venerdì 26 aprile 2024

Stereo Totale's Quarterly Business Review - 4 Mixtape per Aprile 2024


Stereo Totale, il mio personale zibaldone fatto di lunghi testi su musica e concerti, è ancora in una fase embrionale. Non perché il suo aspetto grafico sia scarno, stupido e poco curato (lo sarà sempre), non perché sia talmente di nicchia che su Google non appare neanche cercandolo con seicento parole chiave virgolettate (va bene così), e nemmeno perché io stia cercando la quadra di un particolare stile di scrittura e pubblicazione (in realtà mi vado bene prolisso a questo modo); no, considero questo blog in uno stato embrionale perché le rubriche che ho amato creare e che amo e amerò mandare avanti hanno ancora fatto pochissime apparizioni. Fateci caso: la rassegna mensile "Life Lately", anche se contiene già tanto materiale, è stata pubblicata solo quattro volte (spoiler: non ci sarà per il mese di aprile); o ancora "Reverso", ovvero i miei articoli in lingua francese una tantum, sono solo due (uno introduttivo e uno completo, ma qualcosa sta per tornare).

Tra tutte le piccole ricorrenze che sogno di rendere il più longeve possibile, però, la mia preferita è forse la Stereo Totale's Quarterly Business Review, oggi alla sua seconda apparizione. Si tratta dell'unica volta, ogni quattro mesi, in cui sento di star veramente facendo un regalo ai lettori, offrendo quattro mixtape in free download che possono piacere (o no) un po' a tutti. Dopo quattro mesi in cui ogni giorno ho sentito tanta generosità da chi mi legge, è bello donare qualcosa in cambio. E i tempismi di questa rubrica sono, per puro caso, fantastici, perché la revisione di bilancio quadrimestrale cade a fine settembre, a fine dicembre e a fine aprile, che sono rispettivamente il compleanno di Stereo Totale, il santo natale e il mio, di compleanno. Perciò oggi, dopo aver soffiato le candeline ieri, vi lascio qui sotto il link per ascoltare le compile che ho preparato per voi.

Mega Stereo Totale QBR - Aprile 2024

La formula è la stessa che a dicembre: i primi due mix, con l'etichetta "QBR", riprendono il meglio della musica trattata sul blog negli ultimi quattro mesi. A questo giro quello dei due che contiene l'indie pop, l'indie rock, il folk e altre bucoliche amenità l'ho chiamato "Stereo, you're so cool!", proprio perché è molto orecchiabile, fresco, leggero e profumato. La sua controparte a base di noise rock, post-punk, HC e altre forme di violenza sonora, rumorose, malvagie e dolorose si chiama, al contrario, "Stereo, you're a freak!". Ciascheduno, nella sua durata di circa 45 minuti, propone la bellezza di 14 gruppi diversi. Questo vuol dire che, potenzialmente, potete scoprire 28 band e, una volta che avrete imparato ad amarle, potrete anche leggere cosa ho detto di loro. Ah, a questo giro ci sono anche gli skit. Scusate se è poco!

Nella stessa confezione, in omaggio, amo mettere anche due mixtape "bonus". Il primo, intitolato, "The Art of Punk Covers", è volto a dimostrare quanto sia importante, nella e per la musica punk rock, l'esercizio stilistico dell'interpretazione delle composizioni altrui. Dentro c'è un po' di tutto: cover punk di canzoni non punk, cover non punk di canzoni punk, ovviamente anche cover punk di canzoni punk. Sono contentissimo del risultato e della completezza del mix: ci sono canzoni provenienti da tantissimi paesi (Inghilterra, Francia, Italia, Stati Uniti, Giappone...); ci sono canzoni estremamente serie ed emotive (un classico dei Bad Brains al pianoforte, da brividi) così come ce ne sono di incredibilmente divertenti e stupide (un classico dei Minor Threat in versione minimal synth, da morire dal ridere); ci sono pezzi molto moderni (non perdetevi, verso la metà, la sigla di un famoso programma di Canale 5 in versione crust), così come canzoni antichissime (non perdetevi, nel finale, gli inventori "canonici" del punk rock che suonano un pezzo iconico dei "veri" inventori davanti a un pubblico un po' ignorante, nel '76). La penultima canzone è una vera chicca e non si può trovare da nessun'altra parte se non su questo mixtape: si tratta di una cover, nello stile dei primi The Clash, di uno dei primissimi pezzi synth-pop della storia. Per questa perla che vi porto in esclusiva devo ringraziare enormemente The London System, che me l'hanno gentilmente inviata anche se l'avevano cancellata dal loro canale. A questo punto non posso non promuoverli: quattro ragazzini di Los Angeles simpaticissimi e che suonano come draghi. Andatevi a sentire il loro self-titled, dove pezzi melodic hardcore veloci come sassate si alternano ogni tanto a jam funk saporitissime, creando quell'effetto di spaesamento che abbiamo amato col reggae di Banned in D.C.

Il secondo mixtape "bonus" ho deciso di dedicarlo interamente a uno dei più grandi gruppi rock della storia. Sicuramente li conoscete: hanno registrato in casa un buon migliaio di canzoni di cui forse nemmeno il 5% supera la durata di tre minuti, negli anni '90 hanno pubblicato almeno cinque album capolavori (è tantissimo), bevono un sacco di birra, whisky e tequila e sono di Dayton, Ohio. "Guided by Voices, inventors of the micro-ballad" è una breve compilation delle loro migliori canzoni acustiche, ed è volto a dimostrare che uno dei lasciti più geniali dei GBV è quello di essere riusciti a prendere un grande classico del songwriting americano, le ballad, che per definizione sono canzoni lunghe e ripetitive, e ricreare lo stesso feeling con canzoni brevissime che a volte hanno una strofa soltanto. Ci sono solo pezzi degli anni '90, alcuni tratti da album celebri come Bee Thousand o Alien Lanes, altri scovati su EP oscuri o ancora nel loro sconfinato catalogo di demo della serie Suitcase. E siccome la canzone media dei Guided by Voices dura meno della metà della durata di una canzone media, anche questo mixtape dura meno della metà di un mixtape medio. Ma non lasciatevi ingannare: in ventuno minuti Robert Pollard, Tobin Sprout e soci riescono a racchiudere un'intera costellazione di melodie da sogno.

Come al solito resto disponibile per la tracklist se interessa. Buon ascolto!

giovedì 11 aprile 2024

Life Lately (Marzo 2024) - Hoorsees, DIIV, Les 17 Ans du Motel, En Attendant Ana, Bilderbuch (Quello di cui non parlo: Sarab, Avalon Emerson, JaJaJaJa)

Il mese di marzo è stato un mese pieno. Un mese in cui succedono migliaia di cose, nel mentre che i giorni si susseguono in fretta a un ritmo che non si capisce se sia forsennato o leggiadro, proprio come raccontava Days dei The Drums. In questo continuo spostarsi (che sia tra le campagne di Francia o tra i quartieri di Parigi e dintorni), in questo continuo parlare e confrontarsi con la gente (che siano agricoltori in villaggi sperduti, gli amici di sempre, o persone incrociate a una serata fuori) c’è sempre, e per fortuna, la musica. Il minimo comun denominatore, l’unica costante che dà un senso a questo caos a volte troppo sparpagliato. 

Life Lately, rubrica mensile che ormai a dirla tutta ormai assomiglia quasi a una rivista, contrariamente a quel che annuncia il suo nome serve più a raccontare i concerti più interessanti del mese che quel che ne è stato della mia vita ultimamente (anche se quando scrivo le cose si mescolano l’una con l’altra). Alla fine, perciò, la rassegna di concerti non è un compendio esclusivo di tutto quello che ho ascoltato dal vivo, ma solo una lista di concerti di cui sento di voler parlare in profondità. 

Ciò sottintende che qualcosa è stato eliso. E per correttezza vi racconto rapidamente cosa, e perché. Ma nell’appendice, più precisamente in una rubrica che si chiamerà, per ossimorica coerenza: “Quello di cui non parlo”.

(C’è una ragione supplementare e implicita per cui non parlo di tutto: a questo giro ho trattato un volume di musica live enorme. È anche la ragione per cui pubblico un articolo sul mese di marzo a metà aprile. A chi potrebbe chiedermi: “Ma Reric, non potresti giusto scrivere i trafiletti via via che vedi i concerti così sei già pronto all’inizio del mese successivo?”, rispondo citando l’intramontabile Gaetano Catanuso: “Chef, sono una testa di cazzo.” “L’hai detto tu”).

In ogni caso, anche a questo giro portiamo a casa un bel po’ di materiale: cinque concerti tutti pieni di sorprese, e un piccolo bonus dove racconto tre artisti incredibili e diversissimi tra loro. Il tutto, ovviamente, da spiluzzicare come meglio vi aggrada.

Bando alle ciance.

 

Hoorsees – Di chi è la colpa, del fantino o del cavallo?

Hoorsees live @Point Ephémère, Parigi, 07/03/2024

Il concerto del giovedì sera, forse, a questo giro è di troppo. Ho passato i primi tre giorni della settimana a lavorare in campagna, domani viene un amico da Firenze e, presumibilmente, facciamo festa tutto il week-end. Subito dopo ricomincia una settimana folle, sballottolato a giro per i campi di Francia oppure, a Parigi, preso da mille micro-impegni, per lo più musicali, che do già per inderogabili. Potrei starmene a casa, fare scorta di sonno, godermela, ma all’ultimo minuto decido comunque di uscire. La mia coscienza mi chiede se non mi starei un po’ strapazzando, ma le rispondo che no, un concerto come quello di stasera non può andare male. In effetti, raramente una serata si preannuncia al contempo comoda, leggera e inoffensiva come oggi. Tutto concorre nel rassicurarmi: artisti, luogo, compagnia.

Passiamoli in rassegna. Stasera suona un gruppo che, come tante altre band dell’underground-ma-non-troppo francese, ho già visto a La Ferme Electrique (la due giorni musicale più imperdibile della regione Île-de-France). Era il luglio del 2022, faceva caldo e dovevano essere le 19. Tempi spensierati: tutto ciò che indossavamo erano maniche corte, un sentimento estivo un po’ adolescenziale e quella sensazione di eccitazione soggiacente che comincia a gorgogliare all’inizio di una serata di festa che intuisci memorabile. Se invece che a una rassegna di concerti fossi stato nel cortile della casa di amici con in mano il primo bicchiere della giornata avrei messo su un classicone tipo un vecchio disco dei Pavement o al limite degli Strokes. I geniali programmatori del festival fecero un’operazione simile e in quello slot spensierato misero gli Hoorsees, che erano reduci della pubblicazione del loro secondo album A Superior Athlete. Di quel disco e di quel concerto che lo celebrò largamente non posso dire che del bene: l’indie rock della band, americanissimo, suona slacker, sognante e svolazzino (merito di un gran gioco di chitarre) come se fosse uscito dalla California degli anni ‘90 ma anche quadrato, groovy e ruvido (merito anche della voce cruda del cantante Alexin Huysmans) come se bazzicasse una New York dei primi 2000. La sintesi funziona, e il risultato è un revival che, per carità, non sarà rivoluzionario, ma non è affatto noioso o fine a sé stesso, anzi: specialmente suonata dal vivo, è musica di una freschezza notevole: sentimentale, ma non melensa; danzereccia, ma non ruffiana; emotiva, ma mai veramente triste.

