domenica 24 dicembre 2023

Natale con i tuoi - Al cenone indie del Motel con Biche, Alva Starr e Speed 3

Biche live @Petit Bain (Le Noël du Motel), Parigi, 18/12/2024

Nel pieno della mestizia invernale di cui ho fin troppo parlato nei miei ultimi live report (dovuta a un clima schifoso e due o tre cazzate di ragazze, insomma niente di grave), a un certo punto arrivano le feste. Le feste, questa tradizione imposta dall'alto e che deve per forza essere fonte di gioia e speranza: arrivato a una certa età, e dopo che la mia polemicità tipicamente fiorentina si è trasformata in un vago cinismo, questa storia delle feste ha cominciato un po' a starmi sulle balle. Nei miei momenti di massimo distacco dalla realtà può capitarmi di pensare le stesse cose di istituzioni ancora più importanti, tipo la famiglia, questo gruppo di persone che fanno parte della tua vita per puro caso e che per norma sociale sono destinati a essere il tuo fulcro di unità, affetto e valori. A volte davvero mi verrebbe da dire: ma chi l'ha deciso? Poi succede che per un imprevisto devo volare con urgenza in Spagna e ritrovarmi accerchiato da zie e cugini che non vedevo da anni e che non sento quasi mai. E lì mi rendo conto che questi miei punti di vista intellettuali, atarattici e nichilisti non hanno nessun valore: al di là di tutti i costrutti sociali a cui uno possa pensare, la famiglia resta la cosa più importante. Non c'è tanto di più da spiegare.

Torno in Francia dalla mia trasferta madrilena d'emergenza e mi dico che sì, forse posso dare una chance anche a questo fantomatico calore delle feste. Per fortuna gli amici (l'altra cosa più importante) hanno anticipato questo mio desiderio, convincendomi giorni prima a prendere i biglietti per andare al concerto di Biche, un gruppo di indie pop francese contemporaneo (interpretate il “contemporaneo” come volete, io lo applico a sproposito ogni volta che intravedo rullanti ovattati e con loro l’inevitabile legato di Mac DeMarco). Do mezzo ascolto ai Biche e non disdegno affatto il loro sound fresco, elegante e delicatamente psichedelico. Vista anche la location (l’unico e inimitabile Petit Bain), gli opener decisamente promettenti e soprattutto il fatto che con questi amici abbiamo il progetto di strimpellare insieme proprio dell’indie pop francese, accetto l’invito con piacere e senza pensarci troppo.

Il lunedì del concerto arriva, dopo un week-end privo di qualsivoglia emozione natalizia malgrado la mia buona volontà: le luci e le decorazioni per strada e nei negozi non mi comunicano niente, la proliferazione di tronchetti di natale nelle pasticcerie un po’ mi stomaca, e pensare a che regali fare e a chi farli resta una discreta rottura di coglioni. In questo spirito da Grinch, guardo i biglietti del Dice e noto che la serata si chiama “Le Noël du Motel”. Oimè, una serata di natale. Speriamo bene.

***

Arrivo al mitico molo del Petit Bain per primo tra i miei compari. In realtà sono arrivato prestissimo, perché sì: arrivare all’apertura è un altro dei miei lati intransigenti e un po’ scorbutici, da Ebenezer Scrooge. La serata è gelida e decido di entrare. La ragazza della biglietteria che, poverina, deve stare a lavorare all’aperto per tutta la sera fa comunque grandi sorrisi a tutti mentre distribuisce biglietti della tombola in allegato al timbro sul polso. Entro in cambusa per ammazzare il tempo ma ancora non c’è praticamente nessuno. Le poche persone in sala, però, sono estremamente sorridenti e sembrano tutte conoscersi. Ogni nuovo avventore saluta i presenti con un abbraccio, e a turno la gente viene a scambiare due chiacchiere con il banchino del merch. Mi sento quasi a disagio, come un imbucato a un pranzo tra parenti di una famiglia di sconosciuti.

Ovviamente c’è una spiegazione per questa sensazione: il Motel che organizza questa festa di natale è un famoso bar, l’unico che abbia sentito rivendicarsi la parola “indie” nei suoi statuti fondanti: una nicchia mitica di una scena parigina alla quale non appartengo. La gente che suppongo affiliata al Motel, in sala o sul ponte, è molto affabile verso il suo circolo, ma mi sento un po’ burbero e la cosa non mi scalda particolarmente. In compenso scovo un dettaglio divertente nella descrizione dell’evento, che leggo mentre aspetto la musica seduto nel gradino degli uomini soli (piano piano ci siamo accumulati): tutti e tre i gruppi sono stati, in passato, baristi al Motel. E in effetti, appena i cinque Speed 3 salgono sul palco, cominciano subito i salutini e gli inside joke con alcuni elementi del pubblico. Comincio a intenerirmi: quando vado a vedere i gruppi dei miei amici fiorentini (fanno o free jazz o ska-punk) il mood è più o meno il medesimo.

La formazione che apre le danze è quantomeno bizzarra: cantante, bassista e batterista sono dei tipici ragazzotti un po’ hipster da gruppo indie rock (si segnala l’avvistamento di una maglietta degli Stereolab sul batteria); il chitarra solista, arruffato come pochi, sembra un metallaro degli anni che furono; il tastierista, invece, è il tipico personaggio mattacchione da bar scene, un po’ più anziano degli altri e dalla faccia burlona e gentile. Contro ogni aspettativa, la serata si apre all’insegna del rumore e della sregolatezza: l’indie rock aggressivo di Speed 3, che vuole bene tanto al britpop quanto a una New York d’antan (leggasi: quel folle viaggio che ci porta dalla Factory fino a Casablancas), è una gioia per le orecchie di chi, come me, ama il rock che flirta col noise ancora più del noise rock stesso. Sopra a un sostrato ritmico precisissimo e pulito, una voce strepitante e saturatissima sconquassa gli avventori, e il gruppo tira fuori dal cappello mille trucchetti, tra assoli graffianti e parti di tastiera sempre inaspettate. La band è affiatata e matura, macina musica e sembra tutto tranne che un gruppo che ha un solo singolo su Bandcamp all’attivo. Ma oltre alle tastere-carillon di The Art of Saying No si cela un piccolo universo di trovate divertenti: scream laceranti che rompono le atmosfere mogie di canzoni sulla solitudine, pianoforti boogie che esaltano i crescendi di arringhe politiche contro liberalismo e poteri forti, accelerazioni e sfuriate che ti schiaffeggiano a tradimento mentre ti concedi di gongolare ammaliato da sezioni pop quasi raffinate.

Intrattenuto dal fiume in piena di questi simpatici Speed 3, dimentico persino le mie vaghe sensazioni di isolamento. Intanto gli amici arrivano e la sala si riempie con grande naturalezza. Il gran finale, marcato da una canzone-omaggio al Das Kapital, è l’occasione di ritornare a scherzare tutti insieme, sfottendo l’amica americana (di background repubblicano) citandole i rischi di epurazione che corre con questa vita parigina in linea tangente col marxismo. Nel calore di un Petit Bain finalmente pieno di gente, verosimilmente non tutte del microcosmo Motel, comincio ad avere le prime visioni del Fantasma del Natale Presente e ad assaporare l’allegria del momento con più leggerezza.

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Non passa neanche un quarto d’ora che il palco si rabbuia di nuovo per lasciare spazio ad Alva Starr, l’act che forse mi incuriosisce di più stasera. Anche loro ai loro inizi, si suppone: i singoli su Bandcamp stavolta sono tre, ma due sono “rough demo” e uno è “live” (ciascuno, peraltro, si può acquistare per la modica cifra di mille euro, cosa che trovo spassosissima). Ascoltandoli in streaming, visti i miei mezzi limitati, avevo apprezzato molto il loro indie pop che, seppur soffuso, è attento a non cadere nella rischiosissima trappola di un suono “bedroom” inflazionato e banale. Chitarre trillanti, synth soffici, un groove dimesso ma accogliente e armonie vocali leggiadre, né troppo liriche né al contrario troppo “blasées”, fanno di questo quartetto parigino una piccola perla che, se fossi un talent scout, sorveglierei a dovere. E siccome fingermene uno è il mio passatempo preferito, mi piazzo in prima fila.

Il concerto di Alva Starr è delicato come una mattinata d’inverno dal cielo blu (oggetto rarissimo da queste parti). Impossibile non sorridere, chiudere gli occhi e ondeggiare la testa, per esempio, con le melodie dolci di una canzone come Airlane, talmente aggraziata da far perdonare, o addirittura apprezzare, anche la fortissima somiglianza armonica con Boys Don’t Cry; oppure ancora la micro-hit Go to Congo, che con le sue vocals esotiche e le sue chitarrine un po’ folk un po’ indie anni ’00 (mi si segnala un aroma di Vampire Weekend), ci fa viaggiare tra le Afriche e le Americhe con buffe storie di amori criptici; e ovviamente non può mancare la canzone di natale: I Want a U-boot for Christmas finalmente riaccende dentro al mio cuore un po’ di spirito natalizio. Anche a questo giro, le canzoni nuove sono tante, e tenere quanto lo stage banter un po’ timido del cantante. Il duetto finale e l’abbraccio con Lonny, cantante più affermata e anche DJ più tardi nella serata, è un attimo di grande e sincera dolcezza, in un alternarsi di voce femminile e maschile che ricorda persino i momenti più affettuosi dei Moldy Peaches.

Più che per la famosa “freschezza” con cui vengono incensati solitamente i nuovi gruppi indie, Alva Starr meritano un plauso per l’esatto opposto: il tepore. Nella sala del Petit Bain, a fine concerto, sembra quasi di sentire un odore di legna nel caminetto e di pan di ramerino. Poi una voce annuncia che al piano di sopra c’è la tombola e a quel punto saliamo nella sala del ristorante tutti emozionati: siamo quasi tornati bambini.

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I lotti, uno ad uno, vengono annunciati. C'è un gran vociare tra i tavoli e le sedie della “cantine” (“mensa”), mentre gli astanti, parecchio pigiati, vengono illuminati dalle luci calde della sala. La luna, fuori dagli oblò, si riflette sulla Senna. Mentre i baristi spillano birra, una bambina estrae i foglietti dalla boccia di vetro e una ragazza urla i numeri, lamentandosi di doverli ripetere più volte. Non mancano le tradizionali battutacce, tipo le descrizioni altisonanti dei premi meno ghiotti, o i sempreverdi “’Azzo, quasi!”, “Ambo!”, “È mio, è mio! No, scherzo”. Ci si sente davvero come a una tombola di famiglia.

E la dea bendata ci sorride. Proprio mentre vengono tessute le lodi di uno straordinario, eccezionale cappellino invernale di marca “Le Motel”, con tanto di logo (un tricheco), mi permetto di dire: “Boh, io non la porto mai ‘sta roba” e il mio 903 viene miracolosamente estratto. Tutti i compari mi fanno letteralmente le feste, perché tra noi sono il primo vincitore della sera. Festa doppia, perciò, quando i fidanzatini del gruppo si portano a casa il premio più ambito, un ingresso per due al prossimo concerto dei Beach Fossils. Siamo i fortunati della serata, scherzosamente invidiati dai partecipanti della tombola che incrociamo in un angolo fumatori che ha la stessa atmosfera del ritrovo delle zie in giardino con le loro sigarette prima del dessert, la sera del 24. È la magia del natale.

“Lo senti? Stanno iniziando i Biche!”. Buttiamo i mozziconi nel posacenere e ci dirigiamo verso l’interno, con la stessa fretta del parente a cui è stato chiesto di andare a dare una mano per portare in tavola le fette di panettone. Nella sala concerti, il pubblico è in un silenzio un po’ religioso, un po’ divertito, un po’ commosso, come se stesse ascoltando il coro dei bambini che canta Tu Scendi Dalle Stelle. In realtà, sul palco, illuminato di un colore azzurro come quello dei fiocchi di neve, i cinque ragazzi di Biche stanno suonando la bellissima Kepler, Kepler, una delle canzoni più riuscite del (lui sì) freschissimo LP del 2019 La Nuit des Perséides. A cavallo tra generazioni di pop-rock di foggia inglese, ma con un piglio melodico francesissimo, questi giovani talentuosi sono riusciti a plasmare un sound sognante, appassionato e quasi sensuale. Ponte di congiunzione dei nostri giorni tra Beatles (vedasi le chitarre alla Taxman), i Blur di Parklife e le psichedelie gentili e innamorate degli anni ’60 degli Stereolab, la miscela Biche sa essere originale e al contempo referenzialista, ma senza pesantezza e in maniera giocosa e sbarazzina (in effetti, il cambio maglietta del cantante che, sorpresa, era anche batterista degli Speed 3, spiega tutto: vedasi foto).

Che i Biche siano un gruppo sopra la media nel loro genere è chiaro fin da subito. Ma c’è una cosa ancora più evidente: stasera i Biche stanno suonando esclusivamente per amici e parenti. Lungi da loro, perciò, l’idea anche rispettabile di fare uno showcase esaustivo del repertorio o di raccontare qualsivoglia aneddoto informativo su album, singoli, collaborazioni e altri successi. Non ci sono discografici o personaggi influenti all’ascolto, e anche se ci fossero stasera l’unica cosa che conta è passare un buon momento con i propri cari. Gli outsider come me, pur divertendosi e godendosi la musica, non capiscono nemmeno granché di quel che succede: ad esempio, una loro amica che non sappiamo chi sia (nota a posteriori: è la cantante di En Attendant Ana) monta sul palco e canta la maggior parte delle canzoni col gruppo, che del resto funziona benissimo a due voci; il quintetto, inoltre, ci delizia con tante novità e pezzi mai sentiti. Ovviamente, c’è spazio per diversi fan-favorites: penso alla dolce Le Laboratoire, così ondeggiante che anche il Petit Bain sembra per un attimo muoversi sulle onde: un finto walzer dai retrogusti krautrock che tutti sogneremmo di ballare con la nostra ragazza dei sogni in una sala del liscio creata apposta per nerd come noi. Nonostante la solidità impressionante della band sulle canzoni già rodate, però, sono proprio i pezzi inediti a brillare. “Non lo so se vi piace, quando ai concerti partono le canzoni nuove…”, dice il fascinoso Alexis Fugain, leader della band. Stasera piace a tutti: tra le varie novità, apprezzo particolarmente una cannonata synth-pop a 200 bpm (complimenti al tastierista per la resistenza delle dita) e la gagliardissima e ritmata L’Engranage, che non necessita di più cowbell ma che aspettiamo in gloria in un prossimo disco.

Nella spensieratezza di questo cenone musicale di natale coesistono sia il divertimento naïf dell’infanzia che la gratitudine, più adulta, del sentirsi in famiglia. Il set di Biche passa in un baleno e nei volti del pubblico si indovina solo ed esclusivamente una piacevole soddisfazione. C’è chi come me, ad occhi socchiusi, si lascia ipnotizzare da canzoni colorate come le lucine che lampeggiano sull’albero; c’è chi sorride, chi ride; c’è chi canta, chi balla, chi ruzza e chi se ne sta fermo, anche a braccia conserte, a godersi un gruppo che potrebbe (meritatamente) essere destinato a grandi cose, e che, malgrado un’aura di sofisticatezza che può ingannare l’occhio inesperto, ci ha mostrato di essere capace di trasmettere un’intimità senza artifici. I ringraziamenti finali sono sinceri come quelli che si possano fare a chi ti ha offerto un bel regalo, e suonano proprio diversi dalle classica formalità dell’etichetta da palcoscenico. Di rimando, pure dal pubblico si sente montare più di un “merci”.

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Come ad ogni cenone che si rispetti, ci beviamo un ultimo digestivo che forse è di troppo, ma che avrà il merito di farci dormire serenamente. Ci facciamo due risate con la gente del pubblico e poi, presi da un inizio di sonnolenza dopo l’abbuffata indie di stasera, decidiamo di tornarcene a casa. Prima di andare alla fermata della metro ci fermiamo simbolicamente sul lungosenna come farebbero gli ospiti sul pianerottolo e salutiamo questo nuovo parente, il Motel, a cui promettiamo di rendere visita appena potremo. Da dietro, il Petit Bain ci fa anche lui ciao ciao con la mano, in modo meno solenne perché tanto ci vediamo già spesso.

Tra pochi giorni parto per Firenze e gli amici con cui ero stasera non li rivedrò per qualche settimana. Ci auguriamo buone feste e, per una volta, pronuncio queste frasi universali, trite e ritrite, credendoci davvero. Buon natale, buon anno, state bene.

A volte mi sembra tutto forzato e stupido. A volte vorrei che le tradizioni non esistessero, e che certi giorni, certi periodi, si potessero vivere senza caricarli di significati che mi lasciano indifferente. Poi, un po’ vittima degli eventi, un po’ spinto da una forza invisibile, ti ritrovi a passare dei momenti speciali come quelli di stasera e ti rendi conto che a volte certi principii astratti sono più forti di te. A capodanno non so cosa faccio, ma so che lo passerò con chi voglio. Il natale del Motel invece, come da proverbio, l’ho passato con i miei.

lunedì 18 dicembre 2023

Stereo Totale's Quarterly Business Review - 4 Mixtape per Dicembre 2023

Il natale è ormai alle porte, la fine dell’anno quasi la si tocca con mano, e dicembre è passato in fretta. Un po’ mi sono calmato coi concerti, e i pochi che ho visto non mi hanno ispirato pagine e pagine dei miei soliti muri di testo. Detto ciò, su questo blog non ce ne siamo mica stati con le mani in mano, anzi. Negli uffici della Stereo Totale SRL (azienda che è multinazionale fin dalla sua nascita) c’è ancora più fermento del solito: sono passati ormai quattro mesi dal lancio del brand e tra continui meeting, qualche joint-venture e la ricerca continua di nuovi deal, la timetable è stata parecchio serrata, ma adesso una domanda sorge spontanea: come sta andando il business? È il momento di lasciare un attimo da parte le task in corso, concentrarci su una vision un po’ più on the long run, in linea con la nostra mission e quella dei nostri partners. Tutto chiaro?

Quattro mesi fanno un quadrimestre, e nello spirito corporate sappiamo bene che non si può pronunciare la parola “quadrimestre” senza rimandare a un’impellenza stagionale inevitabile: la Quarterly Business Review, per gli amici QBR. Vi do perciò il benvenuto in questa nuova rubrica, un po’ diversa dai classici live report o altri articoloni che vi capita di leggere qua. Ovviamente, è una rubrica che cadrà ogni quattro mesi e che, ve lo prometto, non conterrà mai più nessun altro fastidioso gergo aziendale.

La Stereo Totale Quarterly Business Review, in sostanza, è quel momento in cui, dopo tante (troppe) parole riversate a raccontare concerti, dischi e canzoni, finalmente posso posare la penna sul calamaio e far parlare la musica al mio posto. Da qualche tempo ho sviluppato un nuovo svago, che è quello di creare dei semplicissimi mix su Audacity, per avere dei file pieni di musica senza pause da condividere un po’ con chi capita. Un bel mix, come un diamante, è per sempre. Un bel mix può servire a tantissime cose, e oggi servirà soprattutto a fare un piccolo bilancio delle attività del blog nell’ultimo quadrimestre. Spoiler: sono stati quattro mesi stupendi, pieni di tanta bella musica, e infatti i mix sono riuscitissimi e ci sono solo pezzoni. I miei lettori sono sempre fantastici, gli sono molto riconoscente e per questo approfitterò delle QBR per far loro un piccolo ma meritatissimo regalo.

Senza troppi giri di parole, perciò, vi lascio sotto l’albero di natale non uno, non due, non tre ma quattro mix. I due mix “QBR” contengono un po’ tutta la musica di cui si è parlato su Stereo Totale fra settembre, ottobre, novembre e dicembre. Ci sono varie ragioni per cui i mix sono due: innanzitutto, per me il mix perfetto dura 45 minuti all’incirca, e un solo mix con tutti gli artisti citati sarebbe durato molto di più; inoltre, negli articoli del quadrimestre abbiamo trattato di musica molto diversa, a volte estremamente rumorosa e a volte invece dolce e delicata, che ho voluto dividere per coerenza. State perciò attenti a cliccare bene sul link giusto: vi sconsiglio di mettere “The Loud Stuff” in sottofondo al cenone coi parenti, così come sconsiglio di pomparvi nelle cuffie “The Calm Stuff” quando siete sonnolenti a lavoro (magari distrutti dal concerto della sera prima) e dovete reggervi in piedi per l’ultima ora del turno.

Siccome sembra brutto regalare solo due mix su quattro mesi, mi impegno a trasmettervi, in questa e nelle future Quarterly Business Review, anche due altri mix “bonus”. Si tratta di miscellanee a tema che ho prodotto per diletto al di fuori dell’attività blogghistica. A questo giro ho deciso di riciclarne due che ho fatto in estate: “What is Garage Rock” è un compendio del meglio di ciò che, nella mia visione, si può definire garage rock, ma il suo titolo si può interpretare anche come una domanda, filosofica ma del tutto legittima, su cosa davvero significhi quest’etichetta così labile e astratta; “Synthetic Laughs, Synthetic Tears”, invece, è una raccolta di canzoni synth-pop tutte accomunate dal fatto di essere al contempo allegre e tristi, che ho riunito quasi con la voglia di provare che questa melancolica ambivalenza è l’essenza stessa del genere. Potete ascoltare in streaming o scaricare questi quattro mix sul link Mega qui sotto. 

Mega  Stereo Totale QBR - Dicembre 2023

Tengo a ribadire che, non essendo io un professionista, tutti i quattro mix e in particolare i “bonus” sono di livello amatoriale e pieni di difettucci, tipo che a volte i volumi tra una canzone e l’altra non sono equilibratissimi. Spero comunque che vi piacciano e che tutta questa bella musica possa diffondersi il più possibile. Non lascio volontariamente nessuna tracklist per non rovinare la sorpresa. Inoltre, se davvero vorrete l’ordine e il nome delle canzoni (e del sample vocale che annuncia sempre la fine del mix, mia piccola idiosincrasia) potrete chiedermeli nei commenti o sul mio Instagram (dai che ce l’avete tutti) e magari così potremo anche chiacchierare.

Buon ascolto!

mercoledì 6 dicembre 2023

Trovare la pace dove meno te l’aspetti - Il concerto di consacrazione dei Grand Blanc, stella brillante dell’ambient-pop

Grand Blanc live @La Gaîté Lyrique, Parigi, 30/11/2023
Introduzione, o il primo inserto di cronaca rosa di Stereo Totale

Le tende davanti alla finestra restano aperte per tutta la notte. Il sole si alza tardi, ma ultimamente mi sveglio stanco, molto prima che sorga, molto prima della sveglia. Non ho ben compreso questo fenomeno recente, ma ho una teoria: la vita va troppo in fretta e il mio corpo per compensare ha deciso, per conto suo, di regalarmi dei momenti di quiete mattutina. In francese si direbbe proprio un “cadeau empoisonné”, un regalo avvelenato. Nella mia stanza, dove la luce è quella di un crepuscolo al contrario, mi alzo prima del previsto con rassegnazione.

I grattacieli della Défense, nel passaggio della linea 13 sopra alla Senna, sono coperti di bruma. La gente si stringe il cappotto attorno al collo all’uscita della metropolitana, per proteggersi dalla ventata gelida dello sbocco d’aria. Nell’aria piovigginosa, in mezzo al viavai di automobili, nessuno dei volti che incrocio accenna un sorriso. La pioggia ticchetta sul soffitto a vetri dell’ufficio, alzo la testa dalla scrivania. Il cielo, dietro alle luci fredde dell’open air, è grigio e scuro. Butto giù un sorso del caffè amaro nella tazza, che ormai è freddo. Il telefono vibra e un messaggio su Whatsapp alleggerisce la situazione: “so pumped for tonight!!”. Finalmente qualcosa di un po’ rinfrancante: in questo periodo dell’anno dove le soddisfazioni sono brevi e passeggere e le delusioni sono un po’ più dolorose del normale, è una benedizione avere un’amica come Lauren l’Americana che mi spalleggia. Stasera però sono io a spalleggiarla. “meetup 7PM”, le rispondo.

Da un mese a questa parte Lauren mi chiede spessissimo se voglio andare a vedere i Grand Blanc. Non ho idea di chi siano e mi sento molto occupato di questi tempi, perciò faccio l’uomo di mondo e le do risposte equivoche tipo “vediamo dai”, “eh ci penso”, “boh dai ti dico”. Poi una settimanina prima del concerto mi chiede di accompagnarla con un tono di voce molto diverso da quello di chi ti propone di venire a sentire un gruppo che gli piace. Il suo “Please come with me to the concert” suona veramente come una richiesta di sostegno amicale, ed è troppo difficile da rifiutare. Per un concerto, si può fare. Ma perché la mia presenza è richiesta stasera? Non lo posso spiegare se non con una piccola licenza stilistica inaspettata, ovvero: il mio primo inserto di cronaca rosa. Prima di parlare di musica e di tutto quello che ci ruota attorno mi concederò perciò un paio di pettegolezzi.

Se dovessi descrivere Lauren in tre parole direi subito: piena di sorprese. I miei lettori più assidui l’hanno già incontrata: la californiana innamorata della musica francese degli anni ’70 che però si pompa i Deerhoof. Ma Lauren ha sempre tante soprese in serbo, di cui alcune giusto sbalorditive (non le chiedete chi ha votato alle elezioni, mi raccomando), altre di cui invece col tempo ci si abitua, tipo quando tira fuori dal nulla frasi come: “Ho incrociato l’ex-ministro della cultura, abbiamo fissato un appuntamento per parlare di musica”. Tra questi aneddoti talmente sopra le righe che ormai li diamo per scontati c'è una recente storia di passione con una personalità musicale francese decisamente inserita nei piani alti del musicbiz che, tra le tante, ha connessioni con il gruppo che suona stasera. 

Avrei risparmiato questi dettagli ai lettori ma so che la mia amica, sotto sotto, ama che si faccia un po di sano gossip. Inoltre, questa piccola parentesi illustra bene che al concerto dei Grand Blanc ci sono capitato più per caso che per un interesse musicale profondo. Ovviamente Lauren stasera un po’ vuole e un po’ non vuole rivedere il ragazzo in questione. “It’s complicated”, e i veri amici si vedono proprio quando le cose si fanno complicate.

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Amori nervosi nel Palazzo dell’Ambient

Qualche giorno prima dello show mi metto ad esplorare la musica dei Grand Blanc. Sono un ottimo amico, per carità, ma non al punto di venire a un concerto di musica che non mi piace (quello mi è capitato di farlo quando ero un buon fidanzato: errore fatale). Mi convinco fin da subito che vale la pena di venire perché questi giovani di Metz (città più bella di Francia) non solo hanno pubblicato tre LP veramente validi, ma secondo me sono in odore di consacrazione. Il primo indizio che mi fa dire ciò è il biglietto, un po’ costosetto, per vederli suonare nell’immensa Gaîté Lyrique (dove ho visto gli Stereolab, per dire). Il secondo indizio è la loro traiettoria discografica recente. Ma andiamo per gradi.

Il primo full-lenght dei Grand Blanc, Mémoire Vive (2016) colpisce subito per il suo approccio synth-rock (mi concedo il neologismo) moderno senza essere avanguardista e nostalgico senza essere desueto. Le drum-machine pestone, i chitarroni e i sintetizzatori di ispirazione post-punk offrono una memorabile collezione di canzoni energetiche, cupe ma anche orecchiabili. Il termine “coldwave”, che non mi è mai stato troppo simpatico, si può applicare abbastanza serenamente al debutto dei Grand Blanc, visto il suo approccio grintoso e quasi aggressivo. Non si pensi però che è musica lugubre e squallida all’inverosimile, come quella di gruppi a cui è affibbiata la stessa etichetta (penso ai crudissimi Oi Boys, anche loro di Metz): al contrario, i raggi di luce sono frequenti e portano perlopiù un nome, quello della vocalist Camille Delvecchio, la cui voce purissima funziona benissimo in contrapposizione con quella ben più rude dell’altro cantante, Benoît David. Al secondo album dei Grand Blanc, il riuscitissimo Image au Mur (2018), la definizione “coldwave” sta già strettissima vista la sua sensibilità pop molto più pronunciata. Pur mantenendo le ritmiche fredde e la spinta rock anni ’80 del suo predecessore, l’album concede più di un momento radio-friendly e i tappetti sonori si fanno sempre più volentieri meno ombrosi, regalando tante incursioni in un nuovo reame di dream-pop molto originale nel conservare la sua essenza lorena, ovverosia contemplativa, un po’ austera e un po’ malinconica.

