispetto dev’essere al contempo seducente e verosimile. Quando funziona particolarmente bene, una pontatina "la senti". E quando una pontatina si realizza, la soddisfazione è esagerata ed è la sensazione di aver fatto la storia (non ci dimentichiamo che a ogni sessione di mercato si avvera almeno una pontatina, e che Catto ha cucinato in tempi non sospetti delle vere e proprie Gioconde, una su tutte quella di portare Tonali al Milan).

Tra i vari eventi in diretta Youtube che il tuttologo calcistico veneziano organizza regolarmente, uno dei più astrusi e intrattenenti è "La Notte delle Pontatine" che ha luogo (quasi) ogni estate. In questa sorta di quiz televisivo, gli abbonati del canale vengono messi gli uni contro gli altri in una sfida a chi caccia le migliori pontatine. Una sfida di nervi che dura ore, in cui i concorrenti si misurano con domande difficilissime tipo: "Datemi un esterno destro per l’Atalanta capace di giocare sia davanti nel 4-3-3 sia a tutta fascia nel 3-5-2" davanti a Catto unico giudice.

Se le calde notti di fine giugno sono il momento perfetto per passare una serata a sognare prestiti con diritto di riscatto e trame di mercato internazionali, è nelle fresche serate di autunno che, col maglioncino addosso e al lume di una candela, si comincia a riflettere ai pontatinabili del Primavera Sound del prossimo anno. A questo giro Gabi Ruiz, considerato da tutti il factotum di questo evento ormai leggendario, ha detto che novembre sancirà la pubblicazione della lineup definitiva (anche se c’è sempre un piccolo mercato di riparazione verso marzo e qualche recupero di svincolati a maggio). È in questo momento che io e i miei due amici Paolo e Tommaso, che il biglietto lo abbiamo da luglio (sì, con undici mesi di anticipo), ci mettiamo attorno al tavolo e cominciamo a ragionare degli act che potrebbero o dovrebbero essere presenti alla prossima edizione. Vi diamo dunque il benvenuto alla Notte delle Pontatine del Primavera Sound del 2024.

Un ultimo appunto prima di cominciare: è possibile che nominiamo artisti che non possono partecipare al Primavera Sound perché hanno tale tour che non permette di andarci o perché sono associati a tale booking o a tale management o a fregnacce simili. Ecco, a noi non ce ne frega un cazzo. Basare una pontatina concertistica su argomenti del genere sarebbe un po’ come scegliere i giocatori al fantacalcio in base alle proiezioni logaritmiche degli expected goals prodotti: una visione del mondo priva di anima e di romanticismo, ma soprattutto basata sulla freddezza della macchina e non sull’equivalente, in lingua cattiana, dello spirito di Hegel, ovvero "le inerzie". In questo io e i miei soci ci impegniamo a proporre pontatine fomentanti e inerziali basate completamente sulla pura emozione.

Procederemo per categorie, ogni categoria avrà un suo perché che sarà brevemente spiegato. Dopodiché, sarà domandato a tutti noi un numero (variabile e deciso unilateralmente dal sottoscritto) di nomi da proporre. Cominciamo:


Categoria “headliner”

Inevitabile, ogni anno, elucubrare su chi occuperà la parte alta del "cartel". Siccome ogni anno ci sono almeno 6 headliner "oggettivi" (primissima linea), che diventano una dozzina se prendiamo anche gli headliner "camuffati" (vedi, che ne so, Beck due edizioni fa), propongo ai giocatori di tirare fuori quattro nomi.

1) Reric

- Tears for Fears : Comincio leggero con loro perché li ho visti girare di recente, e penso che stiano avendo una seconda giovinezza nel grande revival ‘80s che è la nostra epoca di consumo. Fanno le veci dei Pet Shop Boys l’anno scorso, ma con più roboanza.
- Weezer (Blue Album 30th anniversary) : Ti succede una volta nella vita di poter scongelare un gruppo che non ha più niente da dire e renderlo un evento strabiliante. Mi viene da dire: se non ora quando.
- Lana del Rey : Annunciata nell’edizione che è stata annullata per il coronavirus e mai più riconfermata (per incastri difficili evidentemente), ma mi sa che quest’anno ci tocca.
- Foo Fighters : Ok, questa è un po’ una pisciata fuori dal vaso, però in un’annata che mi sembra un po’ magra in grossi nomi non sembra impossibile. Da un lato rischiano di portare al Parc del Fórum molti amanti del "ruock" ascoltatori di Virgin Radio, dall’altra farebbero felicissimi molti habitué del festival. Tipico nome che crea polemismi infiniti (Paolo si sotterrerebbe nel leggerlo), e proprio per questo voglio spingerlo.


2) Paolo

- The Cure : "Robert Smith is a whingebag. It’s rather curious that he began wearing beads at the emergence of the Smiths and had been photographed with flowers. I expect he’s quite supportive of what we do, but I’ve never liked the Cure"… Parole, senza musica, di Steven Patrick Morrissey. Che gli Smiths siano meglio dei Cure, nessuno ha dubbi. Ma gli Smiths non ci sono più, e allora perché non goderci, invece, la band del lamentone capellone. Inoltre, bisogna vendere biglietti. E i biglietti, i Cure, li hanno sempre venduti. Pare che dovrà uscire un nuovo album, sicuramente i live ci sono stati, anche e proprio al Primavera Sound di Buenos Aires. Se ci sarà l'occasione, non ho dubbi che li vedremo in cartellone anche a Barcellona.
- Boygenius : Il tanto atteso mix esplosivo di acqua, ghiaccio e vapore non potrà mancare in cima al cartellone di quest'anno. Progetto nato con la naturalezza della pecora Dolly, la loro musica è capace di evocare tante cose: il tofu, la carta fabriano A4 liscia, lo SPID. Supergruppo composto da Julien Baker, Lucy Dacus e Phoebe Bridgers, diverse anime musicali con un'unica residenza: Universal Music - Ufficio Marketing.
- PJ Harvey : Pare che durante un proprio concerto Nick Cave abbia detto che "Polly Harvey has the warmest lips and the coldest hands in rock". Se sia vero che l'abbia detto, non lo so. Che sia vero quello che dice, neppure. La sua musica sembra però confermarlo, e dopo l'incredibile show del 2016, finalmente è il momento giusto per un ritorno al festival.
- Pulp : I BRIT Awards del 1996 si chiudono con una performance di Earth Song ad opera di Michael Jackson. MJ, god-like figure, circondato da bambini di ogni etnia – con proiettati sullo sfondo altrettanti bambini sofferenti per fame e altre calamità – canta, balla, soffre, si scatena. A un certo punto, una figura tipicamente inglese, non bella come quella di Brett Anderson, non iconica come quella di Gallagher A o B, sale sul palco e a favore di camera, e mentre MJ è a un passo dall'ascensione, si piega a 90 mostrando il culo. Jarvis Cocker e i Pulp sono questo, e ce lo faranno vedere anche al prossimo Primavera.

3) Tommaso

- Nine Inch Nails : Non sono un giocatore di poker (e forse mai lo sarò), ma se vorrete immaginarmi a un tavolo del Bellagio, ammantato da una coltre di fumo e con un bel paio di occhiali da sole, beh, questo è il mio momento per mettere tutto sul piatto e fare all in. Si sogna, e si sogna in grande (magari bagnandosi anche, perché no): qualche anno fa si parlava di un fantomatico contratto stipulato tra il buon Gabi Ruiz e Trent Reznor (il giocatore è in sede, siamo alle firme, manca solo l'ufficialità, bla bla bla), ma dei NIN in quel del Fórum, nessuna traccia. Adesso è tempo di piazzare un headliner come si deve e scaldare la piazza. Reznor ha quasi sessant'anni e i tour sono sempre più centellinati, la band è comunque ancora una fottuta macchina da guerra. Caro Gabi: se non ora quando?
- Deftones : Mai entrati nell'orbita del PS, e forse per questo avrei potuto collocarli nella sezione "Ce So Rimasto", ma son troppo grossi per escluderli dal quartetto di headliners. Anche in questo caso trattasi di vino invecchiato, sì, ma benissimo (anche a livello discografico, cosa su cui non avrei sperato troppo, e invece). Oltretutto sono spendibilissimi per una fetta di Gen Z che pare averli riscoperti, essendo una band che ricopre comodamente lo spettro che va da hikikomori a fie dell'artistico con i capelli colorati. E a fine concerto, gara di perritos calientes col buon Chinone Moreno e tutti contenti.
- Portishead : Altro nome più e più volte "spammato" al pari di Boards of Canada, My Bloody Valentine, etc. ma a questo giro l'occasione è propizia, e si presenta sottoforma di trentennale (quello di Dummy, LP d'esordio uscito nel 1994, pietra angolare del trip hop e disco da trombo definitivo). Lo so, l'anniversario è una vile strategia per rimettere in carreggiata i morti viventi, ma la nostalgia è il sale del commercio musicale recente, e in questo caso una bella performance ristretta in un Auditori a numero chiusissimo (con probabile e auspicabile rissa tra la sicurezza e il pubblico escluso, mentre dentro i nostri ci fanno gemere sulle note di Sour Times) non ce la toglie nessuno. Poi Geoff Barrow viene un anno sì e l'altro pure coi pur sempre ottimi Beak>, i contatti già ci sono, quindi questa pontatina la sento forte e chiara.
- Massive Attack : Questa è chiara, dai: ce li dovete ridare dal 2022. Sant'Adrià de Besós non dimentica.


Categoria “classiconi”

Ogni anno il Primavera ci offre gruppi che sono completamente coerenti con la linea editoriale del festival fin dalla sua nascita (tipo gli Shellac che per il loro storico sono esclusi dalla competizione pontatinale). Gruppi di musica alternativa che non smuovono nulla alla casalinga di Voghera ma che hanno lasciato il segno nei libri di critica che leggiamo anche noi, hipster del cazzo. Quattro nomi a persona come per gli headliner.

1) Reric

- Happy Mondays : Ok, lo ammetto, ho visto la pontatina sul gruppo Facebook "Primavera Sound Italia". Dopo averla vista, siccome prevedevo di scrivere questo articolo, ho silenziato completamente il gruppo. Ma il danno era fatto e il germe seminato. 
- Circle Jerks : Nelle edizioni recenti Gabi e soci hanno spinto molto sul punk e quando hai una band leggendaria come loro in grande rispolvero sembrerebbe stupido privarsene. Fanno le veci dei Bad Religion l’anno scorso (ma molto meglio).
- Descendents : Un po’ una pontatina figlia della precedente, ma necessaria. Quest’anno il management Primavera Sound li portava al Razzmatazz a luglio ma Milo ha avuto un infarto la sera prima. Ora Milo è in Oceania a spaccare palcoscenici e promette di tornare in Europa a ogni pié sospinto. A Barcellona i Descendents sono sempre stati amatissimi (pure all’ospedale). Un regalo che ci meritiamo o, come direbbe Catto citando Baiardo, "un bel regalino" (con accento siciliano).
- The Dismemberment Plan : In una manche in cui ho fatto regnare la lucidità ci vuole un nome "così, de botto, senza senso". Perciò eccolo qua, perfetto. Il gruppo che si è ritagliato, negli anni, la reputazione di band indie rock più incatalogabile di sempre. Non esente da reunion, trova un terreno fertilissimo al Parc del Fórum.

2) Paolo

- Slowdive : Gli eterni secondi dello shoegaze erano usciti sconfitti dagli anni '90, perdendosi successivamente in deprimenti solo projects. L'esplosione di internet, delle retrospettive pitchforkiane , dei forum, ha dato loro un'inaspettata seconda chance, trasformandoli in un simbolo del movimento, capaci di catturare tutti quelli che venivano messi al tappetto dai primi quindici secondi di Loveless. D'altra parte, quando il gatto non c'è (batti un colpo, Kevin Shields), i topi ballano, e il live degli Slowdive è ancora una delle migliori esperienze sonore che la musica contemporanea possa offire.
- Shellac : Chi invita a scrivere sul proprio blog ospiti illustri non ha il diritto di imporre berlusconiani diktat su quali band potere inserire o meno. E allora, ecco gli Shellac. Forse scontati, direte. Eppure, come insegnano gli Offlaga Disco Pax, sono tante le cose scontate che, tutto d'un tratto, un giorno, spariscono: fra le tante, tuo padre con l'amante, o lo studentato autogestito di PDM. Se almeno una di queste due sparizioni mi ha provocato gioia, gioia non sarà il giorno in cui Steve Albini e gli altri due tizi decideranno di non salire più sul loro aeroplano dell'amore per atterrare a 120 decibel sul cemento del Parc del Fórum. Ma, citando il più grande cercatore di funghi della Terra di Mezzo, non è questo il giorno.
- Alan Sparhawk : I Low sono finiti con la prematura morte di Mimi Parker. Ma Alan Sparhawk continuerà a fare musica, perché è la sua vita, perché è il suo lavoro. E quindi continuerà a fare live, in una forma diversa, che ancora non conosciamo. Non ho dubbi che il Primavera Sound gli offrirà il giusto palcoscenico per farcelo scoprire.
- The Hidden Cameras : Joel Gibb è sicuramente il musicista indie più gay di sempre (e la concorrenza è notoriamente tanta): uno che farebbe sia il pride istituzionale che quello delle antagoniste froce con la medesima allegria, uno che ha chiamato il disco d'esordio degli Hidden Cameras "Ecce Homo". Gibb ha già suonato con questo progetto al Primavera Sound del 2004, la prima edizione. A vent'anni dalla prima apparizione, a vent'anni dall'uscita del miglior disco della band The Smell of Our Own sarebbe ora per un gradito ritorno, sempre che il reparto booking del PS sia ancora disposto ad un po' di approfondimento e non si fermi alla prima culona di Denver virale su Soundcloud o alle stantie tasse alternative delle ultime edizioni come National e King Gizzard.

3) Tommaso

- Beta Band : Pontatina eccitante in quando la band in questione è sparita da circa vent'anni, come un padre che esce "a comprare le sigarette". Questo è IL sogno impossibile per antonomasia nella mia rosa di nomi, poiché i membri della band hanno spesso smentito nelle interviste una possibilità di reunion. Sappiamo che Gabi ha il potere di resuscitare i morti (ciao John Cale!), ma questa sarebbe realmente una prodezza ascrivibile alla categoria del "Lusso Sborrone", termine coniato dal maître à penser, nonché amante universale, Max "Il Monarca". Torna a casa, papà. 
- Black Eyes : Ultimo vero prodotto di qualità della prestigiosa cantera Dischord, questa band di malati mentali da Washington D.C. andrebbe a riempire quella casella in genere riservata alle band di culto del giro grunge/post-hardcore anni '90 che il festival non si dimentica (almeno finora, e vivaddio). La loro reunion è roba fresca e un bel déjà-vu di una situazione simile a quella degli Unwound della passata edizione sarebbe alquanto godereccia.
- Fucked Up : Materiale nostalgico qua signore e signori. È cosa appurata da me e altri coscritti primaverici che vi siano dei palchi/venue e/o slot temporali più sexy di altri, che generano un'alchimia propizia, esempio: lo slot che va dalle 1:30/2 fino alle 3 circa del fu Ray-Ban è (era, diciamoci la verità) quasi sempre una bomba a mano, si godeva, si sudava, si ballava, spesso veniva anche un certo languorino, una qual certa voglia di chiavare, ecco. Altro luogo magico è la Sala Apolo, il mio personale Old Trafford in cui ho assistito a performance da durello perenne, e con continuità spaventosa nel corso delle edizioni da me frequentate. In genere, questo avviene nel giorno stesso dell'arrivo, il sempre trafelato e pesante mercoledì, oppure la domenica, in una celebrazione di chiusura mai banale e sempre wholesome, in un modo o in un altro. I Fucked Up, band canadese già encomiabile per aver mescolato l'hardcore con il prog, per aver composto e registrato un album in sole ventiquattr'ore, e soprattutto per avere un frontman che è l'incrocio tra un Orsetto del Cuore e un wrestler anni '80, sarebbero cosa già vista per me e Cosimo: PS 2019, serata memorabile con rischiata multa per vari magheggi in strada e sopportando un'ora di concerto vomitevole di una tizia, Cocou Chloe, il cui highlight è stato la suddetta che "mostrava il culo" a detta del buon Cosimo, e io stavo guardando pure da un'altra parte. Che palle. Ad ogni modo, quello fu un concerto memorabile, nella top 3 di quell'edizione, per cui mi auguro un altro mercoledì da leoni.
- Deafheaven : Sarò breve, i fattori sono i seguenti: 1. nonostante la diffidenza nei loro confronti, sono una band live della madonna, parlo per esperienza – visti al Roadburn anni fa, spaccarono tutto e il pubblico inizialmente ostile dedicò loro una standing ovation di 5-6 minuti, manco fossimo a Cannes; 2. la band non torna al PS da quasi un decennio, non so quanto possa contare come cosa ma ce la metto uguale; 3. il loro ultimo album, verso cui non nutrivo molte speranze (una virata verso lo shoegaze e il dream pop), è parecchio valido, a dimostrazione che i nostri c'hanno il manico giusto. Due morali: 1. non giudicate mai il libro dalla copertina e 2. i metallari sono gente educata.


Categoria “ce so rimasto”

Quello per cui amiamo il Primavera Sound è che è capace di cacciare in mezzo alla lineup qualcosa che nessuno si sarebbe aspettato e che sorprendentemente funziona. Che sia un gruppo che ti piace ma non lo vai a dire a giro, che sia un artista dallo status leggendario che nemmeno ti ricordavi esistesse, che sia un gruppo che sembra non aver niente a che fare col resto ma andrai a vedere per forza. Va detto che negli anni questa capacità del PS si è leggerissimamente affievolita, ma speriamo che quest’anno ritorni a farsi sentire. Tre nomi a persona.

1) Reric

- Megadeth : L’anno scorso questa pontatina l’ho sognata la notte. Veramente. Un po’ come McCartney che si sveglia con la melodia di Yesterday in testa, convinto che Morfeo mi avesse regalato un capolavoro, ho martellato il nome dei thrasher californiani ai miei amici per mesi. Purtroppo non è servito a niente ma non mi sono disilluso perché so nel fondo dell’anima che certe pontatine non finiscono, ma fanno giri immensi e poi ritornano.
- Mike Watt : Ho scoperto tanto, ma tanto di recente che il signor Minutemen non solo è ancora in attività ma propone anche setlist assai incentrate sul repertorio della storica band che (possiamo dirlo?) ha inventato il post-hardcore. Se al "Primavera Weekender" di quest’anno c’è Bob Mould degli Husker Dü, perché non portare anche Mike Watt in Catalogna?
- Cap’n Jazz : Quanto ancora dobbiamo aspettare per avere una nuova reunion del miglior gruppo emo di sempre? È successo nel 2010, è successo nel 2017, possiamo avere questo regalo per il 2024, possibilmente in Europa? Più che una pontatina, una richiesta disperata, ma non impossibile in un periodo di magra estrema per i redivivi American Football (ormai er Mike si è ridotto a fare le cover di Mazzy Star pur de scopa’). Il nome che mi farebbe infartare definitivamente nel leggere la lineup. Se riesco a vederli dal vivo prometto che mi tatuo il carretto di Shmapp’n Shmazz sul braccio sinistro.

2) Paolo

- Judas Priest : L' heavy metal è la scuola elementare dei metallari: non la cosa più impegnativa, non la cosa più bella, la più interessante o la più provocante, ma quella per cui provi più nostalgia e cuore. I Judas Priest sono come il cortile della scuola elementare dove passavi le ore a giocare con i tuoi amichetti, prima della scoperta dell'alcol, degli Slayer, del nazismo, della misoginia e di tutte le altre caratteristiche tipiche delle branche metal più pesanti. I Judas suoneranno a questo Primavera Sound.
- Ringo Starr : L'uomo giusto al momento giusto. Sbeffeggiato da tanti, deriso, perché suona uno strumento inferiore, perché ha il nasone e la voce buffa, perché oggettivamente ha scritto molte meno canzoni degli altri tre: ma comunque migliori del 99% della discografia dei Beach Boys. Facciamo dunque due conti: John Lennon è morto, George Harrison è morto, Paul McCartney è morto e quello nuovo costa troppo per il PS. E allora, poiché i  Beatles sono la più grande band pop di sempre, un festival come il PS non può non ospitare, almeno una volta nella sua storia, chi ha fatto parte di quella vicenda, fra dischi leggendari e sessioni masturbatorie di gruppo.
- Verdena : Al PS c'è un reparto booking dedicato all'Italia, o meglio, a progetti musicali italiani chitarristici di dubbio valore. Iosonouncane, l'urla-cantautore sardo più amato dalle riviste di settore, i Maneskin, il più grande insulto di sempre alla musica rock, sono solo alcuni degli esempi possibili (come dimenticare anche quella tizia lì mezza sconosciuta che Cosimo spingeva chissà dov'è finita). Quest'anno, perché no, un altro gruppetto della minchia come i Verdena, noti per avere i primi trenta secondi delle canzoni molto belli, potrebbe finire sotto la lente d'osservazione ed essere sparato su un palco terziario alle due del mattino con soundbleed di DJ trash in Boiler Room e rappuse con tre canzoni all'attivo e uno slot di un'ora al Pitchfork o come cazzo si chiama adesso.

3) Tommaso

- Sade : Ce so rimasto (e di brutto): sembrerà strano a chi mi conosce (ma non abbastanza a fondo), anche questo vecchio panterone fiesolano ha un lato smooth, e quale miglior band per esprimerlo se non i Sade – che credo non siano mai stati invitati al PS, ma magari mi sbaglio. Band fuori quota ma non del tutto aliena a certe derive intraprese dal festival negli ultimi anni. Il binomio "band storica ma mai troppo celebrata" + coolness dovrebbe fare il suo. 
- Botch : Altra band reduce da mini-tour di reunion e sortite continentali (anche europee), per questo da me pontatinati anche per la scorsa edizione. A quanto pare questo è un vero e proprio tour d'addio, o comunque un "affaccio" fatto da questa esuberante band post-hardcore dal Pacific Northwest (Terra Santa per me) per ringraziare gli affettuosi fan che li hanno ricordati e ne hanno evocato il nome nei venti e più anni intercorsi dal loro prematuro scioglimento, avvenuto nei primi Duemila. Band di enorme spessore e annoverabile nella top 5 dei migliori gruppi del genere, il loro nome sbuca in qua e in là nei thread di Reddit e nei blog di qualche nostalgico, ma l'interesse verso di loro si è riacceso e chissà se in quel di Barcellona qualcuno c'ha fatto un pensierino. A tal proposito consiglio vivamente l'ascolto del loro We Are The Romans, album della madonna che documenta quanto fossero fighe le commistioni tra metal e hardcore (e anche un po' di math che non guasta) prima che arrivassero quattro sfigati emo con il ciuffo piastrato a rovinare la festa, e a trasformare i termini "metalcore" e "mathcore" in brutte parolacce che non piacciono ai bongustai come noialtri.
- Olivia Tremor Control : Ok, non che questa amabile compagine di fricchettoni sia totalmente fuori quota per il Primavera (almeno quello "storico", che guardava sempre a una frangia freak folk/psichedelica), ma sarebbe comunque una sorpresa rivederli a giro dopo tanti anni. Band nata nel florido contesto di Elephant 6, collettivo super esteso da Athens, Georgia (un'altra personale Mecca musicale - R.E.M. e Deerhunter altri prestigiosi abitanti di quella zona), che diede il la a una miriade di progetti fighissimi (The Apples in Stereo, Neutral Milk Hotel, Of Montreal etc.), e che è stato di recente celebrato con un documentario e una compilation antologica. Quale miglior occasione, quindi, per organizzare una bella reunion dei nostri (e magari anche dei Neutral Milk Hotel), con annessa visione del documentario (che si dice sia veramente bello e toccante) e anche un bell'acid test alla Timothy Leary? Io ci metto la firma col sangue.


Categoria “DJ ed elettronica”

Con questa e le prossime categorie calmiamo un po’ le chitarrone, che oltretutto sono sempre meno (ahimè) protagoniste del festival, e ci addentriamo in generi che comunque, nonostante prendano sempre più piede nella lineup, hanno sempre avuto una grossa importanza nella varietà che solo il Primavera Sound sa offrire. Innanzitutto, DJ ed elettronica. Tre nomi a persona.

1) Reric

- Röyksopp : Pontatina, anche questa, apparsami in sogno (in realtà era più un dormiveglia). Queste leggende dell’hipster-tronica, con la loro anima club e la loro venatura ambient, possono accontentare quelle orde di cagacazzo (scusa Tommaso) che ogni anno reclamano la reunion dei Boards of Canada, e ci farebbero ballare anche di più.
- 2 Many DJs : Personalmente per rispetto della roboanza preferisco evitare di citare gruppi che sono passati dal PS di recente, ma qui l’inerzia è troppo forte per non proporla. Dopo essere venuti un po’ in sordina al secondo weekend della doppia edizione 2022 (a cui non abbiamo partecipato né io né Paolo), vorrei tanto vedere i due belgi tornare a Barcellona acclamati dal popolo e spaccare la dancefloor a suon di mash-up house music. 
- Paul Kalkbrenner : Quando vidi i Disclosure da solo, in terza fila, all’edizione 2022 (mi sono divertito tantissimo), ricordo di salire stremato le scalinate dell’anfiteatro noto ai veterani come "il Ray-Ban" (anche se ormai il palco è sponsorizzato da Cupra), e di incontrare gli amici di Tommaso che sotto sotto un po’ rosicavano per non aver vissuto da vicino la bolgia in cui ero appena stato. Gli dissi: "La grande club music per le masse" e uno mi rispose: "E allora l’anno prossimo chi viene, Paul Kalkbrenner?". Mi stava quasi sfottendo ma con l’espressione più seria del mondo gli dissi: "Magari". L’ho visto a Firenze nel 2017 senza nessuna aspettativa ed è stato uno dei set elettronici più belli che abbia mai visto. Ha uno status vicino agli headliners, certo, ma lo metti a fare chiusura all’alba davanti al mare e regali al pubblico un’esperienza indimenticabile, altra caratura rispetto a ciofecazze con uno status simile subìte di recente tipo Nina Kraviz o Peggy Gou.

2) Paolo

- Underworld : "Ride the sainted rhythms on the midnight train to Romford". La storia degli Underworld potrebbe essere oggetto di un discorso motivazionale: attenzione ragazzi, non servono caschi e paillettes per diventare il miglior gruppo di musica elettronica di sempre. Può bastare una magliettina a righe, capelli biondo platino, e una certa capacità di fondere il flusso delle maree con il battere incessante di un martello pneumatico. Gli anni ’90 sono gli Underworld; meglio di una macchina del tempo, meglio di qualsiasi documentario. Al Primavera hanno suonato nel 2015, ma io li avrei visti bene anche l’anno scorso, quello prima, quello prima ancora e così via. Che quest’anno sia finalmente quello giusto ?
- Evian Christ : Gli Underworld sono fra i capostipiti della trance. Evian Christ è uno dei pochi "giovani" compositori di musica elettronica che ha recuperato e sublimato quel genere che sembrava non essere uscito vivo dagli anni '90. Evian ha già concesso, nel 2018, un'incredibile performance alla Warehouse (parte della incredulità legata al fatto che dietro i decks non c'era effettivamente nessuno, ancora non s'è capita bene la situa). Quest'anno è uscito un disco nuovo e dubito che il PS perderà l'occasione per riportarlo in cartellone.  
- DJ Sabrina the Teenage DJ : Nel 2023 ha pubblicato il nuovo disco Destiny, fra le uscite elettroniche più simpatiche e fresche dell'anno. Però dura quattro ore. Resta il fatto che al PS ha il potenziale di fare ballare tutti, ma proprio tutti, e quindi, perché no?

3) Tommaso

- Kruder & Dorfmeister : Duo di produttori/DJ austriaci, arcinoti nei Novanta per le loro sessions mixate super pettinate, che variavano dalla musica per lounge bar a colonne sonore per immersioni nelle vasche di deprivazione sensoriale, aggiungendo sempre quel tocco di funk e acidume che non guasta mai. Fini conoscitori musicali e dotati di un'ottima dose di autoironia (celebre la loro copertina-plagio di "G-Stoned", che richiama quella di "Bookends" di Simon & Garfunkel), hanno avuto fortune alterne negli anni a venire, eclissati spesso dai Soulwax come "duo di nerd/ricercatori/produttori europei ganzi che fanno musica per gente ganza". Sarei ben contento di sentirli/vederli e non aggiungo altro a riguardo.
- Against All Logic : Nicolas Jaar al PS ce lo siamo sorbiti in più salse, l'ultima volta col suo progetto electro-blues (?) pallosissimo Darkside (dove il Darkside è probabilmente quella zona oscura tra le palle e il culo). Unica cosa degna di nota che ha compiuto musicalmente il nostro è stato questo progettino house apparentemente innocuo, ma che in realtà mostra le capacità di Jaar di comporre a cazzo e con la mano sinistra (mentre con l'altra si gratta/ispeziona il Darkside, credo) delle autentiche mine antiuomo che farebbero saltare in aria il Ray-Ban stage (l'abitudine è dura a morire) mentre si va verso l'alba. Quindi Nico, smettila di fare sonorizzazioni pallose per installazioni d'arte di merda da ricconi newyorchesi e torna a far ballare la gente, maremma installatrice.
- Dave P : Che dire: l'uomo più bello del mondo, il padrone del mio cuore e della mia anima, il re dei re, il dio dei mashup e delle commistioni avventurose, lo stregone del mixer, il maestro delle cerimonie: DJ Coco vattene affanculo te e tutti gli amici che ti porti sul palco, Dave P è la versione di te venuta meglio e anche più sexy e simpatica. Questa, più che una pontatina, è una dichiarazione d'intenti: Dave P is God.


Categoria “rapper”

Stesso discorso che con l’elettronica, nelle ultime edizioni è diventato normale avere uno o più rapper in posizioni da headliner, per la gioia di alcuni e lo scorno di molti. Personalmente, quelli che più mi sconfinferano sono sempre stati midcards. In ogni caso, proponiamo due nomi ciascuno.

1) Reric

- Morad : In un rap game europeo in cui la voce delle seconde generazioni si fa sentire sempre di più fuori dalla Francia, c’è stata una vera e propria esplosione di artisti di origine marocchina di cui Morad è senza dubbio il più famoso in Spagna. Catalano, pieno di scazzi con la polizia nazionale e con Vox, perciò amico del PS, è il candidato perfetto per regalare festa per i giovani locali. Pontatina sensatissima anche se a me non piace. 
- Freddie Gibbs : Il secondo "ripescaggio" della mia serie. Come Lana del Rey, anche Freddie Cane è finito nel dimenticatoio degli annunci pre-covid che non sono stati rinnovati. Ma io non dimentico, e per me, anche senza Madlib, uno dei rapper americani più cazzuti della sua generazione deve tornare al Primavera dopo 8 anni dalla sua ultima volta per provare al pubblico la sua consacrazione.

2) Paolo

- Doja Cat : Doja Cat, pseudonimo di Amala Ratna Zandile Dlamini (Los Angeles, 21 ottobre 1995), è una cantante, rapper e produttrice discografica statunitense.
- Ice Spice : Ice Spice, pseudonimo di Isis Naija Gaston (New York, 1 gennaio 2000), è una rapper statunitense.

3) Tommaso

Piccola premessa: sto attualmente trascrivendo questa mia aruspicina a scatola chiusa, ovverosia senza il confronto dell'altro esimio sacerdote Paolo. Non so cos'ha pontatinato ma sono quasi sicuro che abbia snobbato la seguente sezione, ritenendo il rap e ogni sua forma una sorta di genere minore (mi stupirebbe il contrario). Ciò che voglio intendere con questo preambolo – o pre-proposito ;) – è che io, per motivi diversi (ignoranza sul genere e zero-ascolti-zero) non sarò in grado di redarre per filo e per segno la coppia di pontatine assegnatemi, e per questo mi scuso. Posso però dire che negli anni, da outsider totale, ho assistito a un buon numero di performance rap e mi ritengo tutto sommato soddisfatto, laddove spesso la soddisfazione personale sopraggiunge quando il grado di coinvolgimento iniziale e l'aspettativa sono molto, molto bassi (esempio, Asap Rocky nel 2018 bombammano, slowthai nel 2019, che era quello sporco e cattivo e un po' punk e britannico – quindi per me più "esotico" rispetto ai rapper yankee – una merda totale). Ne dico un paio giusto per non far torto a nessuno, ma senza sprecarmi troppo, come un veterano di Serie A che entra a partita in corso e ha pochi scatti nelle gambe: Danny Brown e JPEGMAFIA, già visti entrambi al PS, ma protagonisti dell'unico album del genere che mi sia capitato di ascoltare – ed effettivamente apprezzare – in questo 2023.


Categoria “gen-z”

Il pubblico storico del PS invecchia e le nuove generazioni cominciano ad essere sempre più numerose. Che sia un bene o un male, ai posteri l’ardua sentenza. So solo che è sempre più frequente vedere artisti spiccatamente "zoomer" all’interno del festival, con tutto quello che si portano dietro anche in valore simbolico poiché il non-binarismo, la critica dell’eteronorma o ancora rivendicazioni razziali di vario genere abbondano nelle identità musicali di una grossa parte di questi acts. Siccome siamo vecchi (più dentro che fuori), due nomi a testa.

1) Reric

- Eyedress : La "new sensation" del bedroom pop (genere zoomer per eccellenza) viene dalle Filippine e non aspetta altro che venire in Europa ad ampliare la sua fanbase perché quest’anno è il suo anno e pure il "babbo" Mac DeMarco ha dato la sua benedizione. 
- Jane Remover : Stesso discorso che faccio per Eyedress ma in ambito hyperpop. Classe 2003, è l’unica artista che ho mai visto cancellare un vecchio nome d’arte in maniera tale che pronunciarlo fosse deadnaming, cosa che mi ha scombussolato non poco ma grandissimo rispetto. Abbandonato ed epurato il moniker sotto cui usci il fenomenale Frailty, uno dei migliori album del 2021, e nonostante la forte attività sotto il progetto Leroy (che ha inventato il "dariacore"), Jane di recente ha messo a nudo la sua anima subito dopo la transizione di genere nel video che annuncia un prossimo album su cui ho tantissime aspettative, Census Designated. Sperando che questo lavoro la piazzi sull’olimpo dell’hyperpop, un tour europeo con date di spicco in festival importanti come il PS "può accompagnare solo".

2) Paolo

- Jeff Rosenstock : Non sarà Gen Z sulla carta di identità, ma è l’idolo power pop della Gen Z (o di chi non capisce di power pop, e quindi della Gen Z). Passare dai Bomb the Music Industry! alla sua veste solista è come passare da River Plate a Juventus, dal futbol di adaniano adagio al calcio dei miliardi e delle supercoppe in Arabia Saudita; in questa metafora Anthony Fantano è il principe regnante degli Emirati. Rimane il fatto che dopo i Turnstile nel 2022 c’è bisogno di qualche altro attira camice hawaiiane e cappellini da pescatori, la divisa ufficiale dei Gen Z: e i mie due cents sono proprio sul caro vecchio giovane Jeff.
- Sidney Gish : Nata nel '97, è barely Gen Z (e quindi non barely legal, come invece preferirebbero i 50enni misteriosamente fan di fin troppe indie musicians della Gen Z calante), ma è la cantautrice indie pop che, insieme a Stella Donnelly, meglio ha recepito gli insegnamenti degli anni '90 e '00 rifiutando l'approccio morfinico che ha portato nell'olimpo le già citate Julien Baker e Phoebe Bridgers (fa male ammettere che al momento vincono due a zero). Se avesse voglia di venire in Europa, sarebbe una boccata d'aria fresca nello stantio reparto indie femminile tipico del Primavera Sound post 2019.

3) Tommaso

L'astensionismo è il fenomeno per cui, in una votazione (ad esempio in occasione di referendum o elezioni), le persone aventi diritto di voto non esprimono il proprio voto. Se la votazione non è in capo al Corpo elettorale ma ai componenti di un collegio ristretto (es. un'assemblea elettiva), è puntualmente disciplinata nelle sue conseguenze: per esempio, nel diritto parlamentare, gli astenuti risultano presenti durante la votazione ma non si esprimono. 


Categoria “talent scout”

Ovviamente, pontatinare non è divertente se non si vanno a piazzare colpi veramente tanto di nicchia. Questa categoria è quella in cui andiamo a suggerire gruppi che (almeno qui in Italia) sono pressoché misconosciuti e che si presterebbero benissimo alla kermesse barcellonese. Due nomi a testa, uno probabile e uno improbabile.

1) Reric

- La Elite : Pontatina troppo facile e servita su un piatto d’argento per non farla. Nonostante abbiano pubblicato un solo album, a fine 2022, i synth-punk rockers di Barcellona hanno sbancato talmente tanto in patria (anche ad eventi targati Primavera Sound) che quest’anno non possono essere lasciati fuori dalla "real thing". Ok, non sono proprio dei signori nessuno ma è il classico pronostico su cui scommetterei soldi veri. (Una piccola postilla: quando li ho visti suonare a Parigi ho chiesto al tastierista se avrebbero suonato al Fórum. Mi ha risposto con un: "Che io sappia no" al retrogusto di non-disclosure agreement.)
- Spill Gold : Le ho viste di recente al Frisson Acidulé, festivalino estremamente abrasivo a Vitry-sur-Seine e queste olandesi dal krautrock ipnotico mi hanno completamente conquistato dal vivo. Non succede, ma se succede sapranno fare contentissime svariate fette di pubblico, sia le più festaiole sia le più intellettuali. 

2) Paolo

Facile quando si vive in una metropoli con concerti ogni sera in tremila locali, o quando si è così nerdoni da conoscere ogni singolo progetto psych-rock uscito nel mondo, o tutta la panchina del Tottenham. Qua purtroppo al circolo il Progresso passa poca roba nuova, di solito si alternano i Diaframma, Federico Fiumani solista e Federico Fiumani in confidenziale. Per questa categoria lascio la parola ai miei cari amici sicuramente più avventurieri e studiosi di me.

3) Tommaso

- Ex Pilots : Prendete una buona dose di lo-fi e di garage rock, mischiateci il gusto per le melodie dei Guided By Voices e la violenza dei Mission of Burma, spolverate il tutto con una buona dose di power pop e di brit rock alla Teenage Fanclub e otterrete gli Ex Pilots. Ascolto consigliato: "Ex Pilots", 2023.
- Water From Your Eyes : Prendete una buona dose di synth-pop e di industrial, mischiateci la fredda e sciamanica frenesia dei Suicide, un po' di shoegaze, qualche sample figo, e otterrete i Water From Your Eyes – una roba ganza e ben più dignitosa e meritevole d'attenzione rispetto a quel patetico scherzo che sono i Jockstrap. Che vergogna di "band" e che spreco di tempo averli visti, ridatemi indietro quei preziosi minuti della mia vita. Ascolto consigliato: "Everyone's Crushed", 2023. 


Categoria “dank”

Finiamo la rassegna pontatinale con una, e una sola, chiamata puramente umoristica, cazzara, divertente, memica, ma non per questo impossibile. Del resto molti festival ogni tanto decidono di divertire l’uditorio con un’operazione improbabile: il Coachella nel 2018 fece fare una piccola performance allo "yodeling kid" che aveva sbancato a Walmart, e non dimentichiamo che il PS nel 2020 avrebbe portato Sonido la Changa, l’equivalente di Franchino e Ricky Le Roi per la cumbia messicana. 

1) Reric

- Padre Guilherme : Dopo averci esaltati con un DJ set iconico alla Giornata Mondiale della Gioventù (ritrasmesso per intero dall’Avvenire che per una giornata si è sostituito al canale del Boiler Room), è il momento della meritata "stardom" per il clerico portoghese. Non ci perde nessuno: il prete-DJ continua la sua missione di evangelizzazione, il pubblico si becca un set potentissimo con una nocchetta di memicità tra progressive house e sample vaticani, e il Primavera Sound dimostra ancora una volta apertura mentale accogliendo per la prima volta (credo) un sacerdote.

2) Paolo

- Eric Cantona : L’uomo che sembra vivere solo in quel video highlight dove tira la pedata e in pagine cringe sul romanticismo del football anni ’90 è in realtà un essere umano in carne e ossa; di più, pare essere anche un musicista. Ha la barba lunga, la voce profonda e i testi alla Nick Cave: tutti i requisiti per il cantautore medio del Primavera Sound. Da non sottovalutare anche il fatto che gli hooligans ubriachi che infestano da anni il Parc del Fórum potranno avere finalmente un condottiero: "What a friend we have in Jesus, and his name is Cantona".

3) Tommaso

- Kiss : Altra breve ma necessaria premessa: i Kiss per me sono roba serissima, non sono un cazzo di scherzo e non penso che sia giusto che la gente li tratti come dei fumettoni viventi incapaci di suonare due note in croce. I Kiss sono molto di più: sono una fottuta entità extraterrestre dalle sembianze divine che ha graziato questa stupida umanità con la loro presenza, e vanno solo rispettati, sennò volano gli schiaffi, capito? 
Ora, il significato di termini pagani quali "dank", "triggerato", "ghostato" e altre robe non linguisticamente pure non appartengono al mio lessico, sono oramai un adulto e non credo che questo basti a rendermi credibile ai vostri occhi (non ho questa pretesa) ma ecco, non ho nemmeno dodici anni e se uso Tik Tok è per vedere qualche bella fica e sperare che nella loro bio ci sia un link a Onlyfans (purtroppo esclusi/oscurati dai profili Instagram delle suddette). 
Ciò detto, le altre due alternative da me paventate erano gli Ace of Base e il DJ prete che però m'ha "razzato" il buon Cosimo, fregandomi sul tempo. 
Ricordo a tutti che i Kiss non sono uno scherzo, sono seri e navigati professionisti del settore, nonché padri di famiglia e personcine davvero perbene (lo dice King Buzzo dei Melvins, quando i suddetti vennero chiamati proprio dai Kiss – buongustai e intenditori veri – ad aprire i loro concerti verso metà anni Novanta, e se lo dice lui ci credo eccome). Io caldeggio fortemente questa pontatina e mi auguro che dopo gli ottimi Ghost della passata edizione, il PS si degni a riportare il vero Hard Rock mascherato al Parc del Fórum. Tra l'altro i Kiss sono impegnati in un tour d'addio (questa volta "vero", e non come quelli farlocchi e ingannatori dei Pooh), quindi ecco, muovetevi e spendete una buona fetta del budget per Gene Simmons, Paul Stanley e soci (e le loro meravigliose scenografie), altrimenti destinato a qualche scureggia loffia urban, trap o reggaeton. Avete rotto il cazzo con sta musica da puttanieri delinquenti, dateci la musica degli onesti lavoratori che pagano le tasse e che si godono i veri, piccoli grandi piaceri della vita - tipo la birra, il biliardo e il rock 'n roll.

Amen.

giovedì 19 ottobre 2023

Benelux vs. Mediterraneo (pt. 2/2) - Con Marcel e La Elite al giubileo del nuovo garage punk europeo

La Elite live @L'International, Parigi, 12/10/2023

Introduzione, di nuovo

Mi sono svegliato completamente disorientato. Non sono solito alzare il gomito a questi livelli il mercoledì sera, ma il sentimento di essere in un periodo festivo inventato da me mi ha spinto oltre ai miei limiti consueti. Dovrebbe farmi paura pensare che la festa continua e che stasera, dopo il carnevale di ieri, devo tornare a ballare sui frantumi di quel che resta di me. Ricordarmene, però, mi rinfranca e mi dà un briciolo di vivacità mentre mi alzo intorpidito, pronto a connettermi direttamente col lavoro senza passare dalle tappe rituali di doccia e compagnia bella. Odio lavorare da casa e non lo faccio mai, ma in vista di una settimana che conta quattro viaggi in campagna e due concerti ho avuto la buona intuizione di fare domanda con anticipo. Capita a fagiuolo, perché appena do uno sguardo al telefono per vedere che ore sono mi accorgo che il cellulare è inutilizzabile: non si vede una mazza e, a parte sbloccare la sveglia con pura memoria muscolare, in queste condizioni non serve a nulla. Per me che sono sostanzialmente agente di commercio questo vuol dire che sono attualmente in disoccupazione tecnologica.

Alla fine è quasi una buona notizia: finalmente ho uno scopo per la mia giornata, che è quello di riparare l’LCD in tempi lampo; e avere una missione di urgenza massima, a quanto ne so, è l’unico antidoto per quell’inedia da smart-working di cui soffro cronicamente. Quel santo uomo del tecnico del negozio sotto casa riesce a risolvere il problema entro le 18, senza fare nessuna loscata (quante volte vi è successo che chiedessero la password del telefono senza che sembrasse necessario?) e scusandosi anche del ritardo. Nonostante qualche micro-angoscia durante il giorno, specialmente quella di non riuscire a recuperare il mio biglietto DICE per la serata (abbasso il “tutto-cellulare” che imperversa ultimamente), tutto si risolve. Riesco anche a detossificarmi a dovere e prima di uscire, di nuovo a digiuno perché non ho punta fame, metto su a un volume illegale 19 Dias y 500 Noches di Joaquín Sabina, la canzone spagnola più nazional-popolare che io conosca.

Per chi non lo sapesse sono di nazionalità spagnola, per diritto di sangue da parte di madre. Detto ciò, non ho mai vissuto in Spagna e questa parte della mia identità è un po’ strana da portare perché a volte mi sembra più aneddotica che altro. Di spagnolo ho la conoscenza della lingua (fluente ma senza uno straccio di influsso territoriale), qualche piccola referenza di cultura popolare giovanile e non, un paio di basi di cucina nazionale ormai radicate nel mio ricettario interiore, e poco più. Se da un lato l'identità spagnola me la sento comunque radicata nell’anima, e me ne servo spessissimo per connettermi con gente di molte parti di mondo, dall’altra è sempre stata qualcosa di poco basato su esperienze di vita vissuta e più su una trasmissione generazionale astratta.

Mentre la voce roca di Joaquín Sabina riempie la stanza, il mio passaporto spagnolo mi scruta dal ripiano in cui l’ho posato e dal quale non lo sposto mai, se non per provare concretamente ai miei ospiti che sono davvero spagnolo. Quel libretto rosso mi guarda e ride di me, che dopo il detox prima di uscire devo anche prendere gli integratori di spagnolità. Lo mando a quel paese: stasera suonano i La Elite e gli stati-nazione li buttiamo nel cestino, perché l'unico minimo comun denominatore della serata è il garage punk, che sporca tutti indiscriminatamente.

***

“Donde está mi hermana?”, celebrando il camaleontismo con Lerka · Jo

Ok, forse ho parlato troppo presto. Arrivo a L’International poco prima delle 20 e c’è pochissima gente, che già è segno di ampia presenza spagnola visto che il concerto in teoria è sold-out. D’accordo, che gli spagnoli siano dei ritardatari è uno stereotipo, e nemmeno troppo vero; che in generale gli stranieri non conoscano o non capiscano l’organizzazione concertistica parigina, quello invece è un fatto appurato. Anch’io, all’inizio, non sapevo bene come approcciare queste serate che cominciano all'ora di cena, sono sempre puntualissime e hanno uno scaglionamento aperturacancelli-inizioconcerto non sempre chiaro. Poi per fortuna ho imparato un paio di regole di base: uno, arrivare sempre in anticipo, che non può mai far male; due, se la sala concerti è grande e non si capisce se l’ora sul biglietto è l’apertura cancelli o l’inizio della musica, fare uno squillo alla sala e farselo dire; tre, se la sala è piccola e c’è la stessa incomprensione, semplicemente presentarsi qualche minuto prima dell’orario indicato. A riprova delle mie elucubrazioni, in questo momento ci sono solo francesi soli che applicano sicuramente anche loro le regole d’oro del completismo da live (lo so perché ce l’hanno scritto in faccia), e giusto un paio di gruppetti di spagnoli un po’ hipster un po’ ronci che bevono ai tavoli del bar probabilmente da un bel po’ di tempo. Delle due categorie umane, in questo momento, mi sento più vicino alla prima. 

Appena apre, noi nerd sparuti ci spostiamo nell’antro sottostante (per una descrizione architettonica de L’International leggere l’introduzione della parte 1) e scambio le prime parole con uno di loro che mi dice di essere venuto per vedere l’opening act, Lerka · Jo, cantante ucraina trapiantata in Francia che ama mescolare metal, rap e elettronica. Dopo una frase del genere mi verrebbe l’istinto di scrutare il mio interlocutore come se fosse un membro del fanclub dei Linkin Park ma è chiaro anche solo alla vista che il ragazzo è troppo patrizio per starmi dicendo una cazzata. A quel punto, nella calma di una sala concerti semivuota, succede un piccolo miracolo: una ragazza bassina e occhialuta, un po’ schiva, monta sul palco e su una base Céline Dion-iana invita tutti, compresa la gente di sopra, ad avvicinarsi. Il locale comincia a riempirsi di gente ancora mai vista mentre Lerka · Jo canta una ballata in ucraino che non sfigurerebbe a un saggio di danza delle medie. Ha una bella voce ma tutto sembra troppo fuori luogo. Forse proprio per questo rimango sconvolto quando, al secondo pezzo, la cantante diventa un’altra persona e comincia a urlare su strumentali in cui il culto dei Rage Against the Machine flirta con una rave music di stampo slavo, dimenandosi da ogni parte. Devo ammettere che faccio un po’ di fatica a godermi i concerti in cui potrebbe esserci un gruppo e c’è solo una base. Di recente davanti ai velocissimi Unlogistic, veterani dell’hardcore-punk francese, mi sono annoiato proprio per questa ragione, la batteria sostituita da strumentali messe dal computer. Ma Lerka · Jo ha un non so che di coinvolgente, una presenza scenica che mette in ombra la semplicità della performance.

La dichiarazione di intenti Je Suis Lerka · Jo ci porta subito “Chez Lerka · Jo”, in un universo dove il multilinguismo e l’entusiasmo in purezza la fanno da padrona. La cantante ha accenti pronunciati e simpatici in tutte le lingue che parla (francese, inglese, ucraino), e non ha nessun timore di parlare lingue che non conosce. “Donde está mi hermana?”, chiede a ogni pausa in uno spagnolo scadente che mette di buonumore. Sul palco l’improbabile diventa normale e Lerka · Jo è capace di svariare da un pop-punk dal sapore Est-europeo come O 4 E N al rap motivazionale in cassa dritta di Cringe Boom, disorientando il pubblico che a volte è combattuto tra l’headbanging e il braccio alzato a scandire il ritmo del beat come veri b-boys. Come una versione rap metal dei già citati Stereo Total, la cantante  incita il pubblico a celebrare un libertinismo linguistico tanto violento quanto tenero e sull’“hello, privet, bonjour, ciao ciao” di Hitchhiking in Galaxy si apre un moshpit scherzoso che dà finalmente un senso a un’aria condizionata fin lì troppo presente. Alla fine del concerto le “hermanas” di Lerka · Jo appaiono davvero, un paio di ragazze con addosso il merch ufficiale che fanno casino sul palco. Ma ormai siamo tutti un po’ sorelle, e in una serata dove le divisioni nazionali si annunciavano piuttosto marcate un opening act divertente, ispirante e ben selezionato è riuscito ad appiattirle. Nell’entusiasmo generale, il concerto finisce con un brindisi collettivo: Champagne!

Il tempo di riprendermi da un principio di sudata e subito attorno a me vedo persone che parlano in inglese anche se chiaramente non è la loro lingua madre. Per la prima volta constato che sì, ci sono tantissimi spagnoli, ma le piccole tribù di stranieri e locali si mescolano piacevolmente. Invece di sentirmi un infiltrato o persino un impostore, adesso mi sento un camaleonte capace di cambiare colore con tutte le persone in sala. Ringrazio Lerka · Jo per farmi sentire così, e del resto questa sensazione pare necessaria in un tale contesto di promiscuità: sono sotto al palco, i La Elite stanno per cominciare il loro concerto e la densità umana è già molto alta. L’atmosfera è amichevole ed elettrica.

***

La Elite, il party spagnolo più caldo del momento (dress code: inelegante)

Quando il duo catalano monta sul palco, vedo per la prima volta quanto sono buffi e complementari i La Elite: il produttore/smaneggiatore/tastierista Nil Roig (AKA Yung Prado) è altissimo e ha uno stile alternativo sobrio e ben curato; il cantante David Burgués, al contrario, è bassino e ha l’aspetto di un troublemaker nato, con i suoi pantaloncini Adidas e gli occhiali da sole da black-bloc: il classico personaggio, rigorosamente pelato, che capita di incrociare in tutti gli squat d’Europa e che appare tanto simpatico quanto poco raccomandabile. “Buonasera Roma” esordiscono tra il clamore del pubblico questi Stanlio e Ollio del punk contemporaneo, coppia dirompente e irriverente già solo alla vista. “Una canzone per questa città… Una città di merda!” (in italiano). Tutta la sala ha già capito: dalle prime note del riff di sintetizzatore di Nuit Folle il sottosuolo de L’International diventa una festa selvaggia.

L’opener di Nuevo Punk per me è una delle migliori canzone su Parigi della storia, in competizione stretta giusto con un famoso standard jazz (nella versione di Count Basie) e una hit di Kanye e Jay-Z che non si può pronunciare per intero. Cantarla dentro al microfono insieme al suo autore (e una massa incontabile di persone esagitate quanto me) alla prima data dei La Elite a Parigi resterà per me un momento storico. I torpori di stamattina scompaiono definitivamente e, come al concerto dei Marcel, entro in una dimensione parallela, questa volta non tanto demoniaca quanto antisociale, nel senso più simpatico della parola. Le canzoni dei La Elite sono tutte trainate da questo fil rouge di volgarità e violenza gratuita (palesemente umoristica). Per esempio, subito dopo aver “cagado en el Louvre” con la prima traccia, parte un’altra hit: l’inno anti-lavoro Mata a tu Jefe, che con le sue schitarrate rock’n’roll mi fa sgolare e tira fuori da me il teppista che alberga nel mio subconscio (“me gusta beber, y pelear!”).

Pezzo dopo pezzo, nella bolgia che è diventato il pit de L’International, mi ritrovo come ieri sorpreso della qualità e l’originalità eccezionali della band di stasera: coi suoi sintetizzatori festaioli, Yung Prado è capace di trasformare un pogo da hardcore punk in una discoteca per matti, e David Burgués con la sua presenza e la sua voce sporca rende viziose canzoni che sono in realtà estremamente orecchiabili. La formula del punk che diventa dance e della dance che diventa punk è riuscitissima e si divertono tutti, compresi i non ispanofoni. Canzoni sfrenate come la velocissima A 180 con mi Monopatín, cantata in botta e risposta con il pubblico, oppure il singolone da club Bailando, canzone sul potere dell’amicizia sublimata da un wall of death che sancisce l’armonia tra i popoli, sono davvero irresistibili e universali, e le cantano tutti. Ci sono, in compenso, pezzi dai testi più profondi e in cui la comunità spagnola (me compreso) si identifica più personalmente. È con un sentimento di appartenenza che non sospettavo di avere in fondo al cuore che mi unisco ai sing-along di Contento de ser Feo o di Pintando en un Cd, forse la mia preferita (anche quella di Burgués!), bellissime canzoni “post-break-up” macchiate di oi!. Sulla seconda mi faccio anche notare con uno crowd surfing fallimentare che risulterà in una settimana di dolore alla schiena. Malgrado le barriere linguistiche, l’inclusività è di casa e anche il ruvido emocore naif di Marlburro, pieno di figure evocative sulla disillusione della fine dell’amore, sarà un’occasione per fare festa tutti insieme sdraiandoci per terra alle strofe e saltando fino al (bassissimo) soffitto durante il ritornello.

Il tempo passa in fretta tra canzoni brevi e potenti che si susseguono con una costanza eccezionale e qualche perla di stage banter caciarone che ci fa dimenticare anche i 18000 gradi Fahrenheit in sala. Viene molto apprezzato il “cooling break” al luppolo ma è l’imitazione del vecchio patriottico catarroso (“que viva España, coño!”) che piega definitivamente il pubblico dal ridere, e mi compiacerò anche di avere in saccoccia un inside joke nazionale che riscuote un certo successo: “pim pam toma lacasitos” (chi sa sa)! Una sequela finale di pezzi che non conosco, risalenti ai primi EP del gruppo e che riscuotono un gran successo nella giovane fandom spagnola, continuano a farci pogare come dannati fino all’inevitabile fine del concerto. Siamo tutti madidi e nell’aria c’è un’allegria mai vista. I La Elite sanno mettere su un house party come non se ne sono mai visti, e creare con mezzi quasi di fortuna (quanta paura mi faceva quel tavolino traballante con la drum-machine sopra…) un suono synth-punk efficacissimo proprio perché rudimentale e a bassa fedeltà.

Salgo al piano di sopra ed è straordinariamente presto per tutti per tornare a casa (devono essere appena le dieci e un quarto) ma restano quasi tutti a bere una o più birre. La gente ha la lingua decisamente sciolta e qualche anima gentile mi chiede se sto bene dopo la tronata devastante di prima. Al bancone del bar, estremamente affollato, gruppi di connazionali (ormai la spagnolità è entrata in circolo) si spillano la birra di nascosto e chiedono consigli sulle discoteche in cui andare. All’uscita becco Yung Prado, che ride quando gli racconto dei miei amici italiani che all’inizio credevano che la band fosse davvero di El Paso, Texas come indicato su Bandcamp (fui io a convincerli che sono chiaramente spagnolissimi). È molto gentile e si sincera che il mio amico Matteo, che al loro concerto a Barcellona si è rotto una gamba, stia bene, ma l’aneddoto lo fa anche molto ridere. Incontro anche un paio di vecchie conoscenze di questo blog (per quanto Stereo Totale abbia un mese di vita), più o meno legate da un filo sentimentale a membri di Persona Grata, il collettivo che ha organizzato questa serata memorabile.

(Un piccolo inciso: un ringraziamento speciale a Persona Grata per averci portato un gruppo che secondo me otterrà presto un piccolo status di culto, nonché una one-man-band spalla perfetta per rompere il ghiaccio).

Finisce che a mezzanotte sono titubante se restare a vedere i DJ drum’n’bass che stanno per attaccare al piano di sotto, e persino i DJ stessi e il personale del locale mi stanno esortando a non andarmene, ma di pessime ottime idee ne ho avute fin troppe in questi ultimi due giorni e domani devo andare a parlare di pale eoliche in consiglio comunale. Prima di tornare a casa saluto un sacco di persone spagnole e non con cui ho socializzato in queste ultime due orette, parlandogli come fossero amici di vecchia data. In quanto trapiantato all’estero decisamente integrato non posso dire di avere contatti con delle comunità straniere, né italiane né spagnole. Questa sera però si è creata una specie di comunità istantanea, una one-night stand di simpatia che trascende le connessioni nazionali, passaporti e altre cazzate. Dev’essere stata la magia del garage punk.

***

Conclusione

Il venerdì mattina, sorprendentemente, mi sveglio fresco come una rosa. Rido pensando che forse una festicciola mediterranea con “los colegas” domanda meno energie fisiche che un “charivari” forsennato di foggia nordeuropea. Questa riflessione dovrebbe invitarmi a sfruttare l’occasione del bilancio finale sulla mia due giorni di concerti per enumerare stereotipi divertenti su tizio che è così perché viene da lì e caio che è cosà perché viene da là. Per quanto l’esercizio suoni stuzzicante, ci rinuncio abbastanza in fretta. Una due giorni così non si presta a paragoni, ma a una semplice constatazione, che mi rende felice e ottimista per lo stato attuale della musica.

È evidente che in Europa in questo momento c’è un esplosione di musica che affonda nelle radici nel punk ma a cui si può mettere anche l’etichetta “garage”, che sia per definirne la sonorità, il modus operandi o ancora lo stile estetico. Ho parlato di “garage punk” varie volte in questo mio resoconto in due parti, e sono cosciente che è un genere che non esiste veramente, per alcuni addirittura un termine “ombrello” che può voler dire tutto e niente. Per me, invece, è una descrizione perfetta per quell’essenza che può felicemente associare gruppi diversissimi quanto Marcel o La Elite. Ultimamente stiamo assistendo a una riproduzione smisurata di gruppi punk (in senso lato) e magari è un buon segno, ma nella grande selezione a disposizione i pochi che davvero mi colpiscono hanno spesso e volentieri questa componente garage: il coraggio di fondare il sound su tale strumento o tale stile di produzione poco ortodosso o poco raffinato, o ancora di osare quella dissonanza abrasiva o quella contaminazione improbabile a cui un gruppo “revival” più tradizionale non avrebbe mai pensato, sono questi gli slanci passionali che gettano per me le fondamenta del rock del futuro e l’embrione di un nuovo filone europeo.

Se quest’ondata europea, poi, ha le sue specificità regionali, non si può che gioirne: ho già parlato della ricchezza culturale del nostro continente e vederla riflessa in musica mi fa sentire ancora più fiero di chi sono, da dove vengo e dove vado. Se ne può parlare stereotipando e a piccole dosi è divertente, ma l’essenziale per me, più che trovare le differenze, è trovare i punti in comune tra i gruppi che mandano avanti il rumore che amo e che voglio sostenere.

Tornerò presto a parlare di “nuovo garage punk europeo”. Intanto, mi tengo la fatica di due notti con poco sonno, una botta sul lombo inferiore sinistro che fa ancora un po’ male, qualche chilo perso per denutrizione e la pancia che ciononostante è ancora più rotonda di prima a causa dell’eccesso di birra. Soprattutto, mi tengo un sorriso di soddisfazione per aver acchittato una doppia serata a tema di quelle che capitano una volta nella vita: un vero e proprio giubileo della mia personale musica del domani.

lunedì 16 ottobre 2023

Benelux vs. Mediterraneo (pt. 1/2) - Con Marcel e La Elite al giubileo del nuovo garage punk europeo

Marcel live @Backstage by the Mill (MaMa Music Convention), Parigi, 11/10/2023 

Introduzione

La vita concertistica parigina è senza dubbio piena di emozioni e, se ne si ha voglia, si ha sempre almeno un concerto esaltante al mese. Se gli vogliamo trovare un difetto, però, è quello dell’incostanza. Mi capita spesso di avere periodi in cui per venti giorni c’è il nulla assoluto e poi quella settimana dove si fa fisicamente fatica ad andare a tutte le serate (e magari ci sono persino dei conflitti orari irrisolvibili, manco stessimo al Primavera Sound). Una volta ogni sei mesi circa, poi, capitano quei due giorni di fila irrinunciabili anche se distruttivi, alla fine della quale si è felici ma al contempo non ci si sente per niente in buona salute. Le “due giorni” catartiche non solo concentrano tanto piacere in poco tempo ma sono anche un reminder che noi drogati di musica dal vivo siamo esseri irrazionali e che pur di vivere piccoli attimi di estasi siamo disposti ad andare al lavoro soffrendo di stanchezza, digiuno e acidità di stomaco; e va bene così.

Ogni tanto i concerti per due sere di fila non hanno nessuna correlazione l’uno con l’altro. A settembre dell’anno scorso, per esempio, la combo JPEGMAFIA seguito dai Wedding Present (il trentesimo compleanno di Seamonsters!) mi prosciugò di ogni energia e mi fece far festa indiscriminatamente con il meglio della gen-z statunitense e vecchi inglesacci ubriachi. Qualche mese dopo, invece, il fil rouge era ben più palese: vedere gli Stereolab e poi i Pavement il giorno dopo è stata una fantastica ridiscesa negli anni novanta, un dispendio di forze vitali collettivo (saluto la mia amica Pauline e il mio fido compare Tommaso, venuto apposta da Firenze) che ci ha fatto sognare un’epoca che non abbiamo mai veramente vissuto prendendoci a schitarrate in faccia e trasformandoci in felicissimi zombie.

Mai come prima d’ora, però, la due giorni appare così tematicamente coerente. Questa settimana a Parigi suonano il mercoledì i Marcel, gruppo noise-rock belga che ha debuttato a marzo 2023 con Charivari, album strabiliante pieno di soluzioni acrobatiche, e il giovedì gli spagnoli La Elite, che col loro primo LP Nuevo Punk (dicembre 2022) hanno definitivamente messo la Catalogna sulla mappa delle grandi mete del synth-punk. Due serate completamente diverse che però mi faranno vedere due dei nuovi prospetti più promettenti del garage rock (inteso come ethos più che come genere) e soprattutto osservare le differenze di approccio regionali che possono esistere tra un gruppo dell’operoso Benelux e uno che gode della vita lenta sulle rive del Mediterraneo.

Faccio un’ammissione di colpa: ho una piccola passione per gli stereotipi, semplicemente perché mi fanno ridere, niente di più niente di meno. Non penso che tutti i belgi e olandesi (e anche i lussemburghesi, via) siano impeccabili e onesti lavoratori amanti del progresso, della tecnica e delle serate in birreria con le gote rosse, né che tutti gli spagnoli siano dei vagabondi caciaroni che amano passare le giornate a sbevazzare su terrazze e panchine. Certo è che, quando ascolto i Marcel e i La Elite uno a fianco all’altro, faccio fatica a non dirmi che molti stereotipi hanno un piccolo fondo di verità, che poi è quello che li rende divertenti. I primi, belgi, in Charivari snocciolano testi colti su politica e sociologia mentre gestiscono con maestria impressionante la dissonanza su strati di percussioni esotiche ben ragionati. Gli spagnoli, dal canto loro, basano tutto l’universo del loro Nuevo Punk su un tappeto estemporaneo di drum machine, un synth, riff di chitarra punk semplicioni, e ci urlano sopra le disavventure di una vita sporca e poco salutare. Purtroppo, il contesto di entrambi i concerti non fa che rafforzare il cliché sopracitato ancor prima di andarci: i Marcel si esibiscono al MaMa Music Convention, una manifestazione di tre giorni strapiena di conferenze e live show che si susseguono tra le varie sale del quartiere Pigalle con una puntualità e una precisione degna di un sistema ferroviario, dove gli addetti ai lavori col “pass pro” bene in vista attorno al collo sono in maggioranza schiacciante rispetto a noi, povera gente che ha fatto la dura scelta di essere pubblico pagante per tutta la vita; i La Elite invece si esibiscono a L’International, bar popolare di Ménilmontant con un sottosuolo che funge da sala concerto/discoteca, tappezzato di adesivi, dal tetto pericolosamente basso per accogliere concerti punk, una sala piccola e un palco alto 50 centimetri, con qualche pilastro piazzato in punti scomodi (ma non si può fare altrimenti), e soprattutto a una serata pagata 10€ e andata sold-out.

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Infiltrati nell’industria: una serata di talent scouting involontario al MaMa Festival

Vado al MaMa con mio babbo che, di passaggio per Parigi, è curioso di vedere un po’ di sale concerto diverse e ha piacere ad accompagnarmi a vedere quello che per me è uno dei migliori giovani gruppi in circolazione. Effettivamente, il formato del festival è decisamente studiato bene, l’accesso ai locali facile e le distanze brevi (inframezzate anche da vari bar, tutti pieni di avventori della convention). Il mio amico Théo, che lavora nella distribuzione musicale (non ho ancora capito il suo mestiere ma ci vogliamo bene lo stesso), è in zona e partecipa a tutti i tre giorni della convention. Lo incrociamo di tanto in tanto, sempre con colleghi diversi, ed è il nostro unico punto di contatto con l’industria. Certo, anche se Théo non fosse qui l’industria la si vede e la si sente: ovunque ti volti vedi gente che fa “networking”; il pubblico è molto calmo, si diverte ma sta anche lavorando; e negli sguardi di certe persone credo persino di indovinare, forse per autosuggestione, un interesse più commerciale che strettamente musicale riguardo a quello che sta succedendo sul palco.

Le prime due artiste che vediamo (completamente a scatola chiusa), sono effettivamente delle potenziali pop-star in divenire, e io e babbo ci divertiremo molto a riscontrare quanto sia aleatorio il successo per gli artisti che propongono musica radio-friendly. La prima è Bamby, che si esibisce nel classicissimo e splendido locale della Boule Noire tra le urla di ragazze esaltate e il silenzio di uomini bianchi che osservano lo show quasi imbarazzati di essere lì, a osservare un potenziale fenomeno di una musica “trendy” per la demografia opposta alla loro. Questa cantante guyanese offre uno show procace in tutto. Glisserò sulla presenza scenica della performer (ci siamo capiti), ma anche solo le strumentali dai bassi twerkanti, il patois caraibico potente e sboccato, gli interventi in voce ragga di un DJ/hypeman particolarmente nutty, tutto urla di un inevitabile ritorno della dancehall di stampo giamaicano sulle scene del pop per le masse. Dopo aver assistito a fenomeni africano-francesi come Aya Nakamura et similia, oppure ancora tutti gli artisti dei nuovi “afrobeats” che hanno rimesso la Nigeria nella parte alta delle classifiche britanniche (Burna Boy, Rema etc.), non è impossibile pensare che una Bamby di turno popolarizzi definitivamente una connessione “post-coloniale” (dire altrimenti sarebbe ipocrita) abbastanza inedita : un ritorno, in Francia metropolitana, delle sonorità da bloc party guyanese. A me la musica di Bamby diverte molto e, in prima fila, faccio gesti di apprezzamento col sorriso stampato in fronte. Mio padre è un po’ più dubbioso e l’avvenentissima cantante se ne accorge: finisce che durante Real Wifey si rivolgerà direttamente a lui avvicinandogli il microfono alla bocca per ottenere la risposta a un sensuale (e un po’ volgare): “Ça va ou quoiiiii ?”, forse pensando che questo signore fuori contesto è un importante discografico accompagnato dall’assistente a vedere la nuova sensazione. Io sono morto dalle risate e quasi quasi resterei, ma è vero che quattro canzoni di dancehall pop sono troppe anche per me. Usciamo convinti che non ci stupiremmo se un giorno Bamby ha una hit radiofonica, ma anche ricordando quel vecchio aforisma attribuito a Lee Perry che diceva che “la dancehall è lo sterco del diavolo”.

Una seconda pop-star in potenza la vediamo nel sorprendente (e ripido) scenario del Théâtre des Trois Baudets poco distante. Dopo aver visto una musica forse troppo nera per noi, è il turno di un paio di canzoni di una musica quasi troppo bianca (e sicuramente troppo francese), il pop leggero dalle velleità funkeggianti di Clair. La cantante francese è accompagnata da musicisti estremamente tecnici e ricorda terribilmente Angèle (una mia bestia nera) non solo nella voce e nelle linee vocali, che già è molto, ma in tante altre cose che rendono la somiglianza “troppo”: l’aspetto fisico, la capigliatura bionda, persino il maglioncino. Ancora una volta, però, ci ritroviamo a dire che un pezzo appiccicosissimo come Danser ou Créver non ha molto da invidiare a canzoni simili che ci vengono propinate alla radio.

Decidiamo che il pop ci basta e avanza e che è tempo di affidarci al buon vecchio valore sicuro dell’indie rock. Entriamo nella terza sala senza sapere cosa aspettarci dal Backstage by the Mill. Il fatto che si trovi sul retro di un bar irlandese nel quartiere “a luci rosse” della città non promette granché bene, penso mentre attraversiamo un O’Sullivan pieno di anglo-sassoni festaioli. In realtà l’accesso si fa tramite un vicolino cieco (Cité Véron) dove, in fondo, scopriremo più tardi una targa che commemora la vecchia residenza artistica di Jacques Prévert, Boris Vian e il loro cane, “i tre Satrapi”. E da questo Shady Lane entriamo in una sala ampia e vivace dove TH Da Freak, sul palco, stanno suonando Flies, una canzone lo-fi indie rock spettacolare, per l’appunto di Pavement-iana memoria. Il quintetto bordolese l’ho già visto una volta in una SMAC a Chelles, comune di remota banlieue Est. Hanno tre chitarre, ma non si sente molto, e hanno alcuni pezzi eccellenti come il sopracitato, alternati però a lunghi momenti di pura inutilità. Assistiamo agli ultimi minuti del concerto non pienamente convinti e mi chiedo persino se l’incostanza non piaccia all’industria musicale: anche un pezzo grosso come Alex G a ogni nuovo album ci regala tre o quattro tracce eccezionali e tre quarti di musica skippabilissima, e a pochi questo sembra disturbare. Appena finisce il concerto una ragazza con cui avevo condiviso il ritorno in treno dal Primavera Sound quest’estate e che incrocio spesso ai concerti indie più leggeri mi dice: “C’était trop bien”. Faccio lo sdubbiato ma mi pareva che lei si fosse definita una fan sfegatata di Alex G, il che confermerebbe le mie teorie. La discontinuità come affermazione dell’insicurezza (che è poi uno dei temi fondanti di questi artisti)? Chissà.

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Marcel, uno spiritello rumoroso venuto da Nord-Est

Non ho troppo tempo per dibattere di queste elucubrazioni con gli esperti del settore perché i sodali di Théo mi raccontano rapidamente che si occupano di jazz o di elettronica, quindi non troverei un terreno fertile. Ma soprattutto, i Marcel stanno per salire sul palco e sono venuto essenzialmente per loro. In vista della sfuriata noise-rock della serata mi carico a birra, parlo con gente a caso, veloce e forte, e sono già visibilmente in fibrillazione ben prima che i belgi salgano sul palco. Quando cominciano a suonare dopo un intro di can-can (il Moulin Rouge è a due passi) ammattisco definitivamente. C’è qualcosa nel suono dei Marcel che semplicemente mi fa diventare indemoniato, che poi è la definizione stessa della parola “charivari”: un rituale collettivo che oscilla tra la manifestazione di rabbia e la goliardia carnascialesca. Durante il concerto mi ritrovo a vivere entrambe e persino il fatto di essere circondato da persone decisamente serie mi sblocca ancora di più l’istinto di trasformarmi in un satiro danzante simile a quello che si vede sulla copertina dell’album, alternando balletti scemi a sing-along furiosi.

Sono 45 minuti di fuoco dove vengono macinati tutti i miei pezzi preferiti di Charivari (forse proprio tutto il disco, addirittura). Sono splendide le canzoni noise/garage rock più classiche, come per esempio Six Seconds, che mescola un’immediatezza punk a un’orecchiabilità improbabile nel marasma di distorsioni, o ancora Nechayev & Sons, dal riffing dissonante degno di maestri del post-hardcore, nella cui alternanza di pause e sfuriate non si può non leggere un’esortazione a fare casino (devo aver fatto cadere della birra a qualcuno, ops). Il cantante della band, Amaury Louis, è estremamente istrionico e rende anche questi pezzi più “tradizionali” uno spettacolo per gli occhi mentre viene operato un assalto per le orecchie. Ma i Marcel amano svariare e proporre piccole follie inaspettate, come quella batucada post-punk impossibile che è bbl, dove le reminiscenze brasiliane hanno anche un sapore di marcia militare, o ancora il lirismo sintetico di Eurovision, marcata da pindarismi vocali con l’autotune che ricordano anche il Casablancas dei The Voidz. Il tempo vola e mi diverto tantissimo, canto a tutto spiano (in Blue Danube No More alzo le mani e forse l’accendino al cielo mentre ripeto la nenia “It’s your time to cry…”) e quando il set finisce sono convinto, ancora più della prima volta che li ho visti alla Ferme Electrique, che siamo davanti a un gruppo esageratamente promettente.

Dopo il concerto sento l’avviso di varie persone, e molte sono rimaste colpite soprattutto dalla giocosità della performance. Ancor più della varietà nell’uso di strumenti esotici ed effetti sonori inaspettati, quel che è davvero impressionante dei Marcel per me è come possano essere al contempo buffi e potenti, simpatici e spaventosi. Un pezzo come Intimité per esempio, col suo boogie no-wave cantato in un francese nervoso e scattante, racchiude tutte queste contraddizioni e le esalta, dando davvero l’idea che i Marcel siano una di quelle band che capitano poche volte a generazione.

Mentre sbollisco assistiamo all’inizio del concerto degli olandesi Tramhaus, che stasera ci vengono venduti come un nuovo astro nascente del revival post-punk. I ragazzi sanno fare bene il loro mestiere e convincono, ma il loro songwriting, che non mi catturava sui dischi, purtroppo non riesce a trascendere nemmeno nella versione live. Make it Happen, loro omaggio “western” alla città di Rotterdam, resta un pezzone dal retrogusto Doors rimarcabile, ma il resto non mi fa innamorare.

Mentre guardiamo il concerto pronti a partire incrocio un paio di Marcel e scambio due parole con il batterista, che ha suonato tutto il set col dolcevita addosso (!). Questo ragazzo di nome Ulysse, che ha martellato come un matto e non ha una goccia di sudore (in sottofondo sta risuonando il secondo miglior pezzo dei Tramhaus, I Don’t Sweat), mi fa il più bello dei complimenti: “Per restare motivato e credibile di fronte a tutti questi professionisti del settore guardavo te mentre suonavo”. Ormai, con persino la loro maglietta addosso, mi auto-consacro groupie del gruppo e provo un vero piacere, quando mi dice che hanno suonato tantissime volte con gli olandesi, a pronunciare di fronte a lui la parola “Benelux”, che trovo buffissima.

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Fine della prima parte: tristi constatazioni sullo stato attuale della party music francese

Oramai abbiamo tutti avuto una buona dose di musica di qualità e anche di un certo intellettualismo, e l’ora tarda indica che è tempo di andare a ballare. La gente nel Backstage by the Mill è sempre più alcolizzata e chiacchierona, purtroppo per i Tramhaus che stanno facendo un bel concerto dietro al brusio generale. Serpeggia nell’aria un esodo verso un luogo festivo, uno tra i più iconici al mondo: il Moulin Rouge. Se un giorno ci andate, non aspettatevi di trovare al suo interno un decoro da dipinto di Toulouse Lautrec: la sala concerto è grande, ben allestita su due piani ma moderna e quasi anonima. Sono circa le 23:30 e la Machine du Moulin Rouge è strapiena di gente, perlopiù giovani del mestiere, che assistono alla fine del concerto de Les Clopes (“Le Sigarette” in lessico famigliare). I pochi minuti che vediamo della performance sono quasi raccapriccianti: sette (!) persone sul palco che non compicciano granché, tutte vestite di occhialoni da sole bianchi, ritmi di drum machine che accompagnano bassline post-punk banali e testi stupidi sulla gioventù francese. Attention Dépression è resa ancora più imbarazzante della sua versione studio da un estensione del dialogo tra cantanti sulla tematica del: “Sono nella merda posso dormire da te stasera?”, il tutto infarcito di gergo da giovinastri tipo “sous-loc” (il subaffitto) o un “verlan” romanticizzato in maniera spicciola (senza che poi ce ne sia ormai più bisogno). Non capisco l’appeal ma le gente sembra divertirsi. Mio padre, a cui ho insegnato un po’ di slang di internet negli ultimi anni ma che ancora non l’ha imparato bene, a questo giro mi guarda e dice: “Cringe, no?”, e stavolta ha completamente compreso.

Finisce che babbo torna a casa e io faccio una decisione distruttiva per la mia salute, che è quella di prendere un altro bicchiere e restare per un ultimo concerto. Sono al bar che scherzo con la barista sul fatto che “quanto lo vuoi diluito il pastis?” è una di quelle domande che a noi stranieri sembra assurda, tipo “quanto la vuoi cotta la baguette?” (“al sangue”), e arriva Théo che mi dice che il gruppo che sta per suonare secondo lui diventerà famoso. I Dalle Béton la loro micro-fama da gimmick band in realtà se la sono bella che guadagnata: di recente ho visto un video infografico su Instagram (su Konbini o qualcosa del genere) che parlava dell’originalità delle loro performance, e hanno anche suonato all’ultima Fête de l’Humanité (gigantesco festival del Partito Comunista Francese, dove ogni anno suonano act di rilievo nazionale e internazionale). La particolarità di questa band sarebbe quella di costruire un blocco di cemento (una “Dalle Béton”) sul palco.

La prima cosa che tengo a dire è che, nonostante la betoniera che girava, un paio di impastate di calce e il rituale test della cazzuola, il blocco non è stato colato, quindi quel che si dice in giro è una fake news. In secundis, che ormai mentre comincia quest’ultimo concerto i bicchierini buttati giù cominciano a essere tanti. Ciononostante, so di per certo che quando un closing act danzereccio mi piace davvero non importa quanto io sia sano e quanto me ne ricordi dopo: qualsiasi sia il tasso alcolemico io ballo, mi diverto e considero il concerto memorabile. Purtroppo non posso dire nessuna di queste tre cose per Dalle Béton perché, nonostante tutto indicasse che erano la party band della serata, non ho ottenuto niente di quel che mi aspetto da una party band.

Va detto, lo show è simpatico: sul palco ci sono attrezzi da cantiere, i musicisti portano dei gilet catarifrangenti e l’idea anche se lontanissima dall’essere originale è quantomeno spassosa. Certo è che lo stage banter è proprio stantio: al momento del cono segnaletico in testa mi sono abbastanza vergognato e per il resto i quattro, che propongono in teoria una musica umoristica, non possono fare di meglio che un audacissimo (si fa per dire): “Abbiamo sentito che c’è molta gente del music business ma noi ce ne freghiamo il cazzo”, o ancora: “Ho visto che c’è una conferenza domani che si chiama ‘Il marketing musicale può salvare il pianeta?’, no comment”. La musica non ha neanche lei niente di esaltante, si tratta di un accrocchio di dance-punk industriale senza niente di distintivo, e le poche linee vocali che il cantante si degna di regalarci tra un cazzeggio edile e l’altro sembrano costantemente rifugiarsi in convenienti soluzioni nostalgiche (nel senso che le hai già sentite su Radio Nostalgie). Quello che mi convince meno, però, sono i testi e i concetti fondanti delle canzoni: una sequela di sloganacci che servono essenzialmente a far sentire l’uditorio “di sinistra ma non radical chic” (anzi, non “bobo”, bohémien bourgeois, cosa che tra l’altro io rivendico di essere). Mentre si susseguono liriche di una banalità disarmante su temi come le piccole défaillances di uno dei mondi del lavoro più performanti del mondo (come in CPF, canzone sul conto professionale per le formazioni), o ancora una critica priva di argomenti delle nuove strutture associative sperimentali (ai frequentatori di questi famosi “tiers-lieux” viene detto autoritariamente: Mange Ton Compost), o, la peggiore di tutte, una canzone che non sarebbe satirica nemmeno su Marte intitolata 49.3 (che sarebbe un cavillo dell’esecutivo per far passare le leggi più facilmente un po’ come i decreti legge, e che ha fatto passare la riforma delle pensioni)… Insomma, mentre vengono sciorinati questi testi tutto tranne che sagaci mi viene da pensare che tutti i presenti, questi giovani del music biz che sprizzano divertimento da tutti i pori e cantano i ritornelli a gran voce, devono star espiando qualche colpa. Non vedo nessun’altra spiegazione.

È sentirsi parte di un movimento sociale popolare inesistente che li esalta a tal punto? O forse ascoltar parlare di sigle burocratiche provoca l’ebbrezza artificiale del conoscere le piccole difficoltà dell’età adulta? O ancora, tornare a citare frasi ascoltate a una qualche manifestazione risveglia istinti festivi agli astanti? Non lo so, ho l’impressione che la musica dei Dalle Béton abbia come unico obiettivo quello di far indentificare il pubblico con un proletariato immaginario, e questa cosa mi mette una certa tristezza.

Sono ormai ubriaco (ops) e passo il concerto a mentalizzare queste considerazioni mentre all’esterno faccio battutacce a Théo. Mi sono divertito tantissimo oggi ma mi sento desolato dalla constatazione che uno strumento potente come può essere una party music politica sia affidato a un gruppo di così poca profondità (e nel mentre penso ai Devo, che portavano anche loro i coni sulla testa).

Alla fine, dopo altri bicchieri di troppo e un paio di sfoghi anch’essi eccessivi, mi decido di tornare a casa. Mentre mi compiaccio del fatto che il miglior gruppo della serata già lo conoscevo senza avere contatti con l’industria musicale, gli dei del music business mi puniscono per la mia boria. Sto sputando nel piatto in cui mangio e allora un fulmine mi colpisce, facendomi cadere il cellulare dalle mani. L’LCD va in frantumi, ma nemmeno mi arrabbio: lezione imparata e meritatissima. 

Abbasso la mia hybris. Viva il MaMa. Viva la musica garage punk, che non è antitetica al mercato musicale. Viva anche il mercato musicale, e abbasso la musica finto garage e finto punk, che si finge antitetica al mercato solo quando è sul palco, mentre in realtà ci sguazza.

Ah, e viva Marcel!