Di quella mezz’ora di Hoorsees a Tournan-en-Brie, contrariamente ad altri momenti di quella serata, ho un ricordo estremamente vivido, e ripensare a momenti come la ballata garage Week-end at Bernie’s, il sing-along pop di Jansport o il groove asciutto della scintillante Drama Kings mi evoca una sensazione di rara leggiadria che mi mette di buonumore, specie in questa fine inverno che, con le giornate che si allungano, comincia ad assumere l’aspetto di un timido inizio di primavera. Da quel luglio di quasi due anni fa, ho ascoltato molto gli Hoorsees e soprattutto A Superior Athlete, preferendolo al self-titled del 2021 che, pur proponendo la stessa formula, ho sempre considerato come sua una versione più acerba, sia nella composizione, meno avvincente, sia nella produzione, meno immersiva (ma non fraintendetemi, resta un buon album).

Andare a vedere Hoorsees oggi potrebbe essere una buona occasione di celebrare la leggerezza, e anche se sono stanco posso già assaporare il benessere che può scaturire da un concerto sbarazzino a questo modo. Se a questo aggiungiamo il fatto che il concerto è al Point Ephémère, non vi sono ragioni per non andare. Situato in una nicchia geografica dall’aspetto sorprendentemente non-parigino, questo grande bar con la sala musica a mo’ di dépendance è tra i miei preferiti in città anche solo per l’esotismo del paesaggio: la linea 2 che passa sopraelevata, in lontananza, assomiglia al Loop di Chicago; l’enclave del Canal Saint-Martin di notte mi ricorda istintivamente Rotterdam (Make it Happen!). Insomma, questa location un po’ mi emoziona, e mi provoca sensazioni da spazio liminale post-punk ai margini della metropoli: un angolo di quiete al bordo del tumulto, di sentimentalismo che sfugge al cinismo meccanico dei trasporti e della sua flotta di individui anonimi.

Il solito Paul mi raggiunge al volo subito dopo i rituali dell’apertura cancelli a cui sono tanto affezionato (acquisto prima birra, ispezioni e sopralluoghi vari, sigarettina tattica). Ci conosciamo appena da settembre, ma nel nostro suonare insieme, bazzicare bar e concerti siamo già diventati, oltre che amici, una sorta di "partners in crime". Ho l’impressione che, con naturalezza e spontaneità, al di là di essere confidenti e compagni di vita, possiamo affibbiarci con tranquillità l’etichetta di duo piccole pesti della vita musicale notturna, una sorta di versione indie-punk di Beavis & Butthead. Nella cumpa, direi che Paul fa anche la parte dell’angioletto buono, la voce della ragione e della moderazione. “Stasera due birre massimo massimo eh, mi raccomando tienimi d’occhio te che sei astemio”, gli dico. “Tranquillo, tranquillo”, risponde ridendo con poca convinzione.

L’opening act sorpresa è una bellissima scusa per ridere e scherzare, fare un po’ della nostra proverbiale caciara. Presentandosi sotto al moniker Néoprène (che in realtà è solo il titolo dell’ultimo album del 2023), il cantante Antonin Appaix ci porta subito uno show di musica pop leggero, divertente e pieno di “swagger”. Si ha l’impressione che il ragazzo, a parte cantare e ballare, piazzi qualche raro click sul suo sintetizzatore più per artificio di scena che per una vera utilità, ma è proprio questa malcelata irriverenza che rende Appaix simpatico, mentre sfilano uno dietro l’altro pezzi francesi un po’ funky, piuttosto semplici ma tutti gradevoli e dai testi ora un po’ decadenti (bella l’immagine “Il y a des Toiles d’araignée dans les touches du synthé”), ora un po’ esotici (l’highlight resta Flashdance, piccola suggestione italo-disco con tanto di sample di un vecchio film di Nanni Moretti). La cosa che ci fa estremamente ridere è che ad accompagnare il cantante c’è solo un altro musicista, un ragazzo che suona i bonghi con un’abilità e un movimento di bacino degno dei migliori virtuosi del son cubano. Tutto è un po’ improbabile e perciò un po’ esilarante e un po’ esaltante.

Alla fine di questo assurdo divertissement ci sentiamo come se l’infermiera ci avesse appena fatto un’iniezione di buonumore. Mi gioco il mio bonus seconda birra e gioisco nell’incontrare vecchie (e quasi inaspettate) conoscenze di Stereo Totale che sono accorse anche loro alla serata. Qui ha senso precisare un elemento fondamentale del concerto di stasera: si tratta in realtà di un release party. Hoorsees in effetti hanno fatto uscire il nuovo album Big a gennaio 2024. Ammetto che ancora non l’ho ascoltato ma Paul, che oggi stesso gli ha dedicato qualche istante, mi dice che è un disco indie-rock orecchiabile, con chitarre dal suono molto anni ‘90, e perciò mi aspetto qualcosa in continuità con i lavori precedenti. Immaginate perciò la mia sorpresa nel sentire, appena i quattro montano sul palco in maniera inaspettatamente sfarzosa (molto bella la proiezione con il logo Hoorsees e un’immagine notturna sulla circonvallazione), un suono prepotentemente stadium rock e la bassista Zoé Renard che è diventata l’indiscussa leader canora del gruppo.

In effetti, la band è cambiata, e per quanto questa constatazione possa essere spaesante attizza anche la mia curiosità, in questo momento che ho atteso tutta la giornata, il momento in cui posso dimenticare la stanchezza e abbandonarmi nel suono. Provo perciò a concentrarmi sulla nuova musica degli Hoorsees ma bastano pochi minuti a farmi aggrottare le ciglia, girarmi verso il mio compare e dirgli: “È normale che si senta così?”. In effetti, nonostante dei buoni suoni di chitarra, il basso è parecchio messo in avanti, ma soprattutto la batteria ha ricevuto un trattamento fonico completamente incoerente con quello che ricordavo del gruppo: un suono reverberato, imponente, per l’appunto da stadio, di cui l’elemento più emblematico è un rullante ingordo di gating che non sfigurerebbe in accompagnamento a Jon Bon Jovi (e che, sui fill più spinti, fa quasi male). Il concerto avanza e di non riconoscere le canzoni mi starebbe anche bene, ma di non riconoscere proprio il sound della band mi fa storcere il naso perché per come suonano, queste canzoni sembrano davvero concepite per un’arena piena di giovani con la lanterna del cellulare accesa, più che per una sala celebre per la sua programmazione indie rock. Sarei quasi pronto a fare una cosa che a Parigi non succede quasi mai: lamentarmi del fonico.

Lamentarsi del fonico è una delle attività preferite di noi italiani, nonché una delle cose più piacevolmente snob che si possano fare nella vita. Da quando vedo concerti a Parigi non mi capita quasi mai di farlo, ma stasera sono abbastanza allibito al vedere quegli Hoorsees che mi avevano regalato gioie estive e post-adolescenziali suonare come un pomposo album della peggiore parte di carriera dei The Vaccines (quei Vaccines trattati a novembre che, quantomeno, hanno un sound sì da stadio ma coerente con la loro presenza scenica e con le composizioni, a differenza dei parigini di stasera che sono abbastanza impalati e continuano a suonare riff anni ’90 fuori dal loro contesto). Poi una domanda mi sorge spontanea: è davvero colpa del fonico? Mi rendo piano piano conto che i brani sono  abbondanti di “forbidden beat” (i sedicesimi sull’hi-hat che si accettano una sola volta a concerto) e che hanno delle smarmellature sonore che non possono non essere state studiate a tavolino per rendere felici gli ammiratori dei pop alternativi più radiofonici di oggigiorno. Ebbene sì, sto assistendo controvoglia a una svolta degli Hoorsees che non mi piace granché.

Ma chi mi legge sa che sono disposto a perdonare le svolte, finché quantomeno la performance resta gradevole e sensata con quello che il pubblico si può aspettare. Quante volte, del resto, vado a vedere band di cui non mi piacciono gli ultimi lavori (vedasi ad esempio i Pogo Car Crash Control). Il gruppo di stasera non fa nemmeno quello: A Superior Athlete è come se non fosse mai esistito ed è fuori discussione che i quattro si prodighino in canzoni di quel gioiellino, nella loro performance esageratamente breve e sparagnina (basta bazzicare un paio di webzine francesi per notare che non sono l’unico che ha avuto da ridire riguardo alla durata, a riprova che non sto richiedendo eccessivo fan-service).

Il concerto finisce in maniera un po’ insoddisfacente, e il sentimento di leggerezza che cercavo non sono proprio riuscito a trovarlo. Con l’avvallo di Paul, bevo un paio di bicchieri di troppo, e cerchiamo la leggiadria che la musica non ci ha dato in conversazioni con persone che ci fa piacere vedere o conoscere, finendo decisamente tardi per poterci illudere che la serata sia stata rilassante, ma quantomeno non frustrati. Il giorno dopo, in un rarissimo evento di salvifico smart-working (frutto di una previdenza che non sapevo neanche di avere), mi decido comunque a dirimere una volta per tutte la questione dello strano concerto di ieri e ascolto Big. In effetti, il sound che mi ha fatto apprezzare gli Hoorsees due anni fa si sente un po’ di più che nella versione live, le chitarre sono effettivamente pulite, belle e coerenti, e i momenti orecchiabili non mancano. La produzione troppo densa però stona con quella semplicità che nei lavori precedenti del gruppo rendeva le composizioni brillanti. Una così grande volontà di creare impatto sonoro termina per provocarmi l’effetto opposto, che è quello di rendere l’amalgama molto più prevedibile e quasi affatto memorabile, a tratti persino stantia. Ci sono canzoni che avevo apprezzato un minimo in concerto, tipo Presidential Holiday che un po’ suona come un b-side dell’album precedente (i suoni sono però eccessivamente stilizzati), ma anche tante, troppe scelte che trovo discutibili sul nastro quanto dal vivo, tipo No Vacation che sembra quasi un tentativo di sing-along pop-punk fallito (“‘Cause I’m in too deep…”) o ancora Ikea Boy, quella capatina che mi sarei evitato nel reame dello shoegaze per le masse (a cui peraltro la voce di Renard si sposa tanto bene, ma il riffing del gruppo niente affatto).

Insomma, la nuova veste degli Hoorsees, che oltretutto sembra avere un’ambizione sfrontata di radiare le sue versioni passate, proprio non mi convince, e il primo concerto di marzo termina ad essere la mia prima recensione veramente negativa.

Forse avrei preferito lamentarmi del fonico.

 

DIIV – Rilascio lento

DIIV live @Le Trianon, Parigi, 10/03/2024

Ogni quattro mesi circa, il mio amico Tommy monta a Parigi da Firenze per venirmi a trovare, fare un po’ di turismo, mangiare bene e vedere un concerto con me. È un rituale che ormai si è praticamente ufficializzato e ne sono contentissimo, soprattutto perché per me è il modo di conoscere meglio artisti di una certa importanza che non ho mai approfondito abbastanza. Tommaso in fatto di musica ne sa più di me, e ne è la prova il fatto che, a differenza mia, lui scrive su vere pubblicazioni musicali (ma i veterani sanno che ha scritto anche su Stereo Totale e che, in assenza di linea editoriale, ne ha approfittato per scrivere le cose più volgari mai viste su questo blog; ti voglio bene Tommy).

Se a novembre è stato il turno dei Fucked Up, gruppo con cui comunque avevo già avuto un vissuto, a marzo tocca ai DIIV, compagine di rock alternativo newyorkese che ho sempre vissuto come qualcosa che “è lì” ma che non ha mai stuzzicato più di tanto il mio interesse. Lo ammetto, forse c’entra qualcosa l’influenza del terzo membro del nostro trio infernale, Paolo, che al Primavera Sound del 2022 ha letteralmente fatto un’operazione di lobbying per convincermi a non seguire Tommaso al loro show. È un classico e non c’è niente di scandaloso: i clash orari a quel festival sono numerosi e frequenti e i gruppi di interesse possono orientare le scelte dei singoli. Quell’anno, la promessa di riposare le membra stanche seduti sulle gradinate dell’anfiteatro, rivedere gli Idles e fare il bilancio sui loro ultimi quattro anni di carriera (li vedemmo in un contesto molto più intimo nel tour di Brutalism, circa 2018) sarebbe bastata a convincermi, ma Paolo ci mise del suo con i canonici: “Lascia fare i DIIV, canzoni lungagnone, monocordi, tutte uguali… Musica per quelli che si esaltano con le storie di disagio e la moscezza annessa”.

Cosa ci sarà di vero e di falso in questa lapidaria descrizione, sono curioso di vederlo. Così come sono curioso di vedere un gruppo che altri (penso al mio amico Alessandro, un tempo anche lui nel novero degli Avengers di Barcellona) mi dipingono come “Gruppo con la G maiuscola”. Tommaso, dal canto suo, è curioso di vedere il vecchio Trianon che, oltre ad avere un gran bel comparto suono e luci, è forse la sala medio-grande più esteticamente d’impatto di tutta la città. Come ho già potuto raccontare, il pavimento di questo teatrone ottocentesco è particolarmente sensibile ai movimenti del pubblico e ondeggia insieme alla folla. È una cosa più adrenalinica che inquietante da vivere, e quando l’ho raccontato al mio amico fiorentino la cosa l’ha affascinato al punto che ha deciso che non poteva non fare l’esperienza. Perciò eccoci qui, ognuno con le sue aspettative, speranze e curiosità, a vedere i DIIV, peraltro leggermente in hangover dalla sera prima in cui abbiamo fatto un po’ i matti in discoteca con un DJ set di Avalon Emerson (leggasi “Quello di cui non parlo” per una breve descrizione del suddetto). Tommaso mi conferma che l’hangover è lo stato giusto per ascoltare un concerto dei DIIV. Effettivamente, da quello che ho ascoltato, me la sentirei di confermare.

In effetti, mi sono comunque preparato un minimo alla serata, recuperando gli ultimi due album Is the Is Are (2016) e Deceiver (2019). Sarà che li ho ascoltati distrattamente mentre mi dedicavo ad attività da adulto tipo bazzicare Excel e scrivere contratti, ma li ho trovati entrambi innegabilmente belli e al contempo preoccupantemente poco impattanti a livello personale. Le chitarre e le voci hanno sì testura, ma in un modo sobrio che non mi fa esplodere il cuore di emozione come negli shoegaze più riusciti; le sezioni ritmiche sono precise e hanno i suoni giusti, le linee di basso (specie quelle dei primi album, di forte ispirazione krautrock) originali e intense, eppure non riesco mai a sentirle veramente rimbalzare sulle pareti dei miei sentimenti. Il risultato finale è che quei tre/quattro ascolti dei dischi dei DIIV che faccio nelle settimane prima del concerto mi scivolano un po’ addosso e, se magari capisco completamente il fascino e il successo del gruppo a livello mondiale, fatico a comprendere come mai, ai primi ascolti, la loro musica non riesca a penetrare la mia corazza. In compenso i due singoli dell’album in uscita, quel Frog in Boiling Water previsto per maggio, li ascolto in compagnia di Tommaso e li trovo molto più seducenti. Forse certe cose arrivano al cuore più facilmente quando sono condivise.

E in effetti, sono contento di condividere il week-end con il mio amico. Questa domenica, girovagare insieme per la bassa montmartriana e prendere una birra terapeutica (unica della serata) al bar dei cinesi è un bel momento di amicizia e prossimità, di quelli che vanno coltivati e avere cari; entrare in quel tempio della musica che è il Trianon e vedere il mio amico, un omone grande e grosso, con gli occhi di un bambino davanti a un negozio di caramelle, è anche quello un momento felice e memorabile. Pure l’opening act è un simpatico piacere condiviso: la proposta di stasera è l’indie pop della belga Noa Lee, che con classe fiamminga apre le danze portandosi dietro un gruppo di musicisti dalla precisione chirurgica che riescono a far brillare al meglio l’ottima mezz’ora di canzoni del recente Airship (2023). Lee ha una bellissima voce, che coniuga leggiadria e attimi di potenza, e la sua maniera di comporre riesce a riflettere bene questa alternanza. I brani perciò, sono sì un po’ sofisticati, ma hanno una certa immediatezza nel saper proporre l’immortale formula del diavolo e l’acquasanta, allungando al pubblico, tra una jam di sintetizzatori ambient e soliloqui canori accompagnati da strumentali dark-funk (come la cupa Silver), sezioni smaccatamente alternative rock (come nella sferzante After Years) o ancora ritornelloni dream-pop belli “punchy” (memorabile quello di Needle). Insomma, la mezz’ora di Noa Lee è un piacere per le orecchie e ci mette in un buono stato di quiete mentre, in un Trianon gremito, il sold-out comincia a farsi sentire.

Tutto è pronto per l’arrivo dei DIIV e, nonostante non abbia nessuna vera aspettativa per il concerto che sta per arrivare, sento arrivare come un sentimento di sacralità nell’aria. Tommaso mi ha già parlato del concerto di Barcellona nel 2022 come di una della cose più sensazionali che abbia mai visto, e perciò mi calo anch’io in un’autosuggestione ritualistica. E in effetti, quando lo schermo sopra al palco propone un messaggio parodico, pseudo-scientology, che promette un’esperienza ultraterrena e rivoluzionaria, annunciando con solennità l’arrivo dei DIIV, l’immersione in questa cerimonia trasformativa si fa collettiva. Cominciano le visual, i newyorkesi attaccano a suonare e appena arriva la distorsione di Like Before You Were Born, porca vacca, capisco. Il muro di suono della band non si vuole estremo e sconvolgente come quello dei gruppi shoegaze tradizionali, ma è al contrario gentile, una carezza triste che forse avevo bisogno di vedere in prima persona per capire. E pure le melodie, che di primo impatto avevo considerato un po’ anonime, dal vivo assumono un’altra memorabilità onirica. Una canzone come Under the Sun per convincere appieno richiede un abbandono che seduto sulla scrivania non ero stato disposto a dare, ma che ora, al Trianon, è arrivato per effetto di soggiogamento.

A partecipare alla potenza di questa astrazione nel suono c’è anche l’aspetto visivo dello show che è estremamente curato: ogni canzone è accompagnata o dal suo videoclip, o da materiale videografico filmato dai musicisti stessi: snapshot dell’America profonda, immagini di vita quotidiana, incarnazione dell’amicizia in formato 16:9, e così a andare. Ai concerti a cui vado di solito questo tipo di direzione artistica è pressoché inesistente e mi fa piacere vedere qualcosa di diverso. Paolo che è una malalingua direbbe che è arte da fannulloni, o disagiati, o entrambi, e vedrei una parte di verità a quello che dice ma non posso negare che l’apporto del video alla musica funziona bene, specie per promuovere i pezzi del prossimo album che, col testo in formato karaoke, riscuotono tanto successo quanto i brani storici. Brown Paper Bag, che è forse il pezzo più tradizionalmente shoegaze della band, mi fa un effetto my-bloody-valentine-iano, e il suo video amatoriale in stile busta di plastica di American Beauty cattura l’occhio e regala attimi di non convenzionale bellezza; Soul-net, col suo riffing inquieto, la carrellata di immagini di un finto sito web cospirazionista e i deepfake dei quattro DIIV che parlano mossi dall’IA, riesce davvero a comunicare un sentimento di difficile ancoramento nelle derive della società contemporanea. Niente male, devo dire, anche il finto messaggio promozionale della premiata ditta Soul-net che promette pace e prosperità all’auditorio (con tanto di pubblicità subliminali di fast food et similia).

Una malalingua potrebbe dire che le immagini servono a distrarre dalle canzoni lente e un po’ monocordi (che però mi stanno completamente trasportando; altro concerto in cui lentezza e ripetitività mi hanno colpito così forte nell’anima?, i Low), o ancora a oscurare una presenza scenica un po’ dimessa, per non dire mogia. Presto detto, i DIIV dirimono ogni dubbio a riguardo e mettono in mezzo al lotto anche alcuni pezzi più energici, tipo Incarnate Devil, col suo basso sconquassante e gli assoli di chitarra a ruota libera che hanno quasi un’epicità heavy metal, o ancora Blankenship che finalmente sblocca l’“effetto catamarano” del Trianon, il cui pavimento comincia a tremare sotto ai piedi di un pubblico esaltato, al ritmo di uno dei pochi riff della band ad avere una vera cattiveria grunge. Stesso effetto, poi, per la canzone con cui la band decide di salutarci, ovvero Doused da Oshin (2012) (il “vero” album di culto dei DIIV, mi dicono gli esperti), che con le sue chitarre effettate vola come una farfalla e punge come un’ape. Dopo un’ora e mezza di musica praticamente perfetta e poesia in immagini, il pubblico è unanime nel decretare che il concerto di stasera è stato glorioso. Era da tanto che non vedevo un tale trionfo.

Passano un bel po’ di giorni e nonostante pensi spesso al concerto dei DIIV come a un evento straordinario, continuo ad ascoltarli pochissimo. L’altro giorno sto chiacchierando con un amico francese che a un certo punto dice: “Sai che sto ascoltando molto i DIIV in questo periodo?”. E io: “Ah, bon?” “Mi c’è voluto tanto ad entrare. Ma la loro musica è così ‘juste’”. La parola “juste” in francese ha varie accezioni e in questo contesto, il mio amico intendeva ovviamente che è musica “precisa”, “ben calibrata” etc. Ma mi fermo un attimo a riflettere sulle sue ambivalenze, e al significato di “giusto” in termini assoluti. Quando torno ad ascoltare i DIIV provo sempre un po’ di fatica perché è musica che, effettivamente, descrive in maniera estremamente vivida il dolore, la bellezza e le loro reciproche relazioni. Nell’epoca che viviamo, la banalizzazione di entrambi questi fattori della vita umana ha raggiunto il suo parossismo, e portare avanti il messaggio che la vita è bella anche perché è dolorosa, e viceversa, è un atto di coraggio che si può definire “giusto” anche e soprattutto eticamente. Per quanto sembri banale, è un messaggio raro, religioso, faticoso. Perciò ascolto i DIIV a piccole dosi, provando dentro allo stomaco le più dure sensazioni di difficoltà che hanno attanagliato i grandi pensatori del bene e del male.

Qualcosa è scattato e ora capisco la grandezza di questa musica. Piano piano.

 

Les 17 ans du Motel (EggS, Special Friend, La Frange) – RSVP, Rêvez S’il Vous Plaît

EggS live @Point Ephémère (Les 17 ans du Motel), Parigi, 19/03/2024 

È da settembre scorso che scrivo di concerti e devo ammettere che, saltuariamente, mi capita di chiedermi perché lo faccia. Ognuno ogni tanto ha i suoi dubbi esistenziali, e il mio dubbio principe è sempre il solito: ma a chi interessa di leggere un wall-of-text ultra-personale, in lingua italiana, in cui si parla di gruppi che hanno suonato a Parigi? La risposta è semplice: a volte, a pochissima gente. Detto ciò, provo sempre lo stesso piacere nello scrivere e nell’accumulare su Blogspot le sensazioni che ho vissuto grazie alla musica dal vivo, e sono contento anche solo di poter avere uno spazio intimo ma condiviso in cui accumulare storie ed emozioni che, per quanto di riguarda, meritano di essere conservate. Quando scrivo, perciò, non mi curo tanto di questioni del tipo “da quanta gente” e “in che maniera” vengano letti i miei articoli, visto che alla fine della fiera non è quello l’obiettivo finale. Mentirei, in compenso, se dicessi che sono questioni alle quali non penso mai. Quando clicco sul bottone “Pubblica” e i miei scritti finiscono sulla pubblica piazza, è ovvio che vengo sfiorato da pensieri del tipo: “Le persone in questione leggeranno?”, “Riceverò un messaggio a riguardo?”, “Qualcuno si accorgerà del dettaglio che ho voluto annotare?” e simili. E siccome non sono San Simeone lo Stilita, ogni tanto mi piace anche scendere dalla colonna per forzare un poco pochino la mano: taggare le persone in questione, mandare un paio di messaggini se pare cosa, oppure far scivolare un: “Hey, scusa, mi chiedevo: ma hai letto quella cosa in italiano…” quando incrocio chi, da sopra al palco, mi ha ispirato a scrivere.

A volte il risultato sono un paio di parole gentili e bei sorrisi (ed è un vero piacere), a volte il silenzio radio (e non me ne frega nulla). Poi, ogni tanto, può capitare quell’articolo che un pochino ti cambia la vita. Ecco, se finora ce n’è stato uno, quello è il live report del Noël du Motel. Chi l’ha letto ricorderà forse il racconto di una serata verso Natale in cui, un po’ a caso, sono finito a vedere e ad apprezzare fortemente vari gruppi appartenenti al microcosmo del Motel, bar musicale dell’undicesimo arrondissement. Sia chiaro, Le Motel è un localino splendido, dallo spirito indie straripante, rigoglioso di piccole attività culturali e abbastanza attivo nella promozione di eventi adiacenti al rock alternativo in quel di Parigi. In tanti, dopo aver letto che a dicembre non avevo alcuna idea di cosa e dove fosse questo luogo mi hanno chiesto: “Ma davvero?”. Questo per dire che, per forza di cose, forse alla fine sarei comunque arrivato al Motel e ne avrei apprezzato le serate. Va detto che, però, nessuno prima di quell’articolo aveva accolto in maniera così calorosa le mie parole e, di conseguenza, diverse persone legate al Motel che si erano inaspettatamente ritrovate nelle mie righe mi hanno riservato una simpatia e una dolcezza rare, che hanno marcato i miei inizi di frequentazione del bar al quale oramai, dopo pochi mesi, sono già molto affezionato.

Che cosa sia significato per me passare del tempo al Motel nei primi mesi dell’anno ne parlo in un paragrafo nell’introduzione di Life Lately di gennaio, uscito a inizio febbraio. Di quel che è venuto dopo potrei dire tante cose ma mi limito a citare un solo e unico evento, che trovo troppo importante per ometterlo: a metà marzo ho vissuto il coronamento di questo bellissimo e reciproco affetto, venendo invitato a fare una serata di DJ set (non sono un DJ). Ancora mille grazie allo staff del locale che mi ha fatto venire a passare per ore la musica che amo: troppo gentili (e un po’ coraggiosi). È successo il 16 marzo e per me è stato un momento magico. Oggi è il 19 marzo e, guarda un po’, è il momento di un altro grande evento targato Le Motel, un concertone di compleanno in quel Point Ephémère di cui ho già raccontato il fascino nel live report sugli Hoorsees di cui sopra: impossibile non andare.

(Tommy me ne vorrà perché stasera sono venuto qui invece di andare a vedere i Botch, come lui avrebbe consigliato. Mi dispiace, amico mio: per quanto io ami il punk, stasera ho troppo amore dentro di me e non tira aria da crowdkilling).

Io e il fido Paul arriviamo di buon’ora all’FMR (ormai habitués, possiamo permetterci anche di chiamarlo così). La serata è piena di simpatiche facce familiari e di gente che apprezzo e che mi apprezza (inserire emoji sorridente attorniata di cuori), nonché la buona occasione per scusarmi con le bariste che si sono sorbite le mie peggiori boiate qualche giorno prima (mi sento un po’ in colpa per aver letteralmente urlato svariate canzoni di Lio in chiusura). La line-up è, al solito, molto stuzzichevole: contrariamente a quella di dicembre, che era una serata a tre gruppi orientata su una sorta di addolcimento progressivo della musica (coincidente con la mia personale apertura alla magia del Natale), stasera ci sono sempre tre act ma sono stati disposti in un crescendo di adrenalina che poi è un po’ quello di tutti i compleanni. Ancora un volta, ho il piacere di venire a scoprire tre artisti underground. Stavolta però, siccome i giorni precedenti ero troppo occupato prima a scaricare canzoni italiane da Soulseek e poi a smaltire la mia pessima sbornia di entusiasmo, vengo più a scatola chiusa del solito. Mi scuso perciò in anticipo dei possibili errori di setlist (posso pur sempre giustificarmi dietro alla scusa che c’è una caotica atmosfera di festa).

Come una buona serata indie-rock comanda, si comincia da un act (quasi) acustico. La cantante Zoé Seignouret è già da qualche anno che usa il suo moniker da singer-songwriter LaFrange per pubblicare la sue composizioni originali (una rara eccezione è la sua splendida cover di California; sì, la sigla di The OC). Il suo sound minimalista è una celebrazione di uno stile di scrittura estremamente intimo che ad ottobre scorso si è concretizzato nel disco Nobody Else Will Ever See Me Naked di fine 2023. Stasera LaFrange porta sul palco la sua voce e chitarra condite da un elemento inedito, un suonatore di synth che disegna, improvvisandolo (!), un accompagnamento ambient che si sposa benissimo con le canzoni della Frangia più dritta di Francia. Tutte le canzoni sono gradevoli e semplici ma anche sensibili e profonde e hanno la qualità principale di suonare, nonostante l’essenzialità del formato, decisamente dream pop. Prendasi per esempio il romanticismo di Stockholm, canzone che LaFrange stasera decide di rivendicarsi anche se qualcuno le avrebbe detto che è troppo naïve (giusto così, bel momento), o anche una canzone un po’ crepuscolare come Sleeping With a Ghost: suggestionati dalle melodie e dall’impostazione vocale entrambe molto nineties, un po’ ci ritroviamo a riassaporare, in maniera “stripped down”, il sapore dei pezzi più lenti dei Cocteau Twins, o ancora a immaginarci l’esistenza di un universo parallelo in cui sia esistita una Mazzy Star di stampo europeo (siccome siamo di umore giocoso finiamo per inventarcela: “Starry Mazz”).

È quasi contraddittorio, ma la sala si è riempita e al contempo l’atmosfera si è fatta più intima. Una cosa è certa, è tempo di alzare un po’ il volume, e a farlo sono i due Special Friend. Batteria, chitarra e diversi pedali, voce maschile e femminile in egual misura nel mix: oramai lo sapete, ma la considero facilmente una delle migliori formazioni possibili che un gruppo possa avere. E il set è all’altezza del “nostrismo” del setup: l’indie rock con virate noise del duo, di cui sento parlare da un po’ ma che non avevo ancora mai avuto occasione di vedere, è seriamente ipnotico e dal vivo crea un po’ dipendenza. Riprendendo gli stilemi delle frange più sperimentali del rock alternativo degli anni ’90 americani (e forse la batterista Erica Ashleson qualcuno se l’è portato dietro dal Minnesota di cui è originaria), Special Friend li remiscelano per riproporli in un formato minimale ma mai veramente minimalista. I loro due album Ennemi Commun (2021) e Wait Until the Flame Comes Rushing In (2023) offrono un compendio di canzoni in cui l’assenza di basso non si nota mai veramente, tanto l’idea di donare essenzialità alle melodie del chitarrista Guillaume Siracusa è sufficiente a riempire lo spazio, e dal vivo questo piccolo trucco di magia sbalordisce ancora di più. L’ispirazione Yo La Tengo è innegabilmente molto presente ma le canzoni sono comunque varie e spesso molto coincise, riuscendo ciononostante a mantenere la stessa delicatezza sognante e la stessa forza emotiva cruda, specialmente quando entra la nostra amica distorsione. Motel, che non poteva non essere suonata, fa pensare tanto al barretto del nostro cuore quanto a quel Motel 6 apriva le danze a Painful nel lontano ’93; ma c’è spazio anche per capatine in reami di slowcore che coniugano inquietudine e leggiadria, come quello di canzoni come Hard to Explain, che finisce in code di feedback shoegaze di grande impatto; o ancora crescendo oscillanti a due voci come quelli della dolce Bête o ancora della struggente Pastel, piccolo capolavoro indie rock nascosto che in quattro minuti e trenta riesce in qualche modo a suonare come un’intera suite in due movimenti.

Le canzoni sono come noccioline e non stancano mai, ma tutte le belle cose finiscono, comprese le abbuffate di salatini che, a un certo punto, devono fare spazio all’ingresso del dolce con le candeline. Gli onori dell’headliner stasera sono per EggS, una letterale orchestra indie rock (nove persone circa sul palco) il cui unico LP, quell’A Glitter Year uscito nel 2022, ha già quasi un piccolo statuto di culto per i parigini che bazzicano Motel e affini. L’ho finalmente ascoltato la settimana scorsa e ovviamente ha toccato le mie corde: la formula di canzoni semplici ma con una quantità quasi inappropriata di elementi strumentali è ambiziosa eppure porta i suoi frutti: l’ascoltare così tanti fiati, tastiere e chitarre che, in sostanza, suonano composizioni di slacker rock puro e duro, è un po’ come trovare una macedonia adagiata sulla torta alla crema. La proverbiale ciliegina non può mancare ed è l’alternanza di voci, quella maschile del leader della band, Charles Joujoujag, e quella femminile della solita Ashleson, esentata dai suoi compiti batteristici dopo il set precedente: le due voci in botta e risposta danno un retrogusto power-pop al tutto e un po’ ricordano gli anni d’oro dei The New Pornographers. Parliamo con un po’ di gente che è in fibrillazione per vedere EggS, ed effettivamente quando attaccano a suonare si capisce perché: la loro musica è vivace, pulsante, viva, giovanile ma matura: il racconto di un “coming of age” viscerale, suggestivo proprio per il fatto che, dietro alla forma ricca di orpelli e fioriture, la sostanza è semplice e concreta.

Non c’è niente che mi riporti a rivivere ataviche sensazioni adolescenziali quanto la progressione armonica degli ottoni di Still Life, un piccolo omaggio al post-rock che ho amato da ragazzo (quando avevo diciassette anni, pensa un po’) e che colpisce a tradimento dentro a una canzone dalle strummate punkeggianti alla Pixies. Ma il bello della performance luccicante di EggS è che ci sono così tante melodie intense, così tante trovate armoniche, che ognuno può ritrovare le sue personali emozioni perdute dove meglio crede. Uno potrà sentire la voglia di scatenarsi coi ritornelli energetici di canzoni come Local Hero o il sing-along contagioso di Crocodile Tears, un altro si sentirà preso alle budella da bassline funambolistiche (penso a quella dell’intro di Old Fashioned Virtue), e c’è pure chi vorrà lanciarsi in dichiarazioni d’amore come quelle che Joujoujag sputa spassionatamente in pezzi come Certain Smile; i più caciaroni, loro, non potranno esimersi dal notare una buffa somiglianza tra il lick di sax di How Was it Before e una celebre hit dei Men at Work. Tant’è: ognuno è letteralmente invitato (come a un compleanno) a festeggiare a modo suo sensazioni di libertà e spensieratezza che poche cose possono darci: tra queste, il nostro amato indie rock e le serate al Motel.

Due cose colpiscono particolarmente in questo concerto: la prima è che la line-up folta, il palco strapieno e le canzoni tutto sommato semplici, suonate in maniera intensa e al contempo un pochino sbadata, non possono non farmi pensare ai live dei Pavement. Lo stesso cantante degli EggS ha un carisma da rockstar di stampo Malkmus, un po’ dimesso e arruffato. La prima volta che ho pronunciato la parola “Pavement” al Motel la sala ha fatto gesti di religiosa osservanza, quindi mi permetto il paragone. La seconda cosa è che l’atmosfera di festa un po’ cazzara è ai suoi massimi, con tanto di ospiti che montano all’improvviso sul palco (vari membri di En Attendant Ana, come al Noël), cavi che non funzionano, risate e gente che canta nello stesso microfono. Le canzoni inedite, come di consueto, trovano terreno fertile e c’è pure un omaggio a una consuetudine (perlopiù domenicale) del Motel: il blind test, ovvero una partita di Sarabanda in diretta. La fortunata cover è una canzone “che appare nel miglior film di Batman di sempre”: Bad Days dei Flaming Lips. Difficilissimo.

La festa di compleanno è definitivamente sbloccata e riuscita. Le luci sono spente e la pista balla, anche quando finiscono le band. Purtroppo non siamo nella misura di essere tra i più festivi stasera, giusto il tempo di ruzzare un poco, e, mentre salutiamo un po’ di gente, fare gli scemi come di consueto, mentre il DJ set in sala viene imbastito (a spinnare c’è gente interessante tipo i post-punkari piccardi Structures e lo staff di A Certain Radio, che passa sempre roba buona; purtroppo domani si deve ancora faticare e tocca perderselo).

Io e il mio amico partiamo in due direzioni diverse come al solito e mi ritrovo da solo ma, nel mio cuore, non mi sento veramente solo. E mi accorgo che è anche e soprattutto questa la vera ragione che mi porta a mettercela tutta per scrivere qualcosa di godibile che sia il più vero possibile: per riconoscenza verso chi ce la mette tutta per farci sentire bene, uniti, felici. Nella mia piccola misura, il mio diario di bordo non vuole che essere il riflesso della gioia che mi viene regalata da gente convinta, come me, che questa vita meriti di essere vissuta appieno. Alla fine, è il senso stesso di un compleanno, quello di festeggiare la gratitudine di essere al mondo.

Ancora tanti auguri, Motel!

 

En Attendant Ana – Good human beings

En Attendant Ana live @Trabendo, Parigi, 23/03/2024

Se c'è una cosa che apprezzo nella vita, quella è ricevere consigli musicali. Fateci caso: alla metà dei concerti a cui sono andato questo mese suonavano gruppi che non ho scovato io stesso. È una cosa quasi eroica, il fatto che, in un'epoca in cui ci ritroviamo a subire tonnellate di contenuti sonori e possiamo affidare ciecamente il nostro gusto ad algoritmi avanzatissimi e playlist auto-generate di ogni tipo, la trasmissione orale resti una modalità preponderante con cui la gente, nel mondo, scopre nuova musica (certe statistiche darebbero già le app come vincenti, ma voglio credere in un errore metodologico).

Il consiglio musicale, come ogni forma di dialogo, è una piccola arte a sé stante. Non è facile dare i consigli giusti alle persone giuste. In un equilibrio delicato, è un attimo a elargire ad altrui titoli talmente di nicchia che oggettivamente possono piacere solo a piccole percentuali della popolazione, o ancora cose così mainstream da scadere nella banalità. La questione della quantità, se volete, è ancora più sottile: consigliare così tanta roba che non è più processabile, annegare l'interlocutore con una marea di referenze stranianti, è un fenomeno più rischioso di quanto si possa pensare: con alcuni basta superare la soglia delle due canzoni linkate per farsi timbrare in fronte il certificato di cagacazzo supponente, spesso indelebile. Se su questo punto sono personalmente indulgente, lo sono meno quando si parla di concerti. Posso sopportare che mi si consiglino quaranta album e trenta band in un’unica conversazione, ma posso rischiare di irritarmi davanti a quei tipici personaggi che ti dicono con insensato entusiasmo: "Oh, comunque il 6 c'è sto concerto incredibile dei Tizio, devi andarci, e poi l'11 suonano i Caio, imperdibile! E il 18 al concerto dei Sempronio sarebbe da andarci, li ho già visti ma spaccano, sono da vedere!". Davanti al bombardamento di consigli concertistici il mio pensiero di fondo finisce inevitabilmente ad essere sempre lo stesso: "Ma vacci da solo".

Perciò, apprezzo particolarmente chi sa essere parco di codesti consigli, e c'è una persona che incrocio al Motel da mesi che mi dice: "Senti Reric [NdR: mi chiama col mio vero nome, ma lasciamo un po’ di spazio alla fantasia], se c’è un concerto a cui dovresti andare nei prossimi mesi è quello di En Attendant Ana. È veramente ottimo, fidati”. Ogni volta che lo incontro, o quasi, il ritornello è sempre lo stesso. Ma non si disperde, e la cosa mi fa piacere. Perciò decido di ascoltare la band parigina una volta per tutte e in effetti mi piace un bel po’. Mi divoro soprattutto gli ultimi due album, di cui apprezzo grandemente l’energia e la grazia. La musica del quintetto parigino è un indie pop dalla scrittura raffinata e originale, che però non suona mai rileccato ed è anzi estremamente orecchiabile. Soprattutto, pur di trasmettere nella maniera più diretta possibile la sua indole sentimentale, il sound di En Attendant Ana non disdegna mai di cercare soluzioni rocchettare (sono passati quasi sessant’anni, e quante cose escono ancora dai sotterranei di velluto…). Se nell’entusiasmante Juillet del 2020 si arriva quasi ad udire una sorprendente e romantica radice punk rock nella musica sognante della band (la violenza dolce dell’opener Down the Hill è forse l’emblema di questa interessante dicotomia), in Principia del 2023 la formula si ripete ma viene leggermente smussata. L’ultimo album del gruppo riesce a essere meno ruvido del suo predecessore ma, sorprendentemente, ancora più emotivo, con una produzione che pur trovando una nuova rotondità nel sound, non priva le canzoni della loro capacità di colpire direttamente al cuore, con i loro ritornelli dolci e una ritrovata passione per il krautrock che, ora più forte che mai, dà un sapore nostalgico e leggermente psichedelico all’amalgama.

I suoni di En Attendant Ana crescono in me, il consiglio solitario degli ultimi mesi si rivela fondato e centra il punto, perciò prendo il mio biglietto per andare a vederli, senza avere una vera e propria compagnia, al Trabendo (un’altra delle sale parigine importantissime a cui non sono mai riuscito ad andare, più per sfiga che per mancanza di voglia). Ironia della sorte, una sera dal nulla Claire, la fidanzata di quel Maxime che già in passato ho definito “my hardcore punk husband” (chi ha letto il live report dei Pogo Car Crash Control forse lo ricorda), mi dice che anche loro verranno al concerto e soprattutto che ci saranno i genitori di Max, che hanno legami improbabili e inaspettati con un membro del gruppo (roba del tipo: “Ero lì quando era in fasce al reparto maternità”). Vengo perciò invitato a un’insperata uscita familiare del sabato sera alla quale aderisco con entusiasmo: amo andare ai concerti con i miei genitori, o in generale confrontarmi con le generazioni precedenti in termini di musica dal vivo: le prospettive sono sempre ricche e interessanti. Fanculo all’ageismo!

Per correttezza nei confronti dei miei personali dieci comandamenti dei concerti (un giorno ve li scrivo, promesso) arrivo prestissimo ed esploro questo famoso Trabendo, sala modernista e sofisticatamente asimmetrica. Non solo è bella e grande (sold-out stasera!), ma è anche, in qualche modo oscuro, simile alla musica di En Attendant Ana: accessibile a tutti, ma non priva dei suoi spigoli. Anche la formula di A Ghost Column, venuti dall’Inghilterra per fare l’opening act, è simile: musica spigolosa, squadrata ai massimi. Questa sorta di alt-pop che flirta col post-rock, però, mi dà subito l’idea di restare in una terra di nessuno un po’ impalpabile. Freddi come pochi (impressionantemente precisi, questo va detto), gli albionici sciorinano sezioni di musica a volte anche ben ingegnate, ma che a volte suonano solo come un’addizione e non un’equazione. Il risultato è indefinito, come quando non si è riusciti a trovare l’incognita. E fidatevi, avrei eliso volentieri questa critica gratuita ma quando vedo un nuovo fenomeno dell’industria (parrebbe che qualcuno della band sia stato tra i 23091 membri dei Crack Cloud, o che qualcun altro abbia suonato in uno dei 49428 album solisti di Thurston Moore…) che dopo la pubblicazione di un solo singolo si permette di salire su un grande palco con spocchia e supponenza, la cosa mi sento quantomeno di segnalarla. E anche se tutti sapessimo che magari l’album è già pronto e che c’è già qualcuno dietro che investe (perché così sicuramente è), l’essere quantomeno comunicativo con il pubblico è il meno che tu possa fare per rompere la finzione di star suonando solo per i discografici. Se fare da opener per le glorie locali può essere un compito ingrato, non dire una parola fa quasi passare il messaggio che non te ne frega un cazzo di stare lì.

(C’è un altro gruppo inglese recente che si fa tacciare di spocchia per la presenza scenica dimessa: Bar Italia. Tre cose da dire: la prima è che la loro stage presence da gente misteriosa se la sono permessa una volta che una bella mole di materiale esoterico era già stato pubblicato; la seconda è che in confronto alla Colonna Fantasma, Bar Italia sul palco sembrano i Rolling Stones; la terza è che Bar Italia hanno una serie di pezzoni iconici che ‘sti qua se li sognano).

Quando, dopo venti minuti buoni, il primo grazie non è ancora partito, sono già irritato e con in mano una seconda birra (un po’ per sbollire, un po’ per noia) che sicuramente mi porterà a fare un paio di figuracce coi genitori del mio amico. Per fortuna la cumpa arriva e porta dentro la sala un buonumore raggiante (figurarsi, persino dal palco partono trenta secondi di bello shoegaze prima di staccare). I due ragazzi cresciuti sembra che conoscano la metà dei presenti (mia mamma che gira in centro a Firenze mi fa lo stesso effetto), e capisco da dove il mio amico abbia ereditato tutta la sua adorabilità. Ci piazziamo in una postazione comoda (lo slargo diagonale sulla destra, per chi sa), beviamo e parliamo di argomenti ameni come il conflitto intergenerazionale sull’estetica delle pale eoliche, la Toscana e la musica rock, in modo talmente diverso che con i giovinastri che mi sento addosso quell’adrenalina di quando si scopre un ambiente nuovo che ci corrisponde bene. Siamo talmente l’attrazione l’uno dell’altro che il concerto comincia e sembra che siano passati cinque secondi di chiacchierata.

La prima cosa che colpisce di En Attendant Ana è la presenza quasi mariana di Margaux Bouchaudon, la stessa che ho già visto sul palco alle feste del Motel in un assetto molto più discreto. Posta in evidente posizione di frontwoman, allora che io l’avevo sempre vista a fare le seconde voci, la cantante ha una caratura e una leaderistica diverse dal solito, merito anche dell’abito bianco ornato di una ghirlanda giapponese (boh, scusate, non mi intendo di moda) che le conferisce un’eleganza al contempo austera e sbarazzina da Arcangelo Gabriele (boh, scusate, attraverso un momento di confusione religiosa). Poi la musica attacca e non c’è molto da dire se non che è eccellente. Bastano pochi istanti per entrare in una terra di melodie eteree, che si possono afferrare con le mani senza che risultino mai evanescenti. Il riff così rock eppure così sorprendentemente innocente di Flesh or Blood, con i suoi ritmi incalzanti, comincia a far saltellare tutto spettro delle generazioni e gli interventi dei suoni della tromba portano un livello di raffinatezza alla composizione che fa pronunciare più di un “ah ouais” agli astanti, unanimi nel rendersi conto di trovarsi davanti a un gruppo che sa coniugare in maniera speciale la frizzantezza dell’indie a una classe quasi barocca e mai veramente pomposa. Principia, che nonostante i quattro quarti ha quasi una cadenza da valzer viennese in salsa art pop, fa letteralmente ondeggiare il Trabendo (e la Senna è lontana).

Bouchaudon, tra un pezzo e un altro, chiacchiera sempre un poco, e trasmette un’allegria semplice e una gentilezza assoluta che non mi stupisce per niente (ha persino una parola amabile per gli A Ghost Column, figurarsi). Il concerto, è ormai chiaro, ha due parole d’ordine: pochi artifici, tanta sincerità. Le canzoni, per esempio, si susseguono con una naturalezza e una scioltezza splendide senza nemmeno bisogno dell’artificio di imbastire un set pieno di canzoni tutte attaccate e suonate in continuità. E, francamente, ci si trova davanti a un sound talmente coerente e tangibile, nonostante la sua varietà e la sua difficoltà a farsi descrivere, che non passa nemmeno per la testa stare a pensare a radici e influenze. Ovviamente, le eccezioni esistono sempre, e stasera funzionano bene: è una sorpresa spettacolare, ad esempio, quando il quintetto svaria passando senza soluzione di continuità da una cover di chanson française a Teeny Tiny Tyche, una personale reinterpretazione della filastrocca “eeny meenie miney moe” in chiave dream pop; oppure, ci si guarda sorridendoci, un po’ smaliziati ma anche un po’ inebriati, nel ritrovare quell’omaggio smaccato agli Stereolab che sono le doppie voci di Same Old Story (del resto, in Francia, non è veramente possibile evitare il legato di questa band quando si parla di gruppi indie pop recenti, quindi tanto vale andare fino in fondo). La band, insomma, suona con una calibrazione perfetta, e non parlo solo di suoni, volumi e precisioni ineccepibili, ma anche di un equilibrio tra conforto e stupore, tra spinta e rilento, tra humor e dolcezza.

È appena passato uno dei momenti più amorevoli della concercertisca annuale, ovvero l’annuncio della futura paternità del chitarrista della band, e mi ritrovo a pensare: “Sono proprio delle belle persone”. Come leggendomi la mente parte Wonder, con quel ritornello indimenticabile che è: “I’m a good human being, my mother said, and I hope she’s right”. Un instant classic che, dal vivo, riconferma il suo valore come uno dei più bei crescendo della musica recente, e che chiude in bellezza il concerto. Lo show sarebbe già quasi perfetto così, concorda il nostro piccolo capannello composto di tre giovani, un padre, e una madre sicura che la sua collega abbia ragione sulla bontà della figlia. Per nobilitare ulteriormente la performance, l’encore ci regala un’inaspettata cover dei Pogues (I’m a Man You Don’t Meet Every Day) che dà anche quell’ultima nota folkeggiante di cui non sapevamo di avere bisogno.

La musica finisce, non dopo l’annuncio abbastanza roboante di uno showcase di En Attendant Ana al Motel (!) l’indomani. Colui che, proprio in quel bar, mi aveva consigliato caldamente di venire al concerto di stasera mi guarda e mi fa: “Che ti avevo detto?”, e riconosco che un semplice consiglio può far nascere qualcosa di importante. Ma a parte il consigliere misterioso, qui non conosco nessuno perciò poco dopo raggiungo la famiglia di Maxime e, mio malgrado, mi ritrovo a rivestire l’imbarazzante ruolo di accompagnatore che gli amici di vecchia data si chiedono: “Aspetta, lui era un nipote, un cugino forse?”. Proprio io che in questi ultimi tempi un po’ ho fatto l’esuberante, onde evitare figure di merda, mi metto in disparte con Claire e non possiamo fare a meno di sorridere osservando mamma e papà che portano il loro figlio a rivedere chi l’aveva già conosciuto bambino, e ancora continuare a parlare di concerti e gruppi degli anni ‘80. Assistere a tutto questo, mentre le melodie gentili di En Attendant Ana mi vibrano ancora dentro, è come una piccola overdose di tenerezza.

Ogni tanto si ha bisogno di momenti del genere. Quantomeno per ricordarsi che la vita, da queste parti, meriterà sempre di essere vissuta fin quando, vicino a te, resta almeno uno di questi, buoni, esseri umani.

 

Bilderbuch – I segreti degli stranieri

Bilderbuch live @Petit Bain, 27/03/2024

La maggior parte dei concerti a cui vado amo condividerli con quei personaggi matti che sono i miei amici. È bello avere compagnia, limitare al massimo il rischio di sentirsi fuori luogo, godersi la musica e la notte accanto a qualcuno con cui confrontarsi e con cui confrontarsi agli altri. Ogni tanto, però, spunta un’inspiegabile voglia di andare a un concerto da solo. Le ragioni possono essere molteplici, e stasera penso di conoscerle ma non voglio esprimerle. È un’intuizione segreta, implicita, personale.

Stasera al Petit Bain suonano i Bilderbuch, un gruppo che ho la fortuna e il privilegio di conoscere dal lontano 2015, anno in cui il mio amico Paolo fece una mossa di talent scouting che in confronto l’acquisto di Kvaratshelia sembra il rituale prestito di Marco Benassi a una squadra di metà classifica a fine stagione. Chiacchierando del più e del meno con quel ragazzo così alto e così saggio che era Paolo a fine liceo (mentre io ero ancora un pischellino convinto che si potesse ancora suonare in un gruppo post-punk e rivendicarsi “new wave”), venne fuori la questione del miglior album dell’anno e il suddetto mi tirò fuori una perla oscura di pop-rock alternativo austriaco che risponde al titolo Schick Schock. “C’è tutto”, mi fa, “Il pop, il rock, l’elettronica. Pure il rap c’è, pensa te”. Il puppurrì che il mio amico mi aveva promesso non solo non c’era, ma quei Bilderbuch che riuscivano a inserire riff di un’elettricità devastante in mezzo a beat hip-hop e ritornelli di un’orecchiabilità che ha solo Uno su mille tra i gruppi pop di oggigiorno mi sembrarono talmente originali, ben prodotti, appetibili e divertenti che per anni non mi sono spiegato come mai non abbiano avuto un’ascesa europea e/o internazionale simile a quella, che ne so, di quei merdosi dei Maneskin (non mi scomodo neanche a mettere l’accento strano sulla A per quanto poco mi stanno simpatici).

Ad oggi, Schick Schock resta uno dei miei dischi preferiti della decade scorsa e, pure se il materiale successivo dei viennesi non mi ha mai esaltato come quella inaudita collezione di hit, la voglia (e l’impossibilità) di vederli non è mai scemata. Finalmente, per la prima volta quei Bilderbuch fin troppo ingiustamente relegati nel mondo germanofono si sono decisi a venire in Francia. Trovo pazzesco che sia la loro primissima volta in questo paese: se andate su Setlist.fm (il mio alleato più malvagio) a vedere la lista di posti in cui hanno suonato prima di questo show, figurano, oltre che le Isole Fær Øer nel 2017 (quanto spacca il G! Festival!, sembra la versione nordica, quindi con più sostenibilità finanziaria, del Beaches Brew), svariati show in Lussemburgo e già due date in Lichtenstein. A difesa del nostro bel paese, spesso considerato come l’ultima ruota del carro in fatto di accoglienza degli artisti stranieri, possiamo dire con fierezza che anche il suolo italiano, prima del primo concerto in Francia, ha visto i Bilderbuch esibirsi: ben tre volte… e tutte e tre in Alto Adige!

Insomma, l’avrete capito: i Bilderbuch sono un po’ una mia personale fierezza da hipster, un ordigno ancora inesploso che posso rivendicare in caso scoppiasse producendo il conseguente baccano, ed è principalmente per questa piccola e un po’ meschina gelosia che sono da solo stasera. Ci aggiungo il fatto che stamani mi sono svegliato in un albergo Ibis in Piccardia e ho passato la giornata a far contratti in campagna, il che ha la conseguenza che: uno, i miei brutti cenci da after-business voglio tenermeli per me e uscire con gli amici in momenti magari un po’ più cool; due, non ho cazzi di passare una serata di entertainment di gruppo. Ho solo voglia di un’operazione di infiltrazione, acquisizione di informazioni riservate ed esfiltrazione. Insomma, stasera sono un Solid Snake dell’electro-pop, e la mia missione richiede riservatezza.

Riservato, non potrei esserlo più di così: quando entro nella sala gremita, ci metto poco tempo a rendermi conto che sono l’unico che non parla tedesco. Straniero al cubo, mi crogiolo nel mio anonimato estremo ed osservo questo singolare pubblico di stranieri base. Già mi ero fatto un po’ di idee sul pubblico tedesco quando ho visto The Vaccines a Berlino a gennaio, e stasera vengono riconfermate: appassionatissimo di guardaroba (oggi ho il PC aziendale, tocca pure a me), piuttosto ben profumato e a fortissima componente femminile (gruppo “da fiche” anche stasera o effettivo trend culturale?). Non è spiacevole.

Tante domande mi bazzicano per la testa, mentre constato di essere in una situazione estremamente singolare. Una su tutte: Gérard Drouot Productions, il promoter di stasera (controllo il suo sito e vedo che tratta perlopiù nomi internazionali giganteschi, gente tipo Alice  Cooper, Laura Pausini, Pat Metheny…), era al corrente del fatto che l’imponente successo della serata sarebbe stato prevalentemente su un pubblico germanico? Ancora oggi propendo per il no: la loro pagina, giorni dopo, sponsorizza ancora i Bilderbuch come il gruppo che potrebbe cambiare il rock europeo, e anche l’opening act è troppo poco fanservice-istico per convincersi che la serata sia stata concepita apposta per lucrare sugli espatriati della deutsche-sfera a Parigi. La cantante-chitarrista (col suo DJ-suonatore di launchpad) Kässy, con i suoi troppi ascoltatori per avere solo un singolo e col suo videoclip cristallino, sembra invece un prodotto che le alte sfere dell’industria vogliono provare a lanciare a fasce di consumo giovani, piuttosto che tedesche o anche solo straniere o cosmopolite. È hyperpop per le masse, troppo poco estremo, ambizioso o sincretico perché io possa riuscire ad apprezzarlo. Esco a fumare e incontro una viennese che, sconvolta al vedere il “piccolo” Petit Bain, dice che “giù da me i Bilderbuch riempiono le arene”. La breve conversazione di contesto è stata interessante, ma perdere la mia posizione verso l’ultima canzone di un opening set abbastanza mediocre, quello è stato un errore da pollo. Meno male che sono da solo e posso ricalcarmi un posto davanti con la metà della fatica e senza che nessuno ponga giudizi etici sulla mia etichetta.

Quando non solo non hai con chi parlare ma non riesci nemmeno a origliare mezza conversazione, è lì che la solitudine si fa sentire. Per ammazzare il tempo resta solo da ascoltare la musica (alta) che passa prima del concerto, una serie di messaggi subliminali a cui, per noia, penso a dare la mia interpretazione: Gospel for a New Century di Yves Tumor (due volte) come affermazione dell’ambizione dei Bilderbuch di diventare animali da grande festival; Just Dance di Lady Gaga (parte un sing-along) come un occhiolino agli zillennial più nostalgici del passato discotecaro trash degli anni 2000; Paranoid dei Black Sabbath (mi esalto) come dichiarazione di fede all’arte del riff e promessa di rispetto perenne verso gli dei del rock.

Finalmente i cinque Bilderbuch salgono sul palco e, come si poteva facilmente pronosticare, comincia il tedesco visibilio. Gli austriaci sono muniti di due batterie (una acustica e una elettronico-sintetica) ma manco si vedono bene, talmente sono oscurate dalla presenza straripante dei tre uomini davanti: un bassista wannabe cowboy americano ma di evidente estrazione alpina, un chitarrista matto e virtuoso vestito da donna e soprattutto Maurice Ernst, frontman di un carisma superiore alla media di quelli che sono già sopra alla media, un Casablancas in veste simpaticone mitteleuropeo che, con l’occhialone da sole e le vesti leopardate, ci rende suoi prigionieri fin da quando comincia ad agitarsi sui ritmi forsennati di Softpower, esperimento rock un po’ mount-kimbie-istico che dal vivo si riconferma di gran lunga il miglior estratto dall’omonimo EP del 2023 (anche grazie a un riffone devastante a cui perdoniamo di essere stato un po’ ciulato da Bodysnatchers). Che il buon Maurice sia un animale da palcoscenico lo si vede da lontano un miglio, e si dà il caso che stasera sono a quindici metri massimo da lui, perciò non posso che esagitarmi anch’io e godermi questa musica vergognosamente festaiola ridendo al ritmo degli assordanti sing-along che salgono dalla platea in una lingua che mi è incomprensibile.

La cosa più incredibile è che, nonostante il catalogo dei Bilderbuch sia piuttosto ampio, sono proprio le canzoni di Schick Schock a riscuotere più successo, e mi rendo conto che per le genti d’Austria e di Germania dev’essere stato un album di party music quasi generazionale, comparabile a quello che può essere stato un Settle dei Disclosure nel Regno Unito (o un Sorprendente Album d’Esordio dei Cani in Italia). Tutti cantano il testo di quel piccolo capolavoro dance-rock che è Gigolo, mentre io ballo e mi limito al ritornellone, e la stessa cosa si può dire sull’irresistibile Wilkommen in Dschungel, che ho sempre considerato una canzone-manifesto della band (la vita metropolitana selvaggia sembra un po’ un loro leitmotiv), arricchita da una jam lounge psichedelica sulla quale è impossibile non improvvisare un paio di mosse di danza funky step fanfarone. Anche i pezzi di altri album brillano: la mega-hit Bungalow fa vibrare la sala e mi fa ripensare a un’intuizione azzeccata di mio padre che, ascoltandola, ha detto: “Ma sono i figli di Falco”! Ed è vero che l’idea di mettere potenti riff di chitarra su ritmi disco, in effetti, non è nata coi Bilderbuch, ma solo recuperata, forse per ostentare con fierezza l’esistenza di un “österreichisch-touch” fresco tanto quanto la sua ben più conosciuta controparte francese.

Il concerto va avanti tra alti e alti: ogni pezzo ha il suo perché, la performance è pulitissima ma soprattutto l’energia è trascinante, e non in una maniera pacchiana da gruppo in odore di Eurovision, bensì in un modo feroce, trasgressivo, persino un po’ punk rock. Il gruppo non si perde in trucchetti facili, ma anzi osa soluzioni particolari, tra cui spiccano persino un paio di lunghi ostinati, progressivi o simil-kraut, con cui i Bilderbuch fanno respirare il pubblico tra un grande successo o un altro mantenendolo comunque incollato al palco e alle prodezze dei musici. Le danze e le arringhe di Ernst (“Feel the movement”!), su questo sostrato di competenza pop, sono una carica di garra che esplode con un liberatorio stage diving su Maschin. È proprio vero: questo concerto ha tutto, pure la grandiosità del rock per le folle, quello serio, che in un contesto così piccolo riesce a emozionare.

Il concerto è finito ma il pubblico richiede un encore (ovviamente in tedesco). Il cantante ha parlato in inglese fino ad ora e ci tiene a preservare la “kayfabe” di una serata internazionale, chiede di fare quantomeno finta di non essere tutti stranieri in sala e ci regala un ultimo assalto con la follia funk sincopata di Spliff e persino una bella canzone d’amore, Checkpoint (Nie Game Over), che fanno splendere la varietà di registri della band viennese. C’è un unico neo al concerto, che è l’ultimo pezzo: il singolo del 2023 Bluezone, una canzonaccia house-pop piena di sample vocali dozzinali di chiara ispirazione Fred Again (altro artista il cui successo esplosivo negli ultimi anni mi fa scuotere la testa; non mi scomodo a mettere i puntini dopo il nome: quanti sono, due?; ma vaffanculo). Cosa ci incastri questo tipo di musica con il sound potente dei Bilderbuch, non lo so, e vedere che il drop fa saltare grandi e piccini un po’ mi deprime e macchia un concerto sino ad ora ineccepibile.

È quest’ultima piccola delusione, forse, a far scaturire in me una domanda solo a prima vista stupida: perché una fred-againizzazione della band mi disturberebbe così tanto? Alla fine, per quanto io disprezzi quel sound, non si può negare che faccia rima con electro-pop contemporaneo. Poi però, in fila per riprendere il mio zaino al guardaroba, guardo le magliette intorno a me e capisco. Vedendo passare nomi tipo Def Leppard e Kiss mi rendo conto che la grandezza dei Bilderbuch è quella di essere riusciti a rendere ancora attuale e terribilmente seducente il suono, l’attitudine, l’estetica, e tutto ciò che ruota intorno alla parola “glam”. Ostentatori, sopra le righe, selvaggi… eppure chirurgici, orecchiabili, ancora capaci di sperimentare: questi ragazzi viennesi rappresentano un’intuizione che può rimettere in riga le brutte sorti della musica radiofonica europea: riportare in auge la potenza del rock da arena, con tanto di riffoni iconici, ma mantenendo una sensibilità pop spiccata e inserendo tanti elementi della club music e dell’hip-hop alternativi. Forse è questo il modo per riportare della musica dall’energia un po’ sovversiva nelle discoteche e nella parte alta delle classifiche.

Cammino lungo la Senna pensando un’ambiziosa teorizzazione del sound “Neue Glam”, ascoltando Der Kommissar ad alto volume. Non sono scontento di essere da solo, anzi. Ogni tanto, è bello anche tenersi per sé un piccolo segreto.

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Quello di cui non parlo


Non parlo del concerto di Sarab alla Gare Jazz l’8 marzo, non perché non mi sia piaciuto, anzi. Il sestetto parigino, capitanato dalla incredibile cantante di origini siriane Climène Zarkan, è una delle migliori band che io abbia mai visto nel genere delle musiche mediorientali alternative. Chiamarli un gruppo jazz come in tanti fanno sarebbe estremamente riduttivo, vista la quantità di influenze differenti presenti nella loro musica. Ho l’impressione che spesso la critica recente, quando gli si parano davanti musicisti notevoli che suonano musiche di regioni poco rappresentate nelle classifiche occidentali, presi dal panico del (giusto) tabù che attornia ad oggi la dicitura “world music”, buttino in mezzo la parola “jazz” un po’ alla rinfusa. Per carità, nelle ritmiche e strutture della musica di Sarab si può sentire l’influenza della fusion anni ‘70, e nelle sezioni dei fiati si può rivedere l’ispirazione a certe big band “post-swing” tipo la Fire! Orchestra. Ma ascoltate un pezzo come Queen Rast, che quel venerdì sera ha sconquassato la sala: le musiche tradizionali, nell’universo Sarab, vanno spesso e volentieri ad abbracciare anche le aggressive sonorità del progressive rock post-anni ‘80, che ontologicamente sono ormai più vicine al metal che alla musica afro-americana (vengono in mente i tardi King Crimson, quelli di THRAK per capirsi). Insomma, Sarab sono tanto rock quanto jazz, ma inevitabilmente l’etichetta “jazz” permette di vendere molto meglio una proposta musicale “straniera”. È segno della volontà di esotismo dei jazzomani o di una latente xenofobia dei rocker? Forse entrambe, purtroppo.

Perché non parlo del concerto di Sarab alla Gare Jazz l’8 marzo? Uno, perché non ho visto tutto il concerto, ma solo la fine della prima parte del set e l’intera seconda parte, e non me la sento di atteggiarmi a recensore di stocazzo per un concerto che non ho visto nella sua interezza. Di fatto, era soltanto una “night out” e il concerto di Sarab è stata solo una parte dell’avventura che ho vissuto quella sera con i miei amici (in particolare il caro Tommaso, che ha apprezzato la musica, e Théo, che da insider del mondo discografico sapeva che valeva la pena passare a dare un’occhiata). Contrariamente a tutto il resto dei concerti di Life Lately, perciò, non c’è quella legittimità che posso avere nel parlare di un live a cui ho dedicato tempo e spazio mentale nel prima, il durante e il dopo della performance. Ultima, ma non meno importante ragione per cui non mi dilungo più di tanto su questo concerto è che la Gare Jazz è una sala che non amo particolarmente. Esteticamente è una delle più belle in città (location post-ferroviaria, arredamento pieno di tappezzerie suggestive…) ma non ne apprezzo tanto le politiche organizzative, e soprattutto mi irrita la filosofia un po’ snob dell’autorizzare, anzi, fomentare il pubblico a zittire i chiacchieroni, che spesso sfocia in sgradevoli situazioni in cui si sentono più “sssh” che musica, mentre che un basso chiacchiericcio di fondo non disturberebbe più di tanto. Fare un articolo intero in cui per metà del testo parlo male della sala (perché ho il “rant” facile e avrei di che dilungarmi) non mi sembrava cosa, per rispetto dell'artista.

Una parola finale su Sarab, però, la spendo: andatevi ad ascoltare l’EP Qawalebese Tape del 2023 e soprattutto, se avete l’occasione di vedere Sarab dal vivo, non perdetela. Specie nella sua veste live è un gruppo interessante, commovente, virtuoso, sorprendente, potente e anche divertente. Ne vale la pena.

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Non parlo del DJ set di Avalon Emerson al Badaboum del 9 marzo, non perché non sia un highlight gigantesco del mio mese di marzo, anzi. Avalon Emerson è un’artista che adoro. L’ho già vista al Primavera Sound suonare l’album del 2023, & the Charm, e l’avrei rivista poco dopo a Parigi se non fosse che ha annullato la tournée europea (forza e coraggio per la sua malattia ad Hunter Lombard, che suona la chitarra nella band; spero stia bene). Onestamente, & the Charm è uno dei migliori dischi pop di cui io abbia memoria negli ultimi dieci anni: la bellissima favola della DJ che diventa cantante e riesce a coniugare un sound profondamente indie al suo sostrato club non solo funziona, ma è quasi commovente da ascoltare: il disco è pieno di momenti onirici degni di una estasi sulla dancefloor quanto di ritornelli dolci, accattivanti e memorabili. Il concerto è pure lui fantastico, una vera discoteca dei sogni popolata da un pubblico gentilissimo, con cui ho ballato e cantato come un matto accarezzato dalla brezza marina di Barcellona. Ma Avalon Emerson nasce DJ, e dopo tanto tempo che volevo vederla spinnare l’occasione si presenta in concomitanza con l’arrivo di Tommaso che vuole che lo porti “in qualche club parigino dove mettono la musica giusta”. Detto fatto.

Perché non parlo del DJ set di Avalon Emerson al Badaboum del 9 marzo? Semplicemente perché un DJ set in una discoteca è una cosa diversissima da un concerto, o da un set in un festival, e a differenza di questi, che consumo in quantità industriali ogni mese, io di DJ set in discoteca ne sentirò sì e no due all’anno. Non fraintendetemi, amo la club music e anche la cultura club, giusto non ho troppo il fisico. Sono piccole follie che mi concedo abbastanza di rado e che, proprio per questo, vivo in maniera abbastanza estatica e caciarona. Anche se ovviamente vado in discoteca per sentire della buona musica, andare a clubbare per me (come per molti) è un’esperienza che riguarda me e i miei amici quasi più di quanto riguardi la musica stessa: il piacere di superare la barriera, entrare, sentire i bassi, prendere da bere al bar, sentirsi in famiglia in un luogo pieno di gente, ballare, gironzolare, chiacchierare con sconosciuti, è quasi grande quanto il piacere che provoca la musica che sta passando. Scrivere un trafiletto lungo a riguardo della serata rischierebbe perciò di ridursi a un: “Io e i fra abbiamo fatto questo, quest’altro, quest’altro ancora. Ai buttafuori abbiamo detto questo e quest’altro. Abbiamo incontrato un tizio che ci ha detto questo e un caio che ci ha detto quest’altro. Ah, poi c’era anche della buona house-tech per ballare e le transizioni erano fatte molto bene”. Per quanto la serata sia stata lunga e piena di emozioni, perciò, la musica passa in secondo piano. Per questo, perciò, non mi sento di parlare troppo a lungo di un DJ set fortissimo, di cui peraltro ho visto due ore e mezza buone ma non la fine, perché non sarei capace di farlo dando il giusto valore a un’artista a tutto tondo che rispetto enormemente.

Due parole finali, però, le spendo, una sulla venue e una sulla musica. Sulla venue: è bello trovare una serata in discoteca dove non ci hanno troppo rotto le palle su chi siamo, in quanti siamo e a cosa assomigliamo; in sostanza, è bello presentarsi in cinque uomini, tutti con una faccia da giganteschi nerd del punk rock, e non farci giudicare per questo semplice fatto ma anzi voler sentire “che cosa ci piace ascoltare” per vedere se siamo atti a entrare (che ridere Paul che entra in modalità panico e mordendosi le labbra per non dire: “Wipers - Youth of America” risponde: “Il rock e i DJ set”). Sulla musica: ma quanto spinge il remix di Karaoke Song? Avalon, lo sappiamo che sul computer hai già una cartella “Charm Remixes Final”, ti prego pubblica ‘sto capolavoro una volta per tutte, che il rischio è quello che io finisca a chiedertelo nei DM di Instagram ogni tre giorni.

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Non parlo del concerto dei JaJaJaJa al Petit Balcon del 28 marzo non perché non creda che questo gruppo ha un futuro brillante, anzi. I JaJaJaJa sono un gruppo ultra-emergente di Parigi che suona in chiave funky jazz (loro sì, al cento per cento) la miglior musica tradizionale magrebina. I loro membri sono algerini, marocchini o francesi, e il loro sound è semplicemente simpaticissimo: gnawa e poliritmi nordafricani, ma anche grandi successi del pop algerino incontrano il funk più disinibito, in una sequenza di pezzi uno più irresistibile dell’altro (soprattutto Caravan in versione “bled”). E in più hanno un humor molto spassoso, soprattutto quel matto del batterista-cantante (il ruolo più romantico che esista nella musica contemporanea) che finisce ogni pezzo dicendo: “Arigato gozaimasu”. Se li affianco al concerto di Sarab, ci sarebbe quasi da farne un articolo monografico dedicato alle band parigine che mettono in luce i suoni del mondo arabofono qui in Europa, ma non è ancora il momento. In compenso è giusto dirlo: questi quattro ragazzi hanno l’intuizione giusta al momento giusto, e tra linee di sax pazzerelle, bassline contagiose e soli di chitarra particolarmente spettacolari il primissimo concerto dei JaJaJaJa (che onore) dà l’impressione che i ragazzi necessitino di poco, giusto un filo di più di precisione e affiatamento, per poter proporre al grande pubblico una musica che trasmette perfettamente i sentimenti del Maghreb a chi non c’è mai stato e pertanto vive una quotidianità tangente a gente che viene da questa regione (penso che il discorso si applichi al 90% dei bianchi che vivono in regione parigina; il 10% restante vota Le Pen).

Perché non parlo del concerto dei JaJaJaJa al Petit Balcon del 28 marzo? Perché un paragrafone completo raccontando le grandi performance del gruppo in cui suona Taha sarebbe sembrato francamente troppo sospetto, se non addirittura fazioso. Taha, per informazione, è il bassista di due piccoli complessi in cui mi occupo di suonare la batteria. Forma, insieme a me, la sezione ritmica di un gruppo di pop francese sofisticato e di una gimmick-band di hardcore punk vecchio stampo: se a questo aggiungete che spara linee di walking-bass in tre su quattro su scale arabe per sovrapporle a vecchi standard jazz… Beh, siamo davanti a un bassista quantomeno completo, se non talentuoso. Ma è il mio bassista, e disgraziatamente i complimenti li devo chiudere qui. Mettici il fatto che la band è all’alba della sua nascita e non ha ancora nessuna pubblicazione, e la conclusione è semplice: è semplicemente troppo presto per spingersi in uno studio in profondità della loro musica, e non posso nemmeno linkare qualcosa di udibile, cosa che poco si confà col mio stile di articolistica. 

Una parola finale, però, la spendo. E non è né sulla venue, né sull’artista, ma sulla musica in generale. Un universo di nuovi gruppi underground, e chissà, forse i grandi di domani, gorgoglia sotto alle nostre città (a volte anche in superficie, ma perlopiù in cantine e seminterrati). Fare finta di essere talent scout è un hobby divertente, ma non è questo il punto: tutti questi embrioni di musica hanno già emozioni da regalare e, seppur difficilmente reperibili, possono regalare buoni momenti. Con questo non sto invitando i lettori al compito impossibile di andare a tutte le jam e concerti delle micro-sale come quella di stasera, ma quantomeno a non lasciarsi indurre dalla tentazione di ignorare categoricamente chi ti parla del “concerto del suo amico” in una location un po’ oscura. Il mondo è troppo incerto per fare gli snob sulle opportunità che ti possono capitare, e pure se è ovvio che a volte non è detto di trovare grande musica (e parlo per esperienze personali passate) a volte, sorprendentemente, ci si può trovare davanti qualcosa di sorprendentemente nuovo, e stasera è così. Do perciò appuntamento ai JaJaJaJa al futuro, ma non senza consigliare di seguirli a chi è stato stuzzicato da quest’anteprima mondiale. 

Arigato!