(Per inciso, la Lorena è la mia regione francese preferita in assoluto, ma ne parleremo semmai un’altra volta.)

Ed è qui che arriviamo al terzo album, Halo, uscito ad aprile 2023. L'ultima fatica dei “messins” mantiene la predisposizione dei loro lavori precedenti per orizzonti fonici atmosferici, ma fa la scommessa di esasperarla al massimo. Le drum machine sono quasi inesistenti, sostituite da arpeggi svolazzanti, e il suono della band che ha sempre brillato nell’alternanza di voci (quella femminile eterea ed ipnotica, quella maschile sanguigna e poetica), si sublima in un ambient-pop intimista, al contempo ricercato e “grand public”. Senza dubbio stasera, in un decoro di eccellenza, è questo nuovo abito dei Grand Blanc che sarà celebrato.

Curioso di vedere in cosa si sostanzia questo possibile nuovo fenomeno della musica francese, arrivo molto presto alla Gaîté Lyrique, vero e proprio palazzo nobiliare dalle colonne in porfido rosso, che affaccia su una piazzetta alberata della Parigi bene. Al suo interno, il sontuoso edificio si sviluppa più come uno spazio artistico multidisciplinare che come una sala concerti tradizionale. In compenso, c’è un bar prima dell’ingresso alla zona musica (che sciccheria!), perciò mi metto ad aspettare Lauren con una birra e ne approfitto per leggere la programmazione concertistica della Gaîté, a cui vengo molto di rado. Effettivamente, la proposta musicale è molto specifica e lontana dalle assi principali del mio gusto: tanta elettronica sperimentale (tra qualche giorno vengono Alessandro Cortini, Panda Bear e Sonic Boom), musica contemporanea (noto il passaggio di un’orchestra che suona Steve Reich), un po’ di noise-rock spigoloso e/o modulare (The Psychotic Monks a gennaio vengono a consacrarsi anche loro) e, quando si tratta di abbassare un po’ l’intellettualismo, grandi act elettronici popolari ma sempre un po’ “branchés” (Nicolas Jaar, Jacques, Flavien Berger etc). Una volta esplorata la programmazione del centro culturale, osservo le sue frequentazioni: stasera tanta gente giovane, dallo stile un po’ alternativo. E poi, beh, quel popolare musicista di cui vi parlavo prima, con cui incrocio per sbaglio lo sguardo, con imbarazzo.

Lauren arriva due minuti dopo. È tesissima, un fascio di nervi, e le tremano le mani. Talmente nervosa che anch’io, per proprietà transitiva, mi sento addosso un po’ di quel magone da innamorati. Ci ritroviamo al piano di sopra, al di là del controllo biglietti, a vagare tra l’anticamera, una grande sala bianca e moderna, e il secondo bar, uno stanzone sfarzoso con grandi vetrate e affreschi ottocenteschi. Più che vagare, stiamo evitando ogni tipo di contatto col capellone in questione. Persino i baristi, con cui proviamo ad essere il più scherzosi possibile (uno ha la maglia del Milan, un altro è uguale spiccicato ad Aphex Twin), sembrano accorgersi dello stress che emaniamo. Addirittura mi viene uno dei miei classici tic nervosi: comincio a cantare a ripetizione il ritornello della canzone che ho in testa, che visto il setting un po’ french touch è Daft Punk Is Playing At My House degli LCD Soundsystem.

Per distrarci, decidiamo di andare a vedere l’opening act. La sala dove c’è la musica è un grosso scatolone nero al quale si accede da pesantissime porte simil-depressurizzate. Al suo interno questa Zona architettonica di tarkovskiana memoria, dove la ricezione telefonica scompare nel nulla, appare smisuratamente grande, con soffitti altissimi. Un setting che, più che le sale concerto che frequento di solito, ricorda più il salone delle sonorizzazioni elettroacustiche dell’IRCAM, dove un paio di anni fa io e mio babbo andammo a vedere una composizione di Xenakis che ci lasciò più sdubbiati che altro. Passano pochi minuti, che spendiamo perlopiù a guardarci attorno paranoici, poi si spengono le luci. Il sipario si apre (!) e appaiono Adrien Pallot & Pierre Piezanowski, due musicisti che, con sintetizzatori e chitarra, propongono canzoni relativamente brevi di un’ambient nuda, cruda e senza grandi fronzoli. Non è spiacevole, ma non è né troppo originale né troppo coeso: in certi brani tutto si appoggia sul drone psichedelico (ve li ricordate i Mohave Triangles?), in altri ho l’impressione di ascoltare un vecchio progetto di William Basinski, o ancora degli Stars of the Lid… Sarà, o non ne capisco una mazza io, o davvero il concerto non è niente di eccezionale, o sono ancora un po’ sotto l’influenza stressata di Lauren. Probabilmente tutte e tre, fatto sta che dopo quindici o venti minuti perdo un po’ di interesse e propongo di andare a fumare. Facendoci strada tra la gente ovviamente mi trovo davanti la presenza di quel cavolo di chitarrista che ormai fa sussultare anche me.

Camminiamo per altri tre metri e poi prendo Lauren per le spalle e la guardo fissa negli occhi, tra le luci del palco e note lunghissime che impregnano l’aria. Sembra quella scena di Skins dove Tony e Sid si incontrano al concerto dei Crystal Castles.

“Have you seen him?”
“No, what?!”
“Sista, we fucking walked past him. He’s there. You go talk to him now.”
“Well…”
“I’ll wait for you at the exit.
Now go”.

***

Meravigliarsi per dimenticare tutto, la lezione di vita dei Grand Blanc

La nostra pausa sigaretta ha un’atmosfera strana. Il nervosismo ha lasciato spazio a più spaesamento che altro. Lauren ha spiccicato tre parole in croce con il ragazzo misterioso. Sono un po’ arrabbiato con me stesso per essere stato così duro e “forceur”, un po’ deluso da Lauren che se n’è uscita soltanto con un misero “Coucou, ça va?” e poi se n’è andata, un po’ preoccupato perché non so come si sente la mia amica, se triste, dispiaciuta o stizzita. Chiacchieriamo con gente a caso davanti alla Gaîté Lyrique per ammazzare il tempo e quel miscuglio di sentimenti che ci centrifugano dentro (a me a velocità standard, a lei biturbo). Come se non bastasse fa un freddo becco.

Non resisto più in quest’aria gelida e un po’ mogia, perciò torno dentro. Lascio Lauren fuori con gente che abbiamo appena conosciuto, le dico che ci vediamo dentro alla sala. Appena entro nel cubo della musica, però, mi rendo conto di quanto sia ambizioso il mio programma: c’è una quantità immane di gente. Ecco, adesso sono anche incazzato perché vedrò il concerto da lontano. Provo ad avvicinarmi quanto posso, arrivo a un punto quasi soddisfacente ma non del tutto. Poi un ronzio di synth. Si spengono le luci e il sipario si apre, ma non si vede praticamente nulla di quel che c’è sul palco. Il buio è fitto, non c’è campo e sbuffo di nuovo: mi tocca pure vederli da solo, i Grand Blanc. Poi si accendono le luci e tutti, ma proprio tutti i presenti, cacciamo un “oooh” di meraviglia tra i più rumorosi che abbia mai sentito in vita mia.

Sul palco c’è una cresta rocciosa altissima e splendida. In cima, a qualcosa come tre metri da terra, un’arpa sinuosa. Seduta su uno sgabello, Camille Delvecchio comincia a pizzicare melodie complesse e sbalorditive. Una presenza luminosa e paranormale, a metà tra l’inquietante fantasma e le visioni divine che atterriscono i viandanti. La sua voce, piano piano, passa da vocalizzi mistici a frasi sempre più udibili, come un corpo che ritorna alla vita dopo un secolo di sonno. Le sagome dei tre ragazzi sotto di lei sul palco si fanno sempre più nitide, la chitarra e le tastiere si sentono sempre di più. Il primo crescendo è estatico, e mi lascia a bocca aperta. Non ricordo di aver mai visto coesistere delicatezza ed intensità in maniera così naturale, è un miracolo di purezza. La canzone dovrebbe essere Pillule Bleue, ma se faccio errori di setlist non me ne vogliate: se di solito mi tengo vivo nella mente qualche elemento lirico o strumentale dei brani per poi poterli citare di nuovo nei miei live report, adesso non mi passa nemmeno nell’anticamera del cervello. Mi faccio soggiogare dallo sbigottimento, e scompare tutto: la solitudine, le delusioni, la stanchezza, le insicurezze. Un po’ scompaio anch’io.

Quel che segue è uno dei più bei concerti dell’anno. Delvecchio raggiunge i suoi compagni scendendo aggraziata dalle pareti rocciose, scenografia che, passato lo stupore iniziale, non appare più ultraterrena, ma molto elegante. L’affiatamente del gruppo, ora che sono tutti sullo stesso piano e che l’arpa ha lasciato spazio a una più sobria chitarra, è palese e toccante. Mi emoziono con Loon, ballata suadente come un canto di sirene, che parla di viaggi lontani avvolgendo la platea sotto a un manto di arpeggi, e melodie che si incrociano con una spontaneità tale da nasconderne anche l’intricatezza tecnica. Un’altra canzone di sette minuti che è passata veloce come un sospiro: il pubblico è quasi preoccupato di applaudire o urlare talmente l’aria rimane sospesa. Per fortuna Benoît David prende in mano la situazione e alleggerisce l’atmosfera raccontandoci un po’ della “lore” di Halo con una buffa voce sognante: i Grand Blanc che trovano l’ispirazione per il disco sul delta del Danubio in Romania, poi la trasformazione di una casa nel bosco (“les Parages”, i Paraggi) nel loro studio artistico e nella loro etichetta, le tante sessioni di registrazione all’aria aperta… Insomma, tutta una serie di storie suggestive che aggiungono ancora materia a quello che ormai sono convinto sarà il prossimo mito del pop alternativo francese.

E che ventata di aria fresca, se così fosse! Il sound di Halo ha una profondità inedita e tutta da scoprire: seppure le chitarre pizzicate e i sintetizzatori ambient sono le solide fondamenta di praticamente tutte le canzoni, le sorprese sono tante: penso alla coda quasi noise (a cui la voce di David si abbina benissimo) della struggente Orange, o ancora alle gentili distorsioni di Nuit des Temps e all’assolo di sassofono suonato dallo “special guest” Adrien Soleiman, sagoma sciamanica che spunta nell’ombra in cima ai pinnacoli dei Parages. E anche liricamente i loreni possono regalare tante emozioni insospettabili: nell’intro strabiliante di Ailleurs, con i suoi synth lancinanti (questi sì, un po’ “french touch”), la citazione a Françoise Hardy colpisce nell’anima all’insaputa: “Tous les garçons et les filles de mon âge”… È proprio mentre mi sto facendo accecare dal suo commovente ritornello che per magia Lauren mi ritrova. L’abbraccio che ci diamo, più che per la felicità di ritrovarci, è per quella di essere davanti a un fenomeno così splendido, un’aurora boreale sul palco che ci lascia senza parole. Ci diciamo: “Hey, this gig is…” “Yeah, it’s…” e non troviamo nemmeno l’aggettivo giusto. Appena i quattro di Metz escono dal palco rifiatiamo un po’ e possiamo cominciare a trovarne qualcuno: jawdropping, astounding, flabbergasting. E non abbiamo nemmeno ancora visto l’encore!

Un encore perfetto è un encore che ti vizia, e anche in questo i Grand Blanc dimostrano una maestria da veri grandi. Io vorrei sentire Belleville, composizione new-wave vivace con un poetico testo sull’asprezza della vita urbana (tutto rimanda al quartiere parigino, ma amo pensare che sia una strizzata d’occhio anche a quell’industriosa Belleville che sta sulle rive della Mosella). Mi convinco che, visto il sound e la tematica, non c’è spazio per un pezzo del genere in questo set, e rimango sorpresissimo di sentirla partire in un riarrangiamento soave e senza batteria. Questo mitico singolo di Image au Mur, nella sua versione soft, finisce inaspettatamente con un’esplosione di sintetizzatori conditi di feedback degna di shoegazers esperti, che ci spettina a dovere. Lauren, lei, voleva sentire Oiseaux, ma dopo una scossa elettrica del genere sembra improbabile di tornare alla delicatezza delle corde acustiche. Invece Delvecchio approfitta del frastuono appena consumatosi per riprendere posto all’arpa, come all’inizio, e chiudendo il cerchio riaccompagnarci progressivamente verso un ultimo, placido, lido sonoro dove tre chitarre possono disegnare il meraviglioso intreccio degli stormi di rondini nel cielo, dandoci un ultima, serena, estasi.

Il concerto è finito e tutto il pubblico è in visibilio. In una situazione normale direi a Lauren, forse con toni un po’ petulanti: “Eh sì, me lo sentivo proprio che questo era il loro concerto di consacrazione!”, ma non me la sento di dire nemmeno una parola. Mantengo solo un grande sorriso e biascico qualche: “Great, great”. La sensazione che ci sentiamo addosso, soprattutto, è un totale distacco da tutte le manfrine di inizio serata. La lezione di vita dei Grand Blanc è stata chiara, immediata ed efficace: l’immensità e la bellezza hanno il potere sovrannaturale di rimettere a fuoco le nostre ansie e difficoltà quotidiane, trasformandole in qualcosa di piccolo, se non irrisorio. Il concerto di stasera (sembrano stereotipi ma è vero) ci insegna che a volte per stare meglio con noi stessi c’è solo bisogno di ritrovarsi a tu per tu con la foresta, il crinale, la terra, gli uccelli, o persino i fiori (come ci ha insegnato poco fa Benoît David prima di attaccare Fleur). In assenza di elementi naturali, può bastare la dolcezza delle corde di metallo dell’arpa, il suono che esce dal legno della cassa di risonanza della chitarra o persino un synth ben calibrato su frequenze trascendentali. A suonarle, però, devono essere dita talentuose, e stasera quelle dei Grand Blanc ci hanno fatto il regalo di prestarle al servizio della nostra meraviglia. La meraviglia, sì, e un nuovo sentimento di pace.

È con una leggiadria inaspettata e che mi mette di buon umore che la mia amica del cuore va a parlare con quel ragazzo che tanto le piace mentre beviamo l’ultimo bicchiere. Sotto la luce sofisticata della hall della Gaîté Lyrique, getto anch’io uno sguardo più duraturo verso al chitarrista del cuore di Lauren: si vede che, nonostante passi la vita ad accompagnare famose cantanti su grandi palcoscenici, è una persona gentile e dolce. Niente di cui stupirsi visto che è anche amico dei Grand Blanc, che sembrano veramente dei pezzi di pane (questa la mia impressione anche quando li ho visti “in borghese” fuori dalla venue mentre ero in fila per entrare, intenti a confezionare il tenero foglio di ringraziamenti che hanno srotolato sul palco).

Torniamo a casa, entrambi verso il dipartimento 92, e la metro è sorprendentemente affollata ma, in pace con noi stessi come siamo, non ce ne accorgiamo nemmeno. Parliamo di come ci sentiamo ultimamente, di cosa vogliamo fare nei giorni seguenti. Lei chiederà un nuovo appuntamento al tipo che era tanto stressata di rivedere, io continuerò la mia vita di tutti i giorni e vedrò come va. Sono contento, quantomeno, di avere un’amica così speciale con cui condividere sia i momenti di angoscia e di smarrimento sia quelli di bellezza e serenità, sempre con la stessa vicinanza e la stessa fiducia. 

***

Conclusione

Sono le sei del mattino, il giorno dopo, quando mi sveglio ancora una volta assetato. Bevo dell’acqua, provo a riaddormentarmi, ma mi ritrovo a rigirarmi nel letto per un’ora. Ancora una volta, mi alzo con rassegnazione. La giornata sembra il clone di quella di ieri: i grattacieli nebbiosi della Défense sopra alla Senna, il vento freddo all’uscita della metro, i volti seri e incappucciati dei passanti, la pioggia sul vetro, il caffè freddo.

Una sola cosa è cambiata: dentro di me sento che da qualche parte, là fuori, ci sono amore e infinita bellezza. Basta questo a tenere viva una luce. Metto su la musica. Accenno un sorriso.