Il mese di marzo è stato un mese pieno. Un mese in cui succedono migliaia
di cose, nel mentre che i giorni si susseguono in fretta a un ritmo che non si
capisce se sia forsennato o leggiadro, proprio come raccontava Days dei The
Drums. In questo continuo spostarsi (che sia tra le campagne di Francia o tra i
quartieri di Parigi e dintorni), in questo continuo parlare e confrontarsi con
la gente (che siano agricoltori in villaggi sperduti, gli amici di sempre, o
persone incrociate a una serata fuori) c’è sempre, e per fortuna, la musica. Il
minimo comun denominatore, l’unica costante che dà un senso a questo caos a
volte troppo sparpagliato.
Life Lately, rubrica mensile che ormai a dirla tutta ormai assomiglia quasi
a una rivista, contrariamente a quel che annuncia il suo nome serve più a
raccontare i concerti più interessanti del mese che quel che ne è stato della
mia vita ultimamente (anche se quando scrivo le cose si mescolano l’una con l’altra).
Alla fine, perciò, la rassegna di concerti non è un compendio esclusivo di
tutto quello che ho ascoltato dal vivo, ma solo una lista di concerti di cui
sento di voler parlare in profondità.
Ciò sottintende che qualcosa è stato eliso. E per correttezza vi racconto rapidamente cosa, e perché. Ma nell’appendice, più precisamente in una rubrica che si chiamerà, per ossimorica coerenza: “Quello di cui non parlo”.
(C’è una ragione supplementare e implicita per cui non parlo di tutto: a
questo giro ho trattato un volume di musica live enorme. È anche la ragione per
cui pubblico un articolo sul mese di marzo a metà aprile. A chi potrebbe
chiedermi: “Ma Reric, non potresti giusto scrivere i trafiletti via via che vedi
i concerti così sei già pronto all’inizio del mese successivo?”, rispondo
citando l’intramontabile Gaetano Catanuso: “Chef, sono una testa di cazzo.”
“L’hai detto tu”).
In ogni caso, anche a questo giro portiamo a casa un bel po’ di materiale:
cinque concerti tutti pieni di sorprese, e un piccolo bonus dove racconto tre
artisti incredibili e diversissimi tra loro. Il tutto, ovviamente, da
spiluzzicare come meglio vi aggrada.
Bando alle ciance.
Hoorsees – Di chi è la colpa, del fantino o del cavallo?
Hoorsees live @Point Ephémère, Parigi, 07/03/2024 |
Il concerto del giovedì sera, forse, a questo giro è di troppo. Ho passato i primi tre giorni della settimana a lavorare in campagna, domani viene un amico da Firenze e, presumibilmente, facciamo festa tutto il week-end. Subito dopo ricomincia una settimana folle, sballottolato a giro per i campi di Francia oppure, a Parigi, preso da mille micro-impegni, per lo più musicali, che do già per inderogabili. Potrei starmene a casa, fare scorta di sonno, godermela, ma all’ultimo minuto decido comunque di uscire. La mia coscienza mi chiede se non mi starei un po’ strapazzando, ma le rispondo che no, un concerto come quello di stasera non può andare male. In effetti, raramente una serata si preannuncia al contempo comoda, leggera e inoffensiva come oggi. Tutto concorre nel rassicurarmi: artisti, luogo, compagnia.
Passiamoli in rassegna. Stasera suona un gruppo che, come tante altre band
dell’underground-ma-non-troppo francese, ho già visto a La Ferme Electrique (la
due giorni musicale più imperdibile della regione Île-de-France). Era il luglio
del 2022, faceva caldo e dovevano essere le 19. Tempi spensierati: tutto ciò
che indossavamo erano maniche corte, un sentimento estivo un po’ adolescenziale
e quella sensazione di eccitazione soggiacente che comincia a gorgogliare all’inizio
di una serata di festa che intuisci memorabile. Se invece che a una rassegna di
concerti fossi stato nel cortile della casa di amici con in mano il primo
bicchiere della giornata avrei messo su un classicone tipo un vecchio disco dei
Pavement o al limite degli Strokes. I geniali programmatori del festival fecero
un’operazione simile e in quello slot spensierato misero gli Hoorsees, che
erano reduci della pubblicazione del loro secondo album A Superior Athlete. Di
quel disco e di quel concerto che lo celebrò largamente non posso dire che del bene:
l’indie rock della band, americanissimo, suona slacker, sognante e svolazzino
(merito di un gran gioco di chitarre) come se fosse uscito dalla California
degli anni ‘90 ma anche quadrato, groovy e ruvido (merito anche della voce
cruda del cantante Alexin Huysmans) come se bazzicasse una New York dei primi
2000. La sintesi funziona, e il risultato è un revival che, per carità, non
sarà rivoluzionario, ma non è affatto noioso o fine a sé stesso, anzi:
specialmente suonata dal vivo, è musica di una freschezza notevole: sentimentale,
ma non melensa; danzereccia, ma non ruffiana; emotiva, ma mai veramente triste.
Di quella mezz’ora di Hoorsees a Tournan-en-Brie, contrariamente ad altri
momenti di quella serata, ho un ricordo estremamente vivido, e ripensare a
momenti come la ballata garage Week-end at Bernie’s, il sing-along pop
di Jansport o il groove asciutto della scintillante Drama Kings
mi evoca una sensazione di rara leggiadria che mi mette di buonumore, specie in
questa fine inverno che, con le giornate che si allungano, comincia ad assumere
l’aspetto di un timido inizio di primavera. Da quel luglio di quasi due anni
fa, ho ascoltato molto gli Hoorsees e soprattutto A Superior Athlete,
preferendolo al self-titled del 2021 che, pur proponendo la stessa formula, ho
sempre considerato come sua una versione più acerba, sia nella composizione,
meno avvincente, sia nella produzione, meno immersiva (ma non fraintendetemi, resta
un buon album).
Andare a vedere Hoorsees oggi potrebbe essere una buona occasione di
celebrare la leggerezza, e anche se sono stanco posso già assaporare il
benessere che può scaturire da un concerto sbarazzino a questo modo. Se a
questo aggiungiamo il fatto che il concerto è al Point Ephémère, non vi sono
ragioni per non andare. Situato in una nicchia geografica dall’aspetto sorprendentemente
non-parigino, questo grande bar con la sala musica a mo’ di dépendance è tra i
miei preferiti in città anche solo per l’esotismo del paesaggio: la linea 2 che
passa sopraelevata, in lontananza, assomiglia al Loop di Chicago; l’enclave
del Canal Saint-Martin di notte mi ricorda istintivamente Rotterdam (Make it Happen!). Insomma, questa location un po’ mi emoziona, e mi provoca
sensazioni da spazio liminale post-punk ai margini della metropoli: un angolo
di quiete al bordo del tumulto, di sentimentalismo che sfugge al cinismo
meccanico dei trasporti e della sua flotta di individui anonimi.
Il solito Paul mi raggiunge al volo subito dopo i rituali dell’apertura
cancelli a cui sono tanto affezionato (acquisto prima birra, ispezioni e
sopralluoghi vari, sigarettina tattica). Ci conosciamo appena da settembre, ma
nel nostro suonare insieme, bazzicare bar e concerti siamo già diventati, oltre
che amici, una sorta di "partners in crime". Ho l’impressione che,
con naturalezza e spontaneità, al di là di essere confidenti e compagni di
vita, possiamo affibbiarci con tranquillità l’etichetta di duo piccole pesti
della vita musicale notturna, una sorta di versione indie-punk di Beavis &
Butthead. Nella cumpa, direi che Paul fa anche la parte dell’angioletto buono,
la voce della ragione e della moderazione. “Stasera due birre massimo massimo
eh, mi raccomando tienimi d’occhio te che sei astemio”, gli dico. “Tranquillo,
tranquillo”, risponde ridendo con poca convinzione.
L’opening act sorpresa è una bellissima scusa per ridere e scherzare, fare
un po’ della nostra proverbiale caciara. Presentandosi sotto al moniker
Néoprène (che in realtà è solo il titolo dell’ultimo album del 2023), il
cantante Antonin Appaix ci porta subito uno show di musica pop leggero, divertente
e pieno di “swagger”. Si ha l’impressione che il ragazzo, a parte cantare e
ballare, piazzi qualche raro click sul suo sintetizzatore più per artificio di
scena che per una vera utilità, ma è proprio questa malcelata irriverenza che
rende Appaix simpatico, mentre sfilano uno dietro l’altro pezzi francesi un po’
funky, piuttosto semplici ma tutti gradevoli e dai testi ora un po’ decadenti
(bella l’immagine “Il y a des Toiles d’araignée dans les touches du
synthé”), ora un po’ esotici (l’highlight resta Flashdance, piccola
suggestione italo-disco con tanto di sample di un vecchio film di Nanni
Moretti). La cosa che ci fa estremamente ridere è che ad accompagnare il
cantante c’è solo un altro musicista, un ragazzo che suona i bonghi con un’abilità
e un movimento di bacino degno dei migliori virtuosi del son cubano. Tutto è un
po’ improbabile e perciò un po’ esilarante e un po’ esaltante.
Alla fine di questo assurdo divertissement ci sentiamo come se l’infermiera
ci avesse appena fatto un’iniezione di buonumore. Mi gioco il mio bonus seconda
birra e gioisco nell’incontrare vecchie (e quasi inaspettate) conoscenze di
Stereo Totale che sono accorse anche loro alla serata. Qui ha senso precisare
un elemento fondamentale del concerto di stasera: si tratta in realtà di un
release party. Hoorsees in effetti hanno fatto uscire il nuovo album Big a
gennaio 2024. Ammetto che ancora non l’ho ascoltato ma Paul, che oggi stesso gli
ha dedicato qualche istante, mi dice che è un disco indie-rock orecchiabile,
con chitarre dal suono molto anni ‘90, e perciò mi aspetto qualcosa in
continuità con i lavori precedenti. Immaginate perciò la mia sorpresa nel
sentire, appena i quattro montano sul palco in maniera inaspettatamente
sfarzosa (molto bella la proiezione con il logo Hoorsees e un’immagine notturna
sulla circonvallazione), un suono prepotentemente stadium rock e la bassista
Zoé Renard che è diventata l’indiscussa leader canora del gruppo.
In effetti, la band è cambiata, e per quanto questa constatazione possa
essere spaesante attizza anche la mia curiosità, in questo momento che ho atteso
tutta la giornata, il momento in cui posso dimenticare la stanchezza e
abbandonarmi nel suono. Provo perciò a concentrarmi sulla nuova musica degli
Hoorsees ma bastano pochi minuti a farmi aggrottare le ciglia, girarmi verso il
mio compare e dirgli: “È normale che si senta così?”. In effetti, nonostante
dei buoni suoni di chitarra, il basso è parecchio messo in avanti, ma
soprattutto la batteria ha ricevuto un trattamento fonico completamente
incoerente con quello che ricordavo del gruppo: un suono reverberato, imponente,
per l’appunto da stadio, di cui l’elemento più emblematico è un rullante
ingordo di gating che non sfigurerebbe in accompagnamento a Jon Bon Jovi (e
che, sui fill più spinti, fa quasi male). Il concerto avanza e di non
riconoscere le canzoni mi starebbe anche bene, ma di non riconoscere proprio il
sound della band mi fa storcere il naso perché per come suonano, queste canzoni
sembrano davvero concepite per un’arena piena di giovani con la lanterna del
cellulare accesa, più che per una sala celebre per la sua programmazione indie
rock. Sarei quasi pronto a fare una cosa che a Parigi non succede quasi mai:
lamentarmi del fonico.
Lamentarsi del fonico è una delle attività preferite di noi italiani,
nonché una delle cose più piacevolmente snob che si possano fare nella vita. Da
quando vedo concerti a Parigi non mi capita quasi mai di farlo, ma stasera sono
abbastanza allibito al vedere quegli Hoorsees che mi avevano regalato gioie
estive e post-adolescenziali suonare come un pomposo album della peggiore parte
di carriera dei The Vaccines (quei Vaccines trattati a novembre che, quantomeno,
hanno un sound sì da stadio ma coerente con la loro presenza scenica e con le
composizioni, a differenza dei parigini di stasera che sono abbastanza impalati
e continuano a suonare riff anni ’90 fuori dal loro contesto). Poi una domanda
mi sorge spontanea: è davvero colpa del fonico? Mi rendo piano piano conto che
i brani sono abbondanti di “forbidden
beat” (i sedicesimi sull’hi-hat che si accettano una sola volta a concerto) e
che hanno delle smarmellature sonore che non possono non essere state studiate
a tavolino per rendere felici gli ammiratori dei pop alternativi più
radiofonici di oggigiorno. Ebbene sì, sto assistendo controvoglia a una svolta
degli Hoorsees che non mi piace granché.
Ma chi mi legge sa che sono disposto a perdonare le svolte, finché
quantomeno la performance resta gradevole e sensata con quello che il pubblico
si può aspettare. Quante volte, del resto, vado a vedere band di cui non mi
piacciono gli ultimi lavori (vedasi ad esempio i Pogo Car Crash
Control). Il gruppo di stasera non fa nemmeno quello: A Superior Athlete è come
se non fosse mai esistito ed è fuori discussione che i quattro si prodighino in
canzoni di quel gioiellino, nella loro performance esageratamente breve e
sparagnina (basta bazzicare un paio di webzine francesi per notare che non sono
l’unico che ha avuto da ridire riguardo alla durata, a riprova che non sto
richiedendo eccessivo fan-service).
Il concerto finisce in maniera un po’ insoddisfacente, e il sentimento di
leggerezza che cercavo non sono proprio riuscito a trovarlo. Con l’avvallo di
Paul, bevo un paio di bicchieri di troppo, e cerchiamo la leggiadria che la
musica non ci ha dato in conversazioni con persone che ci fa piacere vedere o
conoscere, finendo decisamente tardi per poterci illudere che la serata sia
stata rilassante, ma quantomeno non frustrati. Il giorno dopo, in un rarissimo
evento di salvifico smart-working (frutto di una previdenza che non sapevo
neanche di avere), mi decido comunque a dirimere una volta per tutte la
questione dello strano concerto di ieri e ascolto Big. In effetti, il sound che
mi ha fatto apprezzare gli Hoorsees due anni fa si sente un po’ di più che
nella versione live, le chitarre sono effettivamente pulite, belle e coerenti,
e i momenti orecchiabili non mancano. La produzione troppo densa però stona con
quella semplicità che nei lavori precedenti del gruppo rendeva le composizioni
brillanti. Una così grande volontà di creare impatto sonoro termina per
provocarmi l’effetto opposto, che è quello di rendere l’amalgama molto più
prevedibile e quasi affatto memorabile, a tratti persino stantia. Ci sono
canzoni che avevo apprezzato un minimo in concerto, tipo Presidential Holiday che un po’ suona come un b-side dell’album precedente (i suoni sono
però eccessivamente stilizzati), ma anche tante, troppe scelte che trovo
discutibili sul nastro quanto dal vivo, tipo No Vacation che sembra
quasi un tentativo di sing-along pop-punk fallito (“‘Cause I’m in too deep…”) o ancora Ikea Boy, quella capatina che mi sarei evitato nel reame dello shoegaze per le
masse (a cui peraltro la voce di Renard si sposa tanto bene, ma il riffing del
gruppo niente affatto).
Insomma, la nuova veste degli Hoorsees, che oltretutto sembra avere un’ambizione
sfrontata di radiare le sue versioni passate, proprio non mi convince, e il
primo concerto di marzo termina ad essere la mia prima recensione veramente
negativa.
Forse avrei preferito lamentarmi del fonico.
DIIV – Rilascio lento
DIIV live @Le Trianon, Parigi, 10/03/2024 |
Ogni quattro mesi circa, il mio amico Tommy monta a Parigi da Firenze per
venirmi a trovare, fare un po’ di turismo, mangiare bene e vedere un concerto
con me. È un rituale che ormai si è praticamente ufficializzato e ne sono
contentissimo, soprattutto perché per me è il modo di conoscere meglio artisti
di una certa importanza che non ho mai approfondito abbastanza. Tommaso in
fatto di musica ne sa più di me, e ne è la prova il fatto che, a differenza
mia, lui scrive su vere pubblicazioni musicali (ma i veterani sanno che ha
scritto anche su Stereo Totale e che, in assenza di linea editoriale, ne ha
approfittato per scrivere le cose più volgari mai viste su questo blog; ti
voglio bene Tommy).
Se a novembre è stato il turno dei Fucked Up, gruppo con cui comunque avevo
già avuto un vissuto, a marzo tocca ai DIIV, compagine di rock alternativo newyorkese
che ho sempre vissuto come qualcosa che “è lì” ma che non ha mai stuzzicato più
di tanto il mio interesse. Lo ammetto, forse c’entra qualcosa l’influenza del
terzo membro del nostro trio infernale, Paolo, che al Primavera Sound del 2022
ha letteralmente fatto un’operazione di lobbying per convincermi a non seguire
Tommaso al loro show. È un classico e non c’è niente di scandaloso: i clash
orari a quel festival sono numerosi e frequenti e i gruppi di interesse possono
orientare le scelte dei singoli. Quell’anno, la promessa di riposare le membra
stanche seduti sulle gradinate dell’anfiteatro, rivedere gli Idles e fare il
bilancio sui loro ultimi quattro anni di carriera (li vedemmo in un contesto
molto più intimo nel tour di Brutalism, circa 2018) sarebbe bastata a
convincermi, ma Paolo ci mise del suo con i canonici: “Lascia fare i DIIV,
canzoni lungagnone, monocordi, tutte uguali… Musica per quelli che si esaltano
con le storie di disagio e la moscezza annessa”.
Cosa ci sarà di vero e di falso in questa lapidaria descrizione, sono curioso di vederlo. Così come sono curioso di vedere un gruppo che altri (penso al mio amico Alessandro, un tempo anche lui nel novero degli Avengers di Barcellona) mi dipingono come “Gruppo con la G maiuscola”. Tommaso, dal canto suo, è curioso di vedere il vecchio Trianon che, oltre ad avere un gran bel comparto suono e luci, è forse la sala medio-grande più esteticamente d’impatto di tutta la città. Come ho già potuto raccontare, il pavimento di questo teatrone ottocentesco è particolarmente sensibile ai movimenti del pubblico e ondeggia insieme alla folla. È una cosa più adrenalinica che inquietante da vivere, e quando l’ho raccontato al mio amico fiorentino la cosa l’ha affascinato al punto che ha deciso che non poteva non fare l’esperienza. Perciò eccoci qui, ognuno con le sue aspettative, speranze e curiosità, a vedere i DIIV, peraltro leggermente in hangover dalla sera prima in cui abbiamo fatto un po’ i matti in discoteca con un DJ set di Avalon Emerson (leggasi “Quello di cui non parlo” per una breve descrizione del suddetto). Tommaso mi conferma che l’hangover è lo stato giusto per ascoltare un concerto dei DIIV. Effettivamente, da quello che ho ascoltato, me la sentirei di confermare.
In effetti, mi sono comunque preparato un minimo alla serata, recuperando gli
ultimi due album Is the Is Are (2016) e Deceiver (2019). Sarà che li ho
ascoltati distrattamente mentre mi dedicavo ad attività da adulto tipo bazzicare
Excel e scrivere contratti, ma li ho trovati entrambi innegabilmente belli e al
contempo preoccupantemente poco impattanti a livello personale. Le chitarre e
le voci hanno sì testura, ma in un modo sobrio che non mi fa esplodere il cuore
di emozione come negli shoegaze più riusciti; le sezioni ritmiche sono precise
e hanno i suoni giusti, le linee di basso (specie quelle dei primi album, di
forte ispirazione krautrock) originali e intense, eppure non riesco mai a sentirle
veramente rimbalzare sulle pareti dei miei sentimenti. Il risultato finale è
che quei tre/quattro ascolti dei dischi dei DIIV che faccio nelle settimane
prima del concerto mi scivolano un po’ addosso e, se magari capisco
completamente il fascino e il successo del gruppo a livello mondiale, fatico a
comprendere come mai, ai primi ascolti, la loro musica non riesca a penetrare
la mia corazza. In compenso i due singoli dell’album in uscita, quel Frog in
Boiling Water previsto per maggio, li ascolto in compagnia di Tommaso e li
trovo molto più seducenti. Forse certe cose arrivano al cuore più facilmente quando
sono condivise.
E in effetti, sono contento di condividere il week-end con il mio amico. Questa
domenica, girovagare insieme per la bassa montmartriana e prendere una birra
terapeutica (unica della serata) al bar dei cinesi è un bel momento di amicizia
e prossimità, di quelli che vanno coltivati e avere cari; entrare in quel tempio
della musica che è il Trianon e vedere il mio amico, un omone grande e grosso,
con gli occhi di un bambino davanti a un negozio di caramelle, è anche quello
un momento felice e memorabile. Pure l’opening act è un simpatico piacere
condiviso: la proposta di stasera è l’indie pop della belga Noa Lee, che con
classe fiamminga apre le danze portandosi dietro un gruppo di musicisti dalla
precisione chirurgica che riescono a far brillare al meglio l’ottima mezz’ora
di canzoni del recente Airship (2023). Lee ha una bellissima voce, che coniuga
leggiadria e attimi di potenza, e la sua maniera di comporre riesce a
riflettere bene questa alternanza. I brani perciò, sono sì un po’ sofisticati, ma
hanno una certa immediatezza nel saper proporre l’immortale formula del diavolo
e l’acquasanta, allungando al pubblico, tra una jam di sintetizzatori ambient e
soliloqui canori accompagnati da strumentali dark-funk (come la cupa Silver),
sezioni smaccatamente alternative rock (come nella sferzante After Years)
o ancora ritornelloni dream-pop belli “punchy” (memorabile quello di Needle).
Insomma, la mezz’ora di Noa Lee è un piacere per le orecchie e ci mette in un
buono stato di quiete mentre, in un Trianon gremito, il sold-out comincia a
farsi sentire.
Tutto è pronto per l’arrivo dei DIIV e, nonostante non abbia nessuna vera
aspettativa per il concerto che sta per arrivare, sento arrivare come un
sentimento di sacralità nell’aria. Tommaso mi ha già parlato del concerto di
Barcellona nel 2022 come di una della cose più sensazionali che abbia mai
visto, e perciò mi calo anch’io in un’autosuggestione ritualistica. E in effetti,
quando lo schermo sopra al palco propone un messaggio parodico,
pseudo-scientology, che promette un’esperienza ultraterrena e rivoluzionaria,
annunciando con solennità l’arrivo dei DIIV, l’immersione in questa cerimonia
trasformativa si fa collettiva. Cominciano le visual, i newyorkesi attaccano a
suonare e appena arriva la distorsione di Like Before You Were Born,
porca vacca, capisco. Il muro di suono della band non si vuole estremo e
sconvolgente come quello dei gruppi shoegaze tradizionali, ma è al contrario
gentile, una carezza triste che forse avevo bisogno di vedere in prima persona
per capire. E pure le melodie, che di primo impatto avevo considerato un po’
anonime, dal vivo assumono un’altra memorabilità onirica. Una canzone come Under the Sun per convincere appieno richiede un abbandono che seduto sulla
scrivania non ero stato disposto a dare, ma che ora, al Trianon, è arrivato per
effetto di soggiogamento.
A partecipare alla potenza di questa astrazione nel suono c’è anche l’aspetto
visivo dello show che è estremamente curato: ogni canzone è accompagnata o dal
suo videoclip, o da materiale videografico filmato dai musicisti stessi:
snapshot dell’America profonda, immagini di vita quotidiana, incarnazione dell’amicizia
in formato 16:9, e così a andare. Ai concerti a cui vado di solito questo tipo
di direzione artistica è pressoché inesistente e mi fa piacere vedere qualcosa
di diverso. Paolo che è una malalingua direbbe che è arte da fannulloni, o
disagiati, o entrambi, e vedrei una parte di verità a quello che dice ma non
posso negare che l’apporto del video alla musica funziona bene, specie per
promuovere i pezzi del prossimo album che, col testo in formato karaoke,
riscuotono tanto successo quanto i brani storici. Brown Paper Bag, che è
forse il pezzo più tradizionalmente shoegaze della band, mi fa un effetto
my-bloody-valentine-iano, e il suo video amatoriale in stile busta di plastica
di American Beauty cattura l’occhio e regala attimi di non convenzionale
bellezza; Soul-net, col suo riffing inquieto, la carrellata di immagini
di un finto sito web cospirazionista e i deepfake dei quattro DIIV che parlano
mossi dall’IA, riesce davvero a comunicare un sentimento di difficile
ancoramento nelle derive della società contemporanea. Niente male, devo dire,
anche il finto messaggio promozionale della premiata ditta Soul-net che
promette pace e prosperità all’auditorio (con tanto di pubblicità subliminali
di fast food et similia).
Una malalingua potrebbe dire che le immagini servono a distrarre dalle
canzoni lente e un po’ monocordi (che però mi stanno completamente
trasportando; altro concerto in cui lentezza e ripetitività mi hanno colpito
così forte nell’anima?, i Low), o ancora a oscurare una presenza scenica un po’
dimessa, per non dire mogia. Presto detto, i DIIV dirimono ogni dubbio a
riguardo e mettono in mezzo al lotto anche alcuni pezzi più energici, tipo Incarnate Devil, col suo basso sconquassante e gli assoli di chitarra a ruota libera
che hanno quasi un’epicità heavy metal, o ancora Blankenship che
finalmente sblocca l’“effetto catamarano” del Trianon, il cui pavimento comincia
a tremare sotto ai piedi di un pubblico esaltato, al ritmo di uno dei pochi
riff della band ad avere una vera cattiveria grunge. Stesso effetto, poi, per
la canzone con cui la band decide di salutarci, ovvero Doused da Oshin
(2012) (il “vero” album di culto dei DIIV, mi dicono gli esperti), che con le
sue chitarre effettate vola come una farfalla e punge come un’ape. Dopo un’ora
e mezza di musica praticamente perfetta e poesia in immagini, il pubblico è
unanime nel decretare che il concerto di stasera è stato glorioso. Era da tanto
che non vedevo un tale trionfo.
Passano un bel po’ di giorni e nonostante pensi spesso al concerto dei DIIV
come a un evento straordinario, continuo ad ascoltarli pochissimo. L’altro
giorno sto chiacchierando con un amico francese che a un certo punto dice: “Sai
che sto ascoltando molto i DIIV in questo periodo?”. E io: “Ah, bon?” “Mi c’è
voluto tanto ad entrare. Ma la loro musica è così ‘juste’”. La parola “juste”
in francese ha varie accezioni e in questo contesto, il mio amico intendeva
ovviamente che è musica “precisa”, “ben calibrata” etc. Ma mi fermo un attimo a
riflettere sulle sue ambivalenze, e al significato di “giusto” in
termini assoluti. Quando torno ad ascoltare i DIIV provo sempre un po’ di fatica perché è
musica che, effettivamente, descrive in maniera estremamente vivida il dolore,
la bellezza e le loro reciproche relazioni. Nell’epoca che viviamo, la
banalizzazione di entrambi questi fattori della vita umana ha raggiunto il suo
parossismo, e portare avanti il messaggio che la vita è bella anche perché è
dolorosa, e viceversa, è un atto di coraggio che si può definire “giusto” anche
e soprattutto eticamente. Per quanto sembri banale, è un messaggio raro,
religioso, faticoso. Perciò ascolto i DIIV a piccole dosi, provando dentro allo
stomaco le più dure sensazioni di difficoltà che hanno attanagliato i grandi
pensatori del bene e del male.
Qualcosa è scattato e ora capisco la grandezza di questa musica. Piano
piano.
Les 17 ans du Motel (EggS,
Special Friend, La Frange) – RSVP, Rêvez S’il Vous Plaît
EggS live @Point Ephémère (Les 17 ans du Motel), Parigi, 19/03/2024 |
È da settembre scorso che scrivo di concerti e devo ammettere che,
saltuariamente, mi capita di chiedermi perché lo faccia. Ognuno ogni tanto ha i
suoi dubbi esistenziali, e il mio dubbio principe è sempre il solito: ma a chi
interessa di leggere un wall-of-text ultra-personale, in lingua italiana, in cui si parla di gruppi che hanno suonato a Parigi? La risposta è semplice: a
volte, a pochissima gente. Detto ciò, provo sempre lo stesso piacere nello
scrivere e nell’accumulare su Blogspot le sensazioni che ho vissuto grazie alla
musica dal vivo, e sono contento anche solo di poter avere uno spazio intimo ma
condiviso in cui accumulare storie ed emozioni che, per quanto di riguarda,
meritano di essere conservate. Quando scrivo, perciò, non mi curo tanto di
questioni del tipo “da quanta gente” e “in che maniera” vengano letti i miei
articoli, visto che alla fine della fiera non è quello l’obiettivo finale.
Mentirei, in compenso, se dicessi che sono questioni alle quali non penso mai.
Quando clicco sul bottone “Pubblica” e i miei scritti finiscono sulla pubblica
piazza, è ovvio che vengo sfiorato da pensieri del tipo: “Le persone in
questione leggeranno?”, “Riceverò un messaggio a riguardo?”, “Qualcuno si
accorgerà del dettaglio che ho voluto annotare?” e simili. E siccome non sono
San Simeone lo Stilita, ogni tanto mi piace anche scendere dalla colonna per
forzare un poco pochino la mano: taggare le persone in questione, mandare un
paio di messaggini se pare cosa, oppure far scivolare un: “Hey, scusa, mi
chiedevo: ma hai letto quella cosa in italiano…” quando incrocio chi, da sopra
al palco, mi ha ispirato a scrivere.
A volte il risultato sono un paio di parole gentili e bei sorrisi (ed è un vero piacere), a volte il silenzio radio (e non me ne frega nulla). Poi, ogni tanto, può capitare quell’articolo che un pochino ti cambia la vita. Ecco, se finora ce n’è stato uno, quello è il live report del Noël du Motel. Chi l’ha letto ricorderà forse il racconto di una serata verso Natale in cui, un po’ a caso, sono finito a vedere e ad apprezzare fortemente vari gruppi appartenenti al microcosmo del Motel, bar musicale dell’undicesimo arrondissement. Sia chiaro, Le Motel è un localino splendido, dallo spirito indie straripante, rigoglioso di piccole attività culturali e abbastanza attivo nella promozione di eventi adiacenti al rock alternativo in quel di Parigi. In tanti, dopo aver letto che a dicembre non avevo alcuna idea di cosa e dove fosse questo luogo mi hanno chiesto: “Ma davvero?”. Questo per dire che, per forza di cose, forse alla fine sarei comunque arrivato al Motel e ne avrei apprezzato le serate. Va detto che, però, nessuno prima di quell’articolo aveva accolto in maniera così calorosa le mie parole e, di conseguenza, diverse persone legate al Motel che si erano inaspettatamente ritrovate nelle mie righe mi hanno riservato una simpatia e una dolcezza rare, che hanno marcato i miei inizi di frequentazione del bar al quale oramai, dopo pochi mesi, sono già molto affezionato.
Che cosa sia significato per me passare del tempo al Motel nei primi mesi
dell’anno ne parlo in un paragrafo nell’introduzione di Life Lately di gennaio,
uscito a inizio febbraio. Di quel che è venuto dopo potrei dire tante cose ma
mi limito a citare un solo e unico evento, che trovo troppo importante per
ometterlo: a metà marzo ho vissuto il coronamento di questo bellissimo e
reciproco affetto, venendo invitato a fare una serata di DJ set (non sono un
DJ). Ancora mille grazie allo staff del locale che mi ha fatto venire a passare
per ore la musica che amo: troppo gentili (e un po’ coraggiosi). È successo il
16 marzo e per me è stato un momento magico. Oggi è il 19 marzo e, guarda un po’,
è il momento di un altro grande evento targato Le Motel, un concertone di
compleanno in quel Point Ephémère di cui ho già raccontato il fascino nel live
report sugli Hoorsees di cui sopra: impossibile non andare.
(Tommy me ne vorrà perché stasera sono venuto qui invece di andare a vedere
i Botch, come lui avrebbe consigliato. Mi dispiace, amico mio: per quanto io
ami il punk, stasera ho troppo amore dentro di me e non tira aria da
crowdkilling).
Io e il fido Paul arriviamo di buon’ora all’FMR (ormai habitués, possiamo
permetterci anche di chiamarlo così). La serata è piena di simpatiche facce
familiari e di gente che apprezzo e che mi apprezza (inserire emoji sorridente
attorniata di cuori), nonché la buona occasione per scusarmi con le bariste che
si sono sorbite le mie peggiori boiate qualche giorno prima (mi sento un po’ in
colpa per aver letteralmente urlato svariate canzoni di Lio in chiusura). La
line-up è, al solito, molto stuzzichevole: contrariamente a quella di dicembre,
che era una serata a tre gruppi orientata su una sorta di addolcimento
progressivo della musica (coincidente con la mia personale apertura alla magia
del Natale), stasera ci sono sempre tre act ma sono stati disposti in un
crescendo di adrenalina che poi è un po’ quello di tutti i compleanni. Ancora
un volta, ho il piacere di venire a scoprire tre artisti underground. Stavolta
però, siccome i giorni precedenti ero troppo occupato prima a scaricare canzoni
italiane da Soulseek e poi a smaltire la mia pessima sbornia di entusiasmo,
vengo più a scatola chiusa del solito. Mi scuso perciò in anticipo dei possibili
errori di setlist (posso pur sempre giustificarmi dietro alla scusa che c’è una
caotica atmosfera di festa).
Come una buona serata indie-rock comanda, si comincia da un act (quasi)
acustico. La cantante Zoé Seignouret è già da qualche anno che usa il suo
moniker da singer-songwriter LaFrange per pubblicare la sue composizioni originali
(una rara eccezione è la sua splendida cover di California; sì, la sigla
di The OC). Il suo sound minimalista è una celebrazione di uno stile di
scrittura estremamente intimo che ad ottobre scorso si è concretizzato nel
disco Nobody Else Will Ever See Me Naked di fine 2023. Stasera LaFrange porta
sul palco la sua voce e chitarra condite da un elemento inedito, un suonatore
di synth che disegna, improvvisandolo (!), un accompagnamento ambient che si
sposa benissimo con le canzoni della Frangia più dritta di Francia. Tutte le
canzoni sono gradevoli e semplici ma anche sensibili e profonde e hanno la
qualità principale di suonare, nonostante l’essenzialità del formato, decisamente
dream pop. Prendasi per esempio il romanticismo di Stockholm, canzone
che LaFrange stasera decide di rivendicarsi anche se qualcuno le avrebbe detto
che è troppo naïve (giusto così, bel momento), o anche una canzone un po’
crepuscolare come Sleeping With a Ghost: suggestionati dalle melodie e
dall’impostazione vocale entrambe molto nineties, un po’ ci ritroviamo a
riassaporare, in maniera “stripped down”, il sapore dei pezzi più lenti dei
Cocteau Twins, o ancora a immaginarci l’esistenza di un universo parallelo in
cui sia esistita una Mazzy Star di stampo europeo (siccome siamo di umore
giocoso finiamo per inventarcela: “Starry Mazz”).
È quasi contraddittorio, ma la sala si è riempita e al contempo
l’atmosfera si è fatta più intima. Una cosa è certa, è tempo di alzare un po’
il volume, e a farlo sono i due Special Friend. Batteria, chitarra e diversi
pedali, voce maschile e femminile in egual misura nel mix: oramai lo sapete, ma
la considero facilmente una delle migliori formazioni possibili che un gruppo possa avere. E il set è all’altezza del “nostrismo” del setup: l’indie rock
con virate noise del duo, di cui sento parlare da un po’ ma che non avevo
ancora mai avuto occasione di vedere, è seriamente ipnotico e dal vivo crea un
po’ dipendenza. Riprendendo gli stilemi delle frange più sperimentali del rock
alternativo degli anni ’90 americani (e forse la batterista Erica Ashleson qualcuno
se l’è portato dietro dal Minnesota di cui è originaria), Special Friend li
remiscelano per riproporli in un formato minimale ma mai veramente minimalista.
I loro due album Ennemi Commun (2021) e Wait Until the Flame Comes Rushing In
(2023) offrono un compendio di canzoni in cui l’assenza di basso non si nota
mai veramente, tanto l’idea di donare essenzialità alle melodie del chitarrista
Guillaume Siracusa è sufficiente a riempire lo spazio, e dal vivo questo
piccolo trucco di magia sbalordisce ancora di più. L’ispirazione Yo La Tengo è innegabilmente
molto presente ma le canzoni sono comunque varie e spesso molto coincise,
riuscendo ciononostante a mantenere la stessa delicatezza sognante e la stessa
forza emotiva cruda, specialmente quando entra la nostra amica distorsione. Motel,
che non poteva non essere suonata, fa pensare tanto al barretto del nostro
cuore quanto a quel Motel 6 apriva le danze a Painful nel lontano ’93; ma c’è
spazio anche per capatine in reami di slowcore che coniugano inquietudine e
leggiadria, come quello di canzoni come Hard to Explain, che finisce in
code di feedback shoegaze di grande impatto; o ancora crescendo oscillanti a
due voci come quelli della dolce Bête o ancora della struggente Pastel,
piccolo capolavoro indie rock nascosto che in quattro minuti e trenta riesce in
qualche modo a suonare come un’intera suite in due movimenti.
Le canzoni sono come noccioline e non stancano mai, ma tutte le belle cose
finiscono, comprese le abbuffate di salatini che, a un certo punto, devono fare
spazio all’ingresso del dolce con le candeline. Gli onori dell’headliner
stasera sono per EggS, una letterale orchestra indie rock (nove persone circa
sul palco) il cui unico LP, quell’A Glitter Year uscito nel 2022, ha già quasi
un piccolo statuto di culto per i parigini che bazzicano Motel e affini. L’ho
finalmente ascoltato la settimana scorsa e ovviamente ha toccato le mie corde:
la formula di canzoni semplici ma con una quantità quasi inappropriata di
elementi strumentali è ambiziosa eppure porta i suoi frutti: l’ascoltare così
tanti fiati, tastiere e chitarre che, in sostanza, suonano composizioni di
slacker rock puro e duro, è un po’ come trovare una macedonia adagiata sulla
torta alla crema. La proverbiale ciliegina non può mancare ed è l’alternanza di
voci, quella maschile del leader della band, Charles Joujoujag, e quella
femminile della solita Ashleson, esentata dai suoi compiti batteristici dopo il
set precedente: le due voci in botta e risposta danno un retrogusto power-pop al tutto e un po’ ricordano
gli anni d’oro dei The New Pornographers. Parliamo con un po’ di gente che è in
fibrillazione per vedere EggS, ed effettivamente quando attaccano a suonare si
capisce perché: la loro musica è vivace, pulsante, viva, giovanile ma matura:
il racconto di un “coming of age” viscerale, suggestivo proprio per il fatto
che, dietro alla forma ricca di orpelli e fioriture, la sostanza è semplice e
concreta.
Non c’è niente che mi riporti a rivivere ataviche sensazioni adolescenziali quanto la progressione armonica degli ottoni di Still Life, un piccolo omaggio al post-rock che ho amato da ragazzo (quando avevo diciassette anni, pensa un po’) e che colpisce a tradimento dentro a una canzone dalle strummate punkeggianti alla Pixies. Ma il bello della performance luccicante di EggS è che ci sono così tante melodie intense, così tante trovate armoniche, che ognuno può ritrovare le sue personali emozioni perdute dove meglio crede. Uno potrà sentire la voglia di scatenarsi coi ritornelli energetici di canzoni come Local Hero o il sing-along contagioso di Crocodile Tears, un altro si sentirà preso alle budella da bassline funambolistiche (penso a quella dell’intro di Old Fashioned Virtue), e c’è pure chi vorrà lanciarsi in dichiarazioni d’amore come quelle che Joujoujag sputa spassionatamente in pezzi come Certain Smile; i più caciaroni, loro, non potranno esimersi dal notare una buffa somiglianza tra il lick di sax di How Was it Before e una celebre hit dei Men at Work. Tant’è: ognuno è letteralmente invitato (come a un compleanno) a festeggiare a modo suo sensazioni di libertà e spensieratezza che poche cose possono darci: tra queste, il nostro amato indie rock e le serate al Motel.
Due cose colpiscono particolarmente in questo concerto: la prima è che la
line-up folta, il palco strapieno e le canzoni tutto sommato semplici, suonate
in maniera intensa e al contempo un pochino sbadata, non possono non farmi
pensare ai live dei Pavement. Lo stesso cantante degli EggS ha un carisma da
rockstar di stampo Malkmus, un po’ dimesso e arruffato. La prima volta che ho
pronunciato la parola “Pavement” al Motel la sala ha fatto gesti di religiosa
osservanza, quindi mi permetto il paragone. La seconda cosa è che l’atmosfera
di festa un po’ cazzara è ai suoi massimi, con tanto di ospiti che montano
all’improvviso sul palco (vari membri di En Attendant Ana, come al Noël), cavi che
non funzionano, risate e gente che canta nello stesso microfono. Le canzoni
inedite, come di consueto, trovano terreno fertile e c’è pure un omaggio a una
consuetudine (perlopiù domenicale) del Motel: il blind test, ovvero una partita
di Sarabanda in diretta. La fortunata cover è una canzone “che appare nel
miglior film di Batman di sempre”: Bad Days dei Flaming Lips.
Difficilissimo.
La festa di compleanno è definitivamente sbloccata e riuscita. Le luci sono
spente e la pista balla, anche quando finiscono le band. Purtroppo non siamo nella
misura di essere tra i più festivi stasera, giusto il tempo di ruzzare un poco,
e, mentre salutiamo un po’ di gente, fare gli scemi come di consueto, mentre il
DJ set in sala viene imbastito (a spinnare c’è gente interessante tipo i
post-punkari piccardi Structures e lo staff di A Certain Radio, che passa
sempre roba buona; purtroppo domani si deve ancora faticare e tocca perderselo).
Io e il mio amico partiamo in due direzioni diverse come al solito e mi
ritrovo da solo ma, nel mio cuore, non mi sento veramente solo. E mi accorgo
che è anche e soprattutto questa la vera ragione che mi porta a mettercela
tutta per scrivere qualcosa di godibile che sia il più vero possibile: per riconoscenza verso
chi ce la mette tutta per farci sentire bene, uniti, felici. Nella mia piccola
misura, il mio diario di bordo non vuole che essere il riflesso della gioia che
mi viene regalata da gente convinta, come me, che questa vita meriti di essere
vissuta appieno. Alla fine, è il senso stesso di un compleanno, quello di
festeggiare la gratitudine di essere al mondo.
Ancora tanti auguri, Motel!
En Attendant Ana – Good human beings
En Attendant Ana live @Trabendo, Parigi, 23/03/2024 |
Se c'è una cosa che apprezzo nella vita, quella è ricevere consigli musicali.
Fateci caso: alla metà dei concerti a cui sono andato questo mese suonavano
gruppi che non ho scovato io stesso. È una cosa quasi eroica, il fatto che, in
un'epoca in cui ci ritroviamo a subire tonnellate di contenuti sonori e
possiamo affidare ciecamente il nostro gusto ad algoritmi avanzatissimi e
playlist auto-generate di ogni tipo, la trasmissione orale resti una modalità
preponderante con cui la gente, nel mondo, scopre nuova musica (certe
statistiche darebbero già le app come vincenti, ma voglio credere in un errore
metodologico).
Il consiglio musicale, come ogni forma di dialogo, è una piccola arte a sé
stante. Non è facile dare i consigli giusti alle persone giuste. In un
equilibrio delicato, è un attimo a elargire ad altrui titoli talmente di
nicchia che oggettivamente possono piacere solo a piccole percentuali della
popolazione, o ancora cose così mainstream da scadere nella banalità. La
questione della quantità, se volete, è ancora più sottile: consigliare così
tanta roba che non è più processabile, annegare l'interlocutore con una marea
di referenze stranianti, è un fenomeno più rischioso di quanto si possa
pensare: con alcuni basta superare la soglia delle due canzoni linkate per
farsi timbrare in fronte il certificato di cagacazzo supponente, spesso
indelebile. Se su questo punto sono personalmente indulgente, lo sono meno
quando si parla di concerti. Posso sopportare che mi si consiglino quaranta
album e trenta band in un’unica conversazione, ma posso rischiare di irritarmi
davanti a quei tipici personaggi che ti dicono con insensato entusiasmo:
"Oh, comunque il 6 c'è sto concerto incredibile dei Tizio, devi andarci, e
poi l'11 suonano i Caio, imperdibile! E il 18 al concerto dei Sempronio sarebbe
da andarci, li ho già visti ma spaccano, sono da vedere!". Davanti al
bombardamento di consigli concertistici il mio pensiero di fondo finisce
inevitabilmente ad essere sempre lo stesso: "Ma vacci da solo".
Perciò, apprezzo particolarmente chi sa essere parco di codesti consigli, e
c'è una persona che incrocio al Motel da mesi che mi dice: "Senti Reric [NdR:
mi chiama col mio vero nome, ma lasciamo un po’ di spazio alla fantasia], se
c’è un concerto a cui dovresti andare nei prossimi mesi è quello di En
Attendant Ana. È veramente ottimo, fidati”. Ogni volta che lo incontro, o
quasi, il ritornello è sempre lo stesso. Ma non si disperde, e la cosa mi fa
piacere. Perciò decido di ascoltare la band parigina una volta per tutte e in
effetti mi piace un bel po’. Mi divoro soprattutto gli ultimi due album, di cui
apprezzo grandemente l’energia e la grazia. La musica del quintetto parigino è
un indie pop dalla scrittura raffinata e originale, che però non suona mai
rileccato ed è anzi estremamente orecchiabile. Soprattutto, pur di trasmettere
nella maniera più diretta possibile la sua indole sentimentale, il sound di En
Attendant Ana non disdegna mai di cercare soluzioni rocchettare (sono passati
quasi sessant’anni, e quante cose escono ancora dai sotterranei di velluto…).
Se nell’entusiasmante Juillet del 2020 si arriva quasi ad udire una
sorprendente e romantica radice punk rock nella musica sognante della band (la violenza
dolce dell’opener Down the Hill è forse l’emblema di questa interessante
dicotomia), in Principia del 2023 la formula si ripete ma viene leggermente smussata.
L’ultimo album del gruppo riesce a essere meno ruvido del suo predecessore ma,
sorprendentemente, ancora più emotivo, con una produzione che pur trovando una
nuova rotondità nel sound, non priva le canzoni della loro capacità di colpire
direttamente al cuore, con i loro ritornelli dolci e una ritrovata passione per
il krautrock che, ora più forte che mai, dà un sapore nostalgico e leggermente
psichedelico all’amalgama.
I suoni di En Attendant Ana crescono in me, il consiglio solitario degli
ultimi mesi si rivela fondato e centra il punto, perciò prendo il mio biglietto per andare a vederli, senza avere una vera e propria compagnia, al Trabendo
(un’altra delle sale parigine importantissime a cui non sono mai riuscito ad
andare, più per sfiga che per mancanza di voglia). Ironia della sorte, una sera
dal nulla Claire, la fidanzata di quel Maxime che già in passato ho definito
“my hardcore punk husband” (chi ha letto il live report dei Pogo Car Crash
Control forse lo ricorda), mi dice che anche loro verranno al concerto e
soprattutto che ci saranno i genitori di Max, che hanno legami improbabili e
inaspettati con un membro del gruppo (roba del tipo: “Ero lì quando era in
fasce al reparto maternità”). Vengo perciò invitato a un’insperata uscita
familiare del sabato sera alla quale aderisco con entusiasmo: amo andare ai
concerti con i miei genitori, o in generale confrontarmi con le generazioni
precedenti in termini di musica dal vivo: le prospettive sono sempre ricche e
interessanti. Fanculo all’ageismo!
Per correttezza nei confronti dei miei personali dieci comandamenti dei
concerti (un giorno ve li scrivo, promesso) arrivo prestissimo ed esploro
questo famoso Trabendo, sala modernista e sofisticatamente asimmetrica. Non
solo è bella e grande (sold-out stasera!), ma è anche, in qualche modo oscuro,
simile alla musica di En Attendant Ana: accessibile a tutti, ma non priva dei
suoi spigoli. Anche la formula di A Ghost Column, venuti dall’Inghilterra per
fare l’opening act, è simile: musica spigolosa, squadrata ai massimi. Questa
sorta di alt-pop che flirta col post-rock, però, mi dà subito l’idea di restare
in una terra di nessuno un po’ impalpabile. Freddi come pochi
(impressionantemente precisi, questo va detto), gli albionici sciorinano
sezioni di musica a volte anche ben ingegnate, ma che a volte suonano solo come
un’addizione e non un’equazione. Il risultato è indefinito, come quando non si
è riusciti a trovare l’incognita. E fidatevi, avrei eliso volentieri questa
critica gratuita ma quando vedo un nuovo fenomeno dell’industria (parrebbe che
qualcuno della band sia stato tra i 23091 membri dei Crack Cloud, o che qualcun
altro abbia suonato in uno dei 49428 album solisti di Thurston Moore…) che dopo
la pubblicazione di un solo singolo si permette di salire su un grande palco
con spocchia e supponenza, la cosa mi sento quantomeno di segnalarla. E anche
se tutti sapessimo che magari l’album è già pronto e che c’è già qualcuno
dietro che investe (perché così sicuramente è), l’essere quantomeno
comunicativo con il pubblico è il meno che tu possa fare per rompere la
finzione di star suonando solo per i discografici. Se fare da opener per le
glorie locali può essere un compito ingrato, non dire una parola fa quasi
passare il messaggio che non te ne frega un cazzo di stare lì.
(C’è un altro gruppo inglese recente che si fa tacciare di spocchia per la
presenza scenica dimessa: Bar Italia. Tre cose da dire: la prima è che la loro
stage presence da gente misteriosa se la sono permessa una volta che una bella
mole di materiale esoterico era già stato pubblicato; la seconda è che in
confronto alla Colonna Fantasma, Bar Italia sul palco sembrano i Rolling
Stones; la terza è che Bar Italia hanno una serie di pezzoni iconici che ‘sti
qua se li sognano).
Quando, dopo venti minuti buoni, il primo grazie non è ancora partito, sono
già irritato e con in mano una seconda birra (un po’ per sbollire, un po’ per
noia) che sicuramente mi porterà a fare un paio di figuracce coi genitori del
mio amico. Per fortuna la cumpa arriva e porta dentro la sala un buonumore
raggiante (figurarsi, persino dal palco partono trenta secondi di bello
shoegaze prima di staccare). I due ragazzi cresciuti sembra che conoscano la
metà dei presenti (mia mamma che gira in centro a Firenze mi fa lo stesso
effetto), e capisco da dove il mio amico abbia ereditato tutta la sua
adorabilità. Ci piazziamo in una postazione comoda (lo slargo diagonale sulla
destra, per chi sa), beviamo e parliamo di argomenti ameni come il conflitto
intergenerazionale sull’estetica delle pale eoliche, la Toscana e la musica rock,
in modo talmente diverso che con i giovinastri che mi sento addosso
quell’adrenalina di quando si scopre un ambiente nuovo che ci corrisponde bene.
Siamo talmente l’attrazione l’uno dell’altro che il concerto comincia e sembra
che siano passati cinque secondi di chiacchierata.
La prima cosa che colpisce di En Attendant Ana è la presenza quasi mariana
di Margaux Bouchaudon, la stessa che ho già visto sul palco alle feste del
Motel in un assetto molto più discreto. Posta in evidente posizione di
frontwoman, allora che io l’avevo sempre vista a fare le seconde voci, la
cantante ha una caratura e una leaderistica diverse dal solito, merito anche
dell’abito bianco ornato di una ghirlanda giapponese (boh, scusate, non mi
intendo di moda) che le conferisce un’eleganza al contempo austera e sbarazzina
da Arcangelo Gabriele (boh, scusate, attraverso un momento di confusione
religiosa). Poi la musica attacca e non c’è molto da dire se non che è
eccellente. Bastano pochi istanti per entrare in una terra di melodie eteree,
che si possono afferrare con le mani senza che risultino mai evanescenti. Il
riff così rock eppure così sorprendentemente innocente di Flesh or Blood,
con i suoi ritmi incalzanti, comincia a far saltellare tutto spettro delle
generazioni e gli interventi dei suoni della tromba portano un livello di
raffinatezza alla composizione che fa pronunciare più di un “ah ouais” agli
astanti, unanimi nel rendersi conto di trovarsi davanti a un
gruppo che sa coniugare in maniera speciale la frizzantezza dell’indie a una classe
quasi barocca e mai veramente pomposa. Principia, che nonostante i
quattro quarti ha quasi una cadenza da valzer viennese in salsa art pop, fa
letteralmente ondeggiare il Trabendo (e la Senna è lontana).
Bouchaudon, tra un pezzo e un altro, chiacchiera sempre un poco, e
trasmette un’allegria semplice e una gentilezza assoluta che non mi stupisce
per niente (ha persino una parola amabile per gli A Ghost Column, figurarsi).
Il concerto, è ormai chiaro, ha due parole d’ordine: pochi artifici, tanta
sincerità. Le canzoni, per esempio, si susseguono con una naturalezza e una
scioltezza splendide senza nemmeno bisogno dell’artificio di imbastire un set
pieno di canzoni tutte attaccate e suonate in continuità. E, francamente, ci si
trova davanti a un sound talmente coerente e tangibile, nonostante la sua
varietà e la sua difficoltà a farsi descrivere, che non passa nemmeno per la
testa stare a pensare a radici e influenze. Ovviamente, le eccezioni esistono sempre,
e stasera funzionano bene: è una sorpresa spettacolare, ad esempio, quando il
quintetto svaria passando senza soluzione di continuità da una cover di chanson
française a Teeny Tiny Tyche, una personale reinterpretazione della
filastrocca “eeny meenie miney moe” in chiave dream pop; oppure, ci si guarda
sorridendoci, un po’ smaliziati ma anche un po’ inebriati, nel ritrovare quell’omaggio
smaccato agli Stereolab che sono le doppie voci di Same Old Story (del
resto, in Francia, non è veramente possibile evitare il legato di questa band
quando si parla di gruppi indie pop recenti, quindi tanto vale andare fino in
fondo). La band, insomma, suona con una calibrazione perfetta, e non parlo solo
di suoni, volumi e precisioni ineccepibili, ma anche di un equilibrio tra
conforto e stupore, tra spinta e rilento, tra humor e dolcezza.
È appena passato uno dei momenti più amorevoli della concercertisca
annuale, ovvero l’annuncio della futura paternità del chitarrista della band, e
mi ritrovo a pensare: “Sono proprio delle belle persone”. Come leggendomi la
mente parte Wonder, con quel ritornello indimenticabile che è: “I’m a
good human being, my mother said, and I hope she’s right”. Un instant classic
che, dal vivo, riconferma il suo valore come uno dei più bei crescendo della
musica recente, e che chiude in bellezza il concerto. Lo show sarebbe già quasi
perfetto così, concorda il nostro piccolo capannello composto di tre giovani,
un padre, e una madre sicura che la sua collega abbia ragione sulla bontà della
figlia. Per nobilitare ulteriormente la performance, l’encore ci regala un’inaspettata
cover dei Pogues (I’m a Man You Don’t Meet Every Day) che dà anche
quell’ultima nota folkeggiante di cui non sapevamo di avere bisogno.
La musica finisce, non dopo l’annuncio abbastanza roboante di uno showcase di En Attendant Ana al Motel (!) l’indomani. Colui che, proprio in quel bar, mi aveva consigliato caldamente di venire al concerto di stasera mi guarda e mi fa: “Che ti avevo detto?”, e riconosco che un semplice consiglio può far nascere qualcosa di importante. Ma a parte il consigliere misterioso, qui non conosco nessuno perciò poco dopo raggiungo la famiglia di Maxime e, mio malgrado, mi ritrovo a rivestire l’imbarazzante ruolo di accompagnatore che gli amici di vecchia data si chiedono: “Aspetta, lui era un nipote, un cugino forse?”. Proprio io che in questi ultimi tempi un po’ ho fatto l’esuberante, onde evitare figure di merda, mi metto in disparte con Claire e non possiamo fare a meno di sorridere osservando mamma e papà che portano il loro figlio a rivedere chi l’aveva già conosciuto bambino, e ancora continuare a parlare di concerti e gruppi degli anni ‘80. Assistere a tutto questo, mentre le melodie gentili di En Attendant Ana mi vibrano ancora dentro, è come una piccola overdose di tenerezza.
Ogni tanto si ha bisogno di momenti del genere. Quantomeno per ricordarsi
che la vita, da queste parti, meriterà sempre di essere vissuta fin quando,
vicino a te, resta almeno uno di questi, buoni, esseri umani.
Bilderbuch – I segreti degli stranieri
Bilderbuch live @Petit Bain, 27/03/2024 |
La maggior parte dei concerti a cui vado amo condividerli con quei
personaggi matti che sono i miei amici. È bello avere compagnia, limitare al
massimo il rischio di sentirsi fuori luogo, godersi la musica e la notte
accanto a qualcuno con cui confrontarsi e con cui confrontarsi agli altri. Ogni
tanto, però, spunta un’inspiegabile voglia di andare a un concerto da solo. Le
ragioni possono essere molteplici, e stasera penso di conoscerle ma non voglio
esprimerle. È un’intuizione segreta, implicita, personale.
Stasera al Petit Bain suonano i Bilderbuch, un gruppo che ho la fortuna e
il privilegio di conoscere dal lontano 2015, anno in cui il mio amico Paolo
fece una mossa di talent scouting che in confronto l’acquisto di Kvaratshelia
sembra il rituale prestito di Marco Benassi a una squadra di metà classifica a
fine stagione. Chiacchierando del più e del meno con quel ragazzo così alto e
così saggio che era Paolo a fine liceo (mentre io ero ancora un pischellino
convinto che si potesse ancora suonare in un gruppo post-punk e rivendicarsi
“new wave”), venne fuori la questione del miglior album dell’anno e il suddetto
mi tirò fuori una perla oscura di pop-rock alternativo austriaco che risponde
al titolo Schick Schock. “C’è tutto”, mi fa, “Il pop, il rock, l’elettronica.
Pure il rap c’è, pensa te”. Il puppurrì che il mio amico mi aveva promesso non
solo non c’era, ma quei Bilderbuch che riuscivano a inserire riff di
un’elettricità devastante in mezzo a beat hip-hop e ritornelli di
un’orecchiabilità che ha solo Uno su mille tra i gruppi pop di
oggigiorno mi sembrarono talmente originali, ben prodotti, appetibili e
divertenti che per anni non mi sono spiegato come mai non abbiano avuto
un’ascesa europea e/o internazionale simile a quella, che ne so, di quei
merdosi dei Maneskin (non mi scomodo neanche a mettere l’accento strano sulla A
per quanto poco mi stanno simpatici).
Ad oggi, Schick Schock resta uno dei miei dischi preferiti della decade
scorsa e, pure se il materiale successivo dei viennesi non mi ha mai esaltato
come quella inaudita collezione di hit, la voglia (e l’impossibilità) di
vederli non è mai scemata. Finalmente, per la prima volta quei Bilderbuch fin
troppo ingiustamente relegati nel mondo germanofono si sono decisi a venire in
Francia. Trovo pazzesco che sia la loro primissima volta in questo paese: se
andate su Setlist.fm (il mio alleato più malvagio) a vedere la lista di posti
in cui hanno suonato prima di questo show, figurano, oltre che le Isole Fær Øer
nel 2017 (quanto spacca il G! Festival!, sembra la versione nordica, quindi con
più sostenibilità finanziaria, del Beaches Brew), svariati show in Lussemburgo
e già due date in Lichtenstein. A difesa del nostro bel paese, spesso
considerato come l’ultima ruota del carro in fatto di accoglienza degli artisti
stranieri, possiamo dire con fierezza che anche il suolo italiano, prima del
primo concerto in Francia, ha visto i Bilderbuch esibirsi: ben tre volte… e
tutte e tre in Alto Adige!
Insomma, l’avrete capito: i Bilderbuch sono un po’ una mia personale
fierezza da hipster, un ordigno ancora inesploso che posso rivendicare in caso
scoppiasse producendo il conseguente baccano, ed è principalmente
per questa piccola e un po’ meschina gelosia che sono da solo stasera. Ci
aggiungo il fatto che stamani mi sono svegliato in un albergo Ibis in Piccardia
e ho passato la giornata a far contratti in campagna, il che ha la conseguenza
che: uno, i miei brutti cenci da after-business voglio tenermeli per me e
uscire con gli amici in momenti magari un po’ più cool; due, non ho cazzi di passare
una serata di entertainment di gruppo. Ho solo voglia di un’operazione di
infiltrazione, acquisizione di informazioni riservate ed esfiltrazione. Insomma,
stasera sono un Solid Snake dell’electro-pop, e la mia missione richiede
riservatezza.
Riservato, non potrei esserlo più di così: quando entro nella sala gremita,
ci metto poco tempo a rendermi conto che sono l’unico che non parla tedesco.
Straniero al cubo, mi crogiolo nel mio anonimato estremo ed osservo questo
singolare pubblico di stranieri base. Già mi ero fatto un po’ di idee
sul pubblico tedesco quando ho visto The Vaccines a Berlino a gennaio, e stasera vengono riconfermate: appassionatissimo di guardaroba (oggi ho il PC aziendale, tocca pure a me),
piuttosto ben profumato e a fortissima componente femminile (gruppo “da fiche”
anche stasera o effettivo trend culturale?). Non è spiacevole.
Tante domande mi bazzicano per la testa, mentre constato di essere in una
situazione estremamente singolare. Una su tutte: Gérard Drouot Productions, il
promoter di stasera (controllo il suo sito e vedo che tratta perlopiù nomi
internazionali giganteschi, gente tipo Alice
Cooper, Laura Pausini, Pat Metheny…), era al corrente del fatto che l’imponente
successo della serata sarebbe stato prevalentemente su un pubblico germanico?
Ancora oggi propendo per il no: la loro pagina, giorni dopo, sponsorizza ancora i
Bilderbuch come il gruppo che potrebbe cambiare il rock europeo, e anche
l’opening act è troppo poco fanservice-istico per convincersi che la serata sia
stata concepita apposta per lucrare sugli espatriati della deutsche-sfera a
Parigi. La cantante-chitarrista (col suo DJ-suonatore di launchpad) Kässy, con
i suoi troppi ascoltatori per avere solo un singolo e col suo videoclip cristallino,
sembra invece un prodotto che le alte sfere dell’industria vogliono provare a
lanciare a fasce di consumo giovani, piuttosto che tedesche o anche solo straniere
o cosmopolite. È hyperpop per le masse, troppo poco estremo, ambizioso o
sincretico perché io possa riuscire ad apprezzarlo. Esco a fumare e incontro
una viennese che, sconvolta al vedere il “piccolo” Petit Bain, dice che “giù da
me i Bilderbuch riempiono le arene”. La breve conversazione di contesto è stata
interessante, ma perdere la mia posizione verso l’ultima canzone di un opening set
abbastanza mediocre, quello è stato un errore da pollo. Meno male che sono da
solo e posso ricalcarmi un posto davanti con la metà della fatica e senza che
nessuno ponga giudizi etici sulla mia etichetta.
Quando non solo non hai con chi parlare ma non riesci nemmeno a origliare
mezza conversazione, è lì che la solitudine si fa sentire. Per ammazzare il
tempo resta solo da ascoltare la musica (alta) che passa prima del concerto,
una serie di messaggi subliminali a cui, per noia, penso a dare la mia
interpretazione: Gospel for a New Century di Yves Tumor (due volte) come
affermazione dell’ambizione dei Bilderbuch di diventare animali da grande
festival; Just Dance di Lady Gaga (parte un sing-along) come un
occhiolino agli zillennial più nostalgici del passato discotecaro trash degli
anni 2000; Paranoid dei Black Sabbath (mi esalto) come dichiarazione di
fede all’arte del riff e promessa di rispetto perenne verso gli dei del rock.
Finalmente i cinque Bilderbuch salgono sul palco e, come si poteva
facilmente pronosticare, comincia il tedesco visibilio. Gli austriaci sono
muniti di due batterie (una acustica e una elettronico-sintetica) ma manco si
vedono bene, talmente sono oscurate dalla presenza straripante dei tre uomini
davanti: un bassista wannabe cowboy americano ma di evidente estrazione alpina,
un chitarrista matto e virtuoso vestito da donna e soprattutto Maurice Ernst,
frontman di un carisma superiore alla media di quelli che sono già sopra alla
media, un Casablancas in veste simpaticone mitteleuropeo che, con l’occhialone
da sole e le vesti leopardate, ci rende suoi prigionieri fin da quando comincia
ad agitarsi sui ritmi forsennati di Softpower, esperimento rock un po’
mount-kimbie-istico che dal vivo si riconferma di gran lunga il miglior
estratto dall’omonimo EP del 2023 (anche grazie a un riffone devastante a cui
perdoniamo di essere stato un po’ ciulato da Bodysnatchers). Che il buon
Maurice sia un animale da palcoscenico lo si vede da lontano un miglio, e si dà
il caso che stasera sono a quindici metri massimo da lui, perciò non posso che
esagitarmi anch’io e godermi questa musica vergognosamente festaiola ridendo al
ritmo degli assordanti sing-along che salgono dalla platea in una lingua che mi
è incomprensibile.
La cosa più incredibile è che, nonostante il catalogo dei Bilderbuch sia
piuttosto ampio, sono proprio le canzoni di Schick Schock a riscuotere più
successo, e mi rendo conto che per le genti d’Austria e di Germania dev’essere
stato un album di party music quasi generazionale, comparabile a quello che può
essere stato un Settle dei Disclosure nel Regno Unito (o un Sorprendente Album
d’Esordio dei Cani in Italia). Tutti cantano il testo di quel piccolo
capolavoro dance-rock che è Gigolo, mentre io ballo e mi limito al
ritornellone, e la stessa cosa si può dire sull’irresistibile Wilkommen in Dschungel, che ho sempre considerato una canzone-manifesto della band (la
vita metropolitana selvaggia sembra un po’ un loro leitmotiv), arricchita da
una jam lounge psichedelica sulla quale è impossibile non improvvisare un paio
di mosse di danza funky step fanfarone. Anche i pezzi di altri album brillano:
la mega-hit Bungalow fa vibrare la sala e mi fa ripensare a
un’intuizione azzeccata di mio padre che, ascoltandola, ha detto: “Ma sono i figli
di Falco”! Ed è vero che l’idea di mettere potenti riff di chitarra su ritmi
disco, in effetti, non è nata coi Bilderbuch, ma solo recuperata, forse per
ostentare con fierezza l’esistenza di un “österreichisch-touch” fresco tanto
quanto la sua ben più conosciuta controparte francese.
Il concerto va avanti tra alti e alti: ogni pezzo ha il suo perché, la
performance è pulitissima ma soprattutto l’energia è trascinante, e non in una
maniera pacchiana da gruppo in odore di Eurovision, bensì in un modo feroce,
trasgressivo, persino un po’ punk rock. Il gruppo non si perde in trucchetti
facili, ma anzi osa soluzioni particolari, tra cui spiccano persino un paio di
lunghi ostinati, progressivi o simil-kraut, con cui i Bilderbuch fanno
respirare il pubblico tra un grande successo o un altro mantenendolo comunque
incollato al palco e alle prodezze dei musici. Le danze e le arringhe di Ernst
(“Feel the movement”!), su questo sostrato di competenza pop, sono una carica
di garra che esplode con un liberatorio stage diving su Maschin. È
proprio vero: questo concerto ha tutto, pure la grandiosità del rock per le
folle, quello serio, che in un contesto così piccolo riesce a emozionare.
Il concerto è finito ma il pubblico richiede un encore (ovviamente in
tedesco). Il cantante ha parlato in inglese fino ad ora e ci tiene a preservare
la “kayfabe” di una serata internazionale, chiede di fare quantomeno finta di
non essere tutti stranieri in sala e ci regala un ultimo assalto con la follia
funk sincopata di Spliff e persino una bella canzone d’amore, Checkpoint (Nie Game Over), che fanno splendere la varietà di registri della band
viennese. C’è un unico neo al concerto, che è l’ultimo pezzo: il singolo del
2023 Bluezone, una canzonaccia house-pop piena di sample vocali
dozzinali di chiara ispirazione Fred Again (altro artista il cui successo
esplosivo negli ultimi anni mi fa scuotere la testa; non mi scomodo a
mettere i puntini dopo il nome: quanti sono, due?; ma vaffanculo). Cosa ci
incastri questo tipo di musica con il sound potente dei Bilderbuch, non lo so,
e vedere che il drop fa saltare grandi e piccini un po’ mi deprime e macchia un
concerto sino ad ora ineccepibile.
È quest’ultima piccola delusione, forse, a far scaturire in me una domanda
solo a prima vista stupida: perché una fred-againizzazione della band mi
disturberebbe così tanto? Alla fine, per quanto io disprezzi quel sound, non si
può negare che faccia rima con electro-pop contemporaneo. Poi però, in fila per
riprendere il mio zaino al guardaroba, guardo le magliette intorno a me e
capisco. Vedendo passare nomi tipo Def Leppard e Kiss mi rendo conto che la
grandezza dei Bilderbuch è quella di essere riusciti a rendere ancora attuale e
terribilmente seducente il suono, l’attitudine, l’estetica, e tutto ciò che
ruota intorno alla parola “glam”. Ostentatori, sopra le righe, selvaggi… eppure chirurgici, orecchiabili, ancora capaci di sperimentare: questi
ragazzi viennesi rappresentano un’intuizione che può rimettere in riga le
brutte sorti della musica radiofonica europea: riportare in auge la potenza del
rock da arena, con tanto di riffoni iconici, ma mantenendo una sensibilità pop
spiccata e inserendo tanti elementi della club music e dell’hip-hop alternativi. Forse è
questo il modo per riportare della musica dall’energia un po’ sovversiva nelle
discoteche e nella parte alta delle classifiche.
Cammino lungo la Senna pensando un’ambiziosa teorizzazione del sound “Neue Glam”, ascoltando Der Kommissar ad alto volume. Non sono scontento di essere da solo, anzi. Ogni tanto, è bello anche tenersi per sé un piccolo segreto.
***
Quello di cui non parlo
Non parlo del concerto di Sarab alla Gare Jazz l’8 marzo, non perché non mi sia piaciuto, anzi. Il sestetto parigino, capitanato dalla incredibile cantante di origini siriane Climène Zarkan, è una delle migliori band che io abbia mai visto nel genere delle musiche mediorientali alternative. Chiamarli un gruppo jazz come in tanti fanno sarebbe estremamente riduttivo, vista la quantità di influenze differenti presenti nella loro musica. Ho l’impressione che spesso la critica recente, quando gli si parano davanti musicisti notevoli che suonano musiche di regioni poco rappresentate nelle classifiche occidentali, presi dal panico del (giusto) tabù che attornia ad oggi la dicitura “world music”, buttino in mezzo la parola “jazz” un po’ alla rinfusa. Per carità, nelle ritmiche e strutture della musica di Sarab si può sentire l’influenza della fusion anni ‘70, e nelle sezioni dei fiati si può rivedere l’ispirazione a certe big band “post-swing” tipo la Fire! Orchestra. Ma ascoltate un pezzo come Queen Rast, che quel venerdì sera ha sconquassato la sala: le musiche tradizionali, nell’universo Sarab, vanno spesso e volentieri ad abbracciare anche le aggressive sonorità del progressive rock post-anni ‘80, che ontologicamente sono ormai più vicine al metal che alla musica afro-americana (vengono in mente i tardi King Crimson, quelli di THRAK per capirsi). Insomma, Sarab sono tanto rock quanto jazz, ma inevitabilmente l’etichetta “jazz” permette di vendere molto meglio una proposta musicale “straniera”. È segno della volontà di esotismo dei jazzomani o di una latente xenofobia dei rocker? Forse entrambe, purtroppo.
