domenica 24 dicembre 2023

Natale con i tuoi - Al cenone indie del Motel con Biche, Alva Starr e Speed 3

Biche live @Petit Bain (Le Noël du Motel), Parigi, 18/12/2024

Nel pieno della mestizia invernale di cui ho fin troppo parlato nei miei ultimi live report (dovuta a un clima schifoso e due o tre cazzate di ragazze, insomma niