La Elite live @L'International, Parigi, 12/10/2023 |
Introduzione, di nuovo
Mi sono svegliato completamente disorientato. Non sono solito alzare il
gomito a questi livelli il mercoledì sera, ma il sentimento di essere in un
periodo festivo inventato da me mi ha spinto oltre ai miei limiti consueti. Dovrebbe
farmi paura pensare che la festa continua e che stasera, dopo il carnevale di
ieri, devo tornare a ballare sui frantumi di quel che resta di me. Ricordarmene, però, mi rinfranca e mi dà un briciolo di vivacità mentre mi alzo intorpidito,
pronto a connettermi direttamente col lavoro senza passare dalle tappe rituali
di doccia e compagnia bella. Odio lavorare da casa e non lo faccio mai, ma in
vista di una settimana che conta quattro viaggi in campagna e due concerti ho
avuto la buona intuizione di fare domanda con anticipo. Capita a fagiuolo,
perché appena do uno sguardo al telefono per vedere che ore sono mi accorgo che
il cellulare è inutilizzabile: non si vede una mazza e, a parte sbloccare la sveglia
con pura memoria muscolare, in queste condizioni non serve a nulla. Per me che
sono sostanzialmente agente di commercio questo vuol dire che sono attualmente
in disoccupazione tecnologica.
Alla fine è quasi una buona notizia: finalmente ho uno scopo per la mia
giornata, che è quello di riparare l’LCD in tempi lampo; e avere una missione
di urgenza massima, a quanto ne so, è l’unico antidoto per quell’inedia da
smart-working di cui soffro cronicamente. Quel santo uomo del tecnico del
negozio sotto casa riesce a risolvere il problema entro le 18, senza fare
nessuna loscata (quante volte vi è successo che chiedessero la password del
telefono senza che sembrasse necessario?) e scusandosi anche del ritardo.
Nonostante qualche micro-angoscia durante il giorno, specialmente quella di non
riuscire a recuperare il mio biglietto DICE per la serata (abbasso il
“tutto-cellulare” che imperversa ultimamente), tutto si risolve. Riesco anche a detossificarmi a dovere e prima di uscire, di nuovo a digiuno perché non ho
punta fame, metto su a un volume illegale 19 Dias y 500 Noches di Joaquín
Sabina, la canzone spagnola più nazional-popolare che io conosca.
Per chi non lo sapesse sono di nazionalità spagnola, per diritto di sangue
da parte di madre. Detto ciò, non ho mai vissuto in Spagna e questa parte della mia identità è un po’ strana da portare perché a volte mi sembra più aneddotica che
altro. Di spagnolo ho la conoscenza della lingua (fluente ma senza uno straccio
di influsso territoriale), qualche piccola referenza di cultura popolare giovanile
e non, un paio di basi di cucina nazionale ormai radicate nel mio ricettario
interiore, e poco più. Se da un lato l'identità spagnola me la sento comunque radicata
nell’anima, e me ne servo spessissimo per connettermi con gente di molte parti
di mondo, dall’altra è sempre stata qualcosa di poco basato su esperienze di
vita vissuta e più su una trasmissione generazionale astratta.
Mentre la voce roca di Joaquín Sabina riempie la stanza, il mio passaporto
spagnolo mi scruta dal ripiano in cui l’ho posato e dal quale non lo sposto mai,
se non per provare concretamente ai miei ospiti che sono davvero spagnolo. Quel
libretto rosso mi guarda e ride di me, che dopo il detox prima di uscire devo
anche prendere gli integratori di spagnolità. Lo mando a quel paese: stasera
suonano i La Elite e gli stati-nazione li buttiamo nel cestino, perché l'unico minimo comun denominatore della serata è il garage punk, che sporca tutti
indiscriminatamente.
***
“Donde está mi
hermana?”, celebrando il camaleontismo con Lerka ·
Jo
Ok, forse ho parlato troppo presto. Arrivo a L’International poco prima delle
20 e c’è pochissima gente, che già è segno di ampia presenza spagnola visto che
il concerto in teoria è sold-out. D’accordo, che gli spagnoli siano dei
ritardatari è uno stereotipo, e nemmeno troppo vero; che in generale gli
stranieri non conoscano o non capiscano l’organizzazione concertistica
parigina, quello invece è un fatto appurato. Anch’io, all’inizio, non sapevo
bene come approcciare queste serate che cominciano all'ora di cena, sono sempre puntualissime e hanno uno scaglionamento aperturacancelli-inizioconcerto non sempre
chiaro. Poi per fortuna ho imparato un paio di regole di base: uno, arrivare
sempre in anticipo, che non può mai far male; due, se la sala concerti è grande
e non si capisce se l’ora sul biglietto è l’apertura cancelli o l’inizio della
musica, fare uno squillo alla sala e farselo dire; tre, se la sala è piccola e c’è
la stessa incomprensione, semplicemente presentarsi qualche minuto prima
dell’orario indicato. A riprova delle mie elucubrazioni, in questo momento ci
sono solo francesi soli che applicano sicuramente anche loro le regole d’oro
del completismo da live (lo so perché ce l’hanno scritto in faccia), e giusto un
paio di gruppetti di spagnoli un po’ hipster un po’ ronci che bevono ai tavoli
del bar probabilmente da un bel po’ di tempo. Delle due categorie umane, in
questo momento, mi sento più vicino alla prima.
Appena apre, noi nerd sparuti ci spostiamo nell’antro sottostante (per una
descrizione architettonica de L’International leggere l’introduzione della
parte 1) e scambio le prime parole con uno di loro che mi dice di essere venuto
per vedere l’opening act, Lerka · Jo, cantante ucraina trapiantata in Francia
che ama mescolare metal, rap e elettronica. Dopo una frase del genere mi verrebbe
l’istinto di scrutare il mio interlocutore come se fosse un membro del fanclub
dei Linkin Park ma è chiaro anche solo alla vista che il ragazzo è troppo
patrizio per starmi dicendo una cazzata. A quel punto, nella calma di una sala
concerti semivuota, succede un piccolo miracolo: una ragazza bassina e
occhialuta, un po’ schiva, monta sul palco e su una base Céline Dion-iana
invita tutti, compresa la gente di sopra, ad avvicinarsi. Il locale comincia a
riempirsi di gente ancora mai vista mentre Lerka · Jo canta
una ballata in ucraino che non sfigurerebbe a un saggio di danza delle medie.
Ha una bella voce ma tutto sembra troppo fuori luogo. Forse proprio per questo
rimango sconvolto quando, al secondo pezzo, la cantante diventa un’altra
persona e comincia a urlare su strumentali in cui il culto dei Rage Against the
Machine flirta con una rave music di stampo slavo, dimenandosi da ogni parte.
Devo ammettere che faccio un po’ di fatica a godermi i concerti in cui potrebbe
esserci un gruppo e c’è solo una base. Di recente davanti ai velocissimi Unlogistic,
veterani dell’hardcore-punk francese, mi sono annoiato proprio per questa
ragione, la batteria sostituita da strumentali messe dal computer. Ma Lerka ·
Jo ha un non so che di coinvolgente, una presenza scenica che mette in ombra la
semplicità della performance.
La dichiarazione di intenti Je Suis Lerka · Jo ci porta subito “Chez
Lerka · Jo”, in un universo dove il multilinguismo e l’entusiasmo in purezza la
fanno da padrona. La cantante ha accenti pronunciati e simpatici in tutte le
lingue che parla (francese, inglese, ucraino), e non ha nessun timore di parlare lingue che non conosce.
“Donde está mi hermana?”, chiede a ogni pausa in uno spagnolo scadente che
mette di buonumore. Sul palco l’improbabile diventa normale e Lerka · Jo è
capace di svariare da un pop-punk dal sapore Est-europeo come O 4 E N al
rap motivazionale in cassa dritta di Cringe Boom, disorientando il
pubblico che a volte è combattuto tra l’headbanging e il braccio alzato a
scandire il ritmo del beat come veri b-boys. Come una versione rap metal dei
già citati Stereo Total, la cantante incita il pubblico a celebrare un libertinismo
linguistico tanto violento quanto tenero e sull’“hello, privet, bonjour, ciao
ciao” di Hitchhiking in Galaxy si apre un moshpit scherzoso che dà
finalmente un senso a un’aria condizionata fin lì troppo presente. Alla fine
del concerto le “hermanas” di Lerka · Jo appaiono davvero, un paio di ragazze
con addosso il merch ufficiale che fanno casino sul palco. Ma ormai siamo tutti
un po’ sorelle, e in una serata dove le divisioni nazionali si annunciavano
piuttosto marcate un opening act divertente, ispirante e ben selezionato è
riuscito ad appiattirle. Nell’entusiasmo generale, il concerto finisce con un
brindisi collettivo: Champagne!
Il tempo di riprendermi da un principio di sudata e subito attorno a me vedo persone che parlano in inglese anche se chiaramente non è la loro lingua madre. Per la prima volta constato che sì, ci sono tantissimi spagnoli, ma le piccole tribù di stranieri e locali si mescolano piacevolmente. Invece di sentirmi un infiltrato o persino un impostore, adesso mi sento un camaleonte capace di cambiare colore con tutte le persone in sala. Ringrazio Lerka · Jo per farmi sentire così, e del resto questa sensazione pare necessaria in un tale contesto di promiscuità: sono sotto al palco, i La Elite stanno per cominciare il loro concerto e la densità umana è già molto alta. L’atmosfera è amichevole ed elettrica.
***
La Elite, il party spagnolo più caldo del momento
(dress code: inelegante)
Quando il duo catalano monta sul palco, vedo per la prima volta quanto sono
buffi e complementari i La Elite: il produttore/smaneggiatore/tastierista Nil
Roig (AKA Yung Prado) è altissimo e ha uno stile alternativo sobrio e ben
curato; il cantante David Burgués, al contrario, è bassino e ha l’aspetto di un
troublemaker nato, con i suoi pantaloncini Adidas e gli occhiali da sole da
black-bloc: il classico personaggio, rigorosamente pelato, che capita di
incrociare in tutti gli squat d’Europa e che appare tanto simpatico quanto poco
raccomandabile. “Buonasera Roma” esordiscono tra il clamore del pubblico questi
Stanlio e Ollio del punk contemporaneo, coppia dirompente e irriverente già
solo alla vista. “Una canzone per questa città… Una città di merda!” (in
italiano). Tutta la sala ha già capito: dalle prime note del riff di
sintetizzatore di Nuit Folle il sottosuolo de L’International diventa
una festa selvaggia.
L’opener di Nuevo Punk per me è una delle migliori canzone su Parigi della
storia, in competizione stretta giusto con un famoso standard jazz (nella
versione di Count Basie) e una hit di Kanye e Jay-Z che non si può pronunciare
per intero. Cantarla dentro al microfono insieme al suo autore (e una massa
incontabile di persone esagitate quanto me) alla prima data dei La Elite a Parigi
resterà per me un momento storico. I torpori di stamattina scompaiono
definitivamente e, come al concerto dei Marcel, entro in una dimensione
parallela, questa volta non tanto demoniaca quanto antisociale, nel senso più simpatico
della parola. Le canzoni dei La Elite sono tutte trainate da questo fil rouge
di volgarità e violenza gratuita (palesemente umoristica). Per esempio, subito
dopo aver “cagado en el Louvre” con la prima traccia, parte un’altra hit:
l’inno anti-lavoro Mata a tu Jefe, che con le sue schitarrate
rock’n’roll mi fa sgolare e tira fuori da me il teppista che alberga nel mio
subconscio (“me gusta beber, y pelear!”).
Pezzo dopo pezzo, nella bolgia che è diventato il pit de L’International,
mi ritrovo come ieri sorpreso della qualità e l’originalità eccezionali della
band di stasera: coi suoi sintetizzatori festaioli, Yung Prado è capace di
trasformare un pogo da hardcore punk in una discoteca per matti, e David
Burgués con la sua presenza e la sua voce sporca rende viziose canzoni che sono
in realtà estremamente orecchiabili. La formula del punk che diventa dance e della dance che diventa punk è riuscitissima e si divertono
tutti, compresi i non ispanofoni. Canzoni sfrenate come la velocissima A 180 con mi Monopatín, cantata in botta e risposta con il pubblico, oppure il
singolone da club Bailando, canzone sul potere dell’amicizia sublimata da
un wall of death che sancisce l’armonia tra i popoli, sono davvero
irresistibili e universali, e le cantano tutti. Ci sono, in compenso, pezzi dai
testi più profondi e in cui la comunità spagnola (me compreso) si identifica più
personalmente. È con un sentimento di appartenenza che non sospettavo di avere
in fondo al cuore che mi unisco ai sing-along di Contento de ser Feo o
di Pintando en un Cd, forse la mia preferita (anche quella di Burgués!),
bellissime canzoni “post-break-up” macchiate di oi!. Sulla seconda mi faccio
anche notare con uno crowd surfing fallimentare che risulterà in una settimana
di dolore alla schiena. Malgrado le barriere linguistiche, l’inclusività è di
casa e anche il ruvido emocore naif di Marlburro, pieno di figure
evocative sulla disillusione della fine dell’amore, sarà un’occasione per fare
festa tutti insieme sdraiandoci per terra alle strofe e saltando fino al
(bassissimo) soffitto durante il ritornello.
Il tempo passa in fretta tra canzoni brevi e potenti che si susseguono con
una costanza eccezionale e qualche perla di stage banter caciarone che ci fa
dimenticare anche i 18000 gradi Fahrenheit in sala. Viene molto apprezzato il “cooling
break” al luppolo ma è l’imitazione del vecchio patriottico catarroso (“que
viva España, coño!”) che piega definitivamente il pubblico dal ridere, e mi
compiacerò anche di avere in saccoccia un inside joke nazionale che riscuote un
certo successo: “pim pam toma lacasitos” (chi sa sa)! Una sequela finale di
pezzi che non conosco, risalenti ai primi EP del gruppo e che riscuotono un gran successo nella giovane fandom spagnola, continuano a farci
pogare come dannati fino all’inevitabile fine del concerto. Siamo tutti madidi
e nell’aria c’è un’allegria mai vista. I La Elite sanno mettere su un house
party come non se ne sono mai visti, e creare con mezzi quasi di fortuna
(quanta paura mi faceva quel tavolino traballante con la drum-machine sopra…)
un suono synth-punk efficacissimo proprio perché rudimentale e a bassa fedeltà.
Salgo al piano di sopra ed è straordinariamente presto per tutti per tornare a casa
(devono essere appena le dieci e un quarto) ma restano quasi tutti a bere una o
più birre. La gente ha la lingua decisamente sciolta e qualche anima gentile mi
chiede se sto bene dopo la tronata devastante di prima. Al bancone del bar,
estremamente affollato, gruppi di connazionali (ormai la spagnolità è entrata
in circolo) si spillano la birra di nascosto e chiedono consigli sulle
discoteche in cui andare. All’uscita becco Yung Prado, che ride quando gli
racconto dei miei amici italiani che all’inizio credevano che la band fosse
davvero di El Paso, Texas come indicato su Bandcamp (fui io a convincerli
che sono chiaramente spagnolissimi). È molto gentile e si sincera che il mio amico Matteo,
che al loro concerto a Barcellona si è rotto una gamba, stia bene, ma l’aneddoto
lo fa anche molto ridere. Incontro anche un paio di vecchie conoscenze di questo blog (per quanto
Stereo Totale abbia un mese di vita), più o meno legate da un filo sentimentale
a membri di Persona Grata, il collettivo che ha organizzato questa serata
memorabile.
(Un piccolo inciso: un ringraziamento speciale a Persona Grata per averci
portato un gruppo che secondo me otterrà presto un piccolo status di culto,
nonché una one-man-band spalla perfetta per rompere il ghiaccio).
Finisce che a mezzanotte sono titubante se restare a vedere i DJ
drum’n’bass che stanno per attaccare al piano di sotto, e persino i DJ stessi e
il personale del locale mi stanno esortando a non andarmene, ma di pessime ottime
idee ne ho avute fin troppe in questi ultimi due giorni e domani devo andare a
parlare di pale eoliche in consiglio comunale. Prima di tornare a casa saluto
un sacco di persone spagnole e non con cui ho socializzato in queste ultime due orette, parlandogli come fossero amici di vecchia data. In quanto trapiantato
all’estero decisamente integrato non posso dire di avere contatti con delle
comunità straniere, né italiane né spagnole. Questa sera però si è creata una specie
di comunità istantanea, una one-night stand di simpatia che trascende le
connessioni nazionali, passaporti e altre cazzate. Dev’essere stata la magia
del garage punk.
***
Conclusione
Il venerdì mattina, sorprendentemente, mi sveglio fresco come una rosa. Rido
pensando che forse una festicciola mediterranea con “los colegas” domanda meno
energie fisiche che un “charivari” forsennato di foggia nordeuropea. Questa
riflessione dovrebbe invitarmi a sfruttare l’occasione del bilancio finale
sulla mia due giorni di concerti per enumerare stereotipi divertenti su tizio
che è così perché viene da lì e caio che è cosà perché viene da là. Per quanto
l’esercizio suoni stuzzicante, ci rinuncio abbastanza in fretta. Una due giorni
così non si presta a paragoni, ma a una semplice constatazione, che mi rende
felice e ottimista per lo stato attuale della musica.
È evidente che in Europa in questo momento c’è un esplosione di musica che
affonda nelle radici nel punk ma a cui si può mettere anche l’etichetta
“garage”, che sia per definirne la sonorità, il modus operandi o ancora lo
stile estetico. Ho parlato di “garage punk” varie volte in questo mio resoconto
in due parti, e sono cosciente che è un genere che non esiste veramente, per
alcuni addirittura un termine “ombrello” che può voler dire tutto e niente. Per
me, invece, è una descrizione perfetta per quell’essenza che può felicemente associare
gruppi diversissimi quanto Marcel o La Elite. Ultimamente stiamo assistendo a
una riproduzione smisurata di gruppi punk (in senso lato) e magari è un buon
segno, ma nella grande selezione a disposizione i pochi che davvero mi
colpiscono hanno spesso e volentieri questa componente garage: il coraggio
di fondare il sound su tale strumento o tale stile di produzione poco ortodosso o poco raffinato, o
ancora di osare quella dissonanza abrasiva o quella contaminazione improbabile
a cui un gruppo “revival” più tradizionale non avrebbe mai pensato, sono questi
gli slanci passionali che gettano per me le fondamenta del rock del futuro e
l’embrione di un nuovo filone europeo.
Se quest’ondata europea, poi, ha le sue specificità regionali, non si può che
gioirne: ho già parlato della ricchezza culturale del nostro continente e
vederla riflessa in musica mi fa sentire ancora più fiero di chi sono, da dove
vengo e dove vado. Se ne può parlare stereotipando e a piccole dosi è
divertente, ma l’essenziale per me, più che trovare le differenze, è trovare i
punti in comune tra i gruppi che mandano avanti il rumore che amo e che voglio
sostenere.
Tornerò presto a parlare di “nuovo garage punk europeo”. Intanto, mi tengo la fatica di due notti con poco sonno, una botta sul lombo inferiore sinistro che fa ancora un po’ male, qualche chilo perso per denutrizione e la pancia che ciononostante è ancora più rotonda di prima a causa dell’eccesso di birra. Soprattutto, mi tengo un sorriso di soddisfazione per aver acchittato una doppia serata a tema di quelle che capitano una volta nella vita: un vero e proprio giubileo della mia personale musica del domani.
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