Perché non parlo del concerto di Sarab alla Gare Jazz l’8 marzo? Uno, perché non ho visto tutto il concerto, ma solo la fine della prima parte del set e l’intera seconda parte, e non me la sento di atteggiarmi a recensore di stocazzo per un concerto che non ho visto nella sua interezza. Di fatto, era soltanto una “night out” e il concerto di Sarab è stata solo una parte dell’avventura che ho vissuto quella sera con i miei amici (in particolare il caro Tommaso, che ha apprezzato la musica, e Théo, che da insider del mondo discografico sapeva che valeva la pena passare a dare un’occhiata). Contrariamente a tutto il resto dei concerti di Life Lately, perciò, non c’è quella legittimità che posso avere nel parlare di un live a cui ho dedicato tempo e spazio mentale nel prima, il durante e il dopo della performance. Ultima, ma non meno importante ragione per cui non mi dilungo più di tanto su questo concerto è che la Gare Jazz è una sala che non amo particolarmente. Esteticamente è una delle più belle in città (location post-ferroviaria, arredamento pieno di tappezzerie suggestive…) ma non ne apprezzo tanto le politiche organizzative, e soprattutto mi irrita la filosofia un po’ snob dell’autorizzare, anzi, fomentare il pubblico a zittire i chiacchieroni, che spesso sfocia in sgradevoli situazioni in cui si sentono più “sssh” che musica, mentre che un basso chiacchiericcio di fondo non disturberebbe più di tanto. Fare un articolo intero in cui per metà del testo parlo male della sala (perché ho il “rant” facile e avrei di che dilungarmi) non mi sembrava cosa, per rispetto dell'artista.
Una parola finale su Sarab, però, la spendo: andatevi ad ascoltare l’EP Qawalebese Tape del 2023 e soprattutto, se avete l’occasione di vedere Sarab dal vivo, non perdetela. Specie nella sua veste live è un gruppo interessante, commovente, virtuoso, sorprendente, potente e anche divertente. Ne vale la pena.
***
Non parlo del DJ set di Avalon Emerson al Badaboum del 9 marzo, non perché non sia un highlight gigantesco del mio mese di marzo, anzi. Avalon Emerson è un’artista che adoro. L’ho già vista al Primavera Sound suonare l’album del 2023, & the Charm, e l’avrei rivista poco dopo a Parigi se non fosse che ha annullato la tournée europea (forza e coraggio per la sua malattia ad Hunter Lombard, che suona la chitarra nella band; spero stia bene). Onestamente, & the Charm è uno dei migliori dischi pop di cui io abbia memoria negli ultimi dieci anni: la bellissima favola della DJ che diventa cantante e riesce a coniugare un sound profondamente indie al suo sostrato club non solo funziona, ma è quasi commovente da ascoltare: il disco è pieno di momenti onirici degni di una estasi sulla dancefloor quanto di ritornelli dolci, accattivanti e memorabili. Il concerto è pure lui fantastico, una vera discoteca dei sogni popolata da un pubblico gentilissimo, con cui ho ballato e cantato come un matto accarezzato dalla brezza marina di Barcellona. Ma Avalon Emerson nasce DJ, e dopo tanto tempo che volevo vederla spinnare l’occasione si presenta in concomitanza con l’arrivo di Tommaso che vuole che lo porti “in qualche club parigino dove mettono la musica giusta”. Detto fatto.
Perché non parlo del DJ set di Avalon Emerson al Badaboum del 9 marzo?
Semplicemente perché un DJ set in una discoteca è una cosa diversissima da un concerto,
o da un set in un festival, e a differenza di questi, che consumo in quantità
industriali ogni mese, io di DJ set in discoteca ne sentirò sì e no due all’anno.
Non fraintendetemi, amo la club music e anche la cultura club, giusto non ho
troppo il fisico. Sono piccole follie che mi concedo abbastanza di rado e che,
proprio per questo, vivo in maniera abbastanza estatica e caciarona. Anche se
ovviamente vado in discoteca per sentire della buona musica, andare a clubbare
per me (come per molti) è un’esperienza che riguarda me e i miei amici quasi
più di quanto riguardi la musica stessa: il piacere di superare la barriera,
entrare, sentire i bassi, prendere da bere al bar, sentirsi in famiglia in un
luogo pieno di gente, ballare, gironzolare, chiacchierare con sconosciuti, è
quasi grande quanto il piacere che provoca la musica che sta passando. Scrivere
un trafiletto lungo a riguardo della serata rischierebbe perciò di ridursi a
un: “Io e i fra abbiamo fatto questo, quest’altro, quest’altro ancora. Ai
buttafuori abbiamo detto questo e quest’altro. Abbiamo incontrato un tizio che
ci ha detto questo e un caio che ci ha detto quest’altro. Ah, poi c’era anche
della buona house-tech per ballare e le transizioni erano fatte molto bene”.
Per quanto la serata sia stata lunga e piena di emozioni, perciò, la musica
passa in secondo piano. Per questo, perciò, non mi sento di parlare troppo a lungo di un DJ
set fortissimo, di cui peraltro ho visto due ore e mezza buone ma non la fine,
perché non sarei capace di farlo dando il giusto valore a un’artista a tutto
tondo che rispetto enormemente.
Due parole finali, però, le spendo, una sulla venue e una sulla musica.
Sulla venue: è bello trovare una serata in discoteca dove non ci hanno troppo
rotto le palle su chi siamo, in quanti siamo e a cosa assomigliamo; in
sostanza, è bello presentarsi in cinque uomini, tutti con una faccia da
giganteschi nerd del punk rock, e non farci giudicare per questo semplice fatto
ma anzi voler sentire “che cosa ci piace ascoltare” per vedere se siamo atti a
entrare (che ridere Paul che entra in modalità panico e mordendosi le labbra
per non dire: “Wipers - Youth of America” risponde: “Il rock e i DJ set”).
Sulla musica: ma quanto spinge il remix di Karaoke Song? Avalon, lo
sappiamo che sul computer hai già una cartella “Charm Remixes Final”, ti prego
pubblica ‘sto capolavoro una volta per tutte, che il rischio è quello che io
finisca a chiedertelo nei DM di Instagram ogni tre giorni.
***
Non parlo del concerto dei JaJaJaJa al Petit Balcon del 28 marzo non perché
non creda che questo gruppo ha un futuro brillante, anzi. I JaJaJaJa sono un
gruppo ultra-emergente di Parigi che suona in chiave funky jazz (loro sì, al
cento per cento) la miglior musica tradizionale magrebina. I loro membri sono
algerini, marocchini o francesi, e il loro sound è semplicemente
simpaticissimo: gnawa e poliritmi nordafricani, ma anche grandi successi del
pop algerino incontrano il funk più disinibito, in una sequenza di pezzi uno
più irresistibile dell’altro (soprattutto Caravan in versione “bled”). E
in più hanno un humor molto spassoso, soprattutto quel matto del
batterista-cantante (il ruolo più romantico che esista nella musica
contemporanea) che finisce ogni pezzo dicendo: “Arigato gozaimasu”. Se li
affianco al concerto di Sarab, ci sarebbe quasi da farne un articolo
monografico dedicato alle band parigine che mettono in luce i suoni del mondo
arabofono qui in Europa, ma non è ancora il momento. In compenso è giusto
dirlo: questi quattro ragazzi hanno l’intuizione giusta al momento giusto, e
tra linee di sax pazzerelle, bassline contagiose e soli di chitarra
particolarmente spettacolari il primissimo concerto dei JaJaJaJa (che onore) dà
l’impressione che i ragazzi necessitino di poco, giusto un filo di più di
precisione e affiatamento, per poter proporre al grande pubblico una musica che
trasmette perfettamente i sentimenti del Maghreb a chi non c’è mai stato e
pertanto vive una quotidianità tangente a gente che viene da questa regione
(penso che il discorso si applichi al 90% dei bianchi che vivono in regione
parigina; il 10% restante vota Le Pen).
Perché non parlo del concerto dei JaJaJaJa al Petit Balcon del 28 marzo?
Perché un paragrafone completo raccontando le grandi performance del gruppo in
cui suona Taha sarebbe sembrato francamente troppo sospetto, se non addirittura
fazioso. Taha, per informazione, è il bassista di due piccoli complessi in cui mi
occupo di suonare la batteria. Forma, insieme a me, la sezione ritmica di un
gruppo di pop francese sofisticato e di una gimmick-band di hardcore punk
vecchio stampo: se a questo aggiungete che spara linee di walking-bass in tre
su quattro su scale arabe per sovrapporle a vecchi standard jazz… Beh, siamo
davanti a un bassista quantomeno completo, se non talentuoso. Ma è il mio
bassista, e disgraziatamente i complimenti li devo chiudere qui. Mettici il
fatto che la band è all’alba della sua nascita e non ha ancora nessuna
pubblicazione, e la conclusione è semplice: è semplicemente troppo presto per
spingersi in uno studio in profondità della loro musica, e non posso nemmeno
linkare qualcosa di udibile, cosa che poco si confà col mio stile di
articolistica.
Una parola finale, però, la spendo. E non è né sulla venue, né
sull’artista, ma sulla musica in generale. Un universo di nuovi gruppi
underground, e chissà, forse i grandi di domani, gorgoglia sotto alle nostre
città (a volte anche in superficie, ma perlopiù in cantine e seminterrati).
Fare finta di essere talent scout è un hobby divertente, ma non è questo il
punto: tutti questi embrioni di musica hanno già emozioni da regalare e, seppur
difficilmente reperibili, possono regalare buoni momenti. Con questo non sto
invitando i lettori al compito impossibile di andare a tutte le jam e concerti
delle micro-sale come quella di stasera, ma quantomeno a non lasciarsi indurre dalla tentazione di
ignorare categoricamente chi ti parla del “concerto del suo amico” in una
location un po’ oscura. Il mondo è troppo incerto per fare gli snob sulle
opportunità che ti possono capitare, e pure se è ovvio che a volte non è detto
di trovare grande musica (e parlo per esperienze personali passate) a volte,
sorprendentemente, ci si può trovare davanti qualcosa di sorprendentemente
nuovo, e stasera è così. Do perciò appuntamento ai JaJaJaJa al futuro, ma non
senza consigliare di seguirli a chi è stato stuzzicato da quest’anteprima
mondiale.
Arigato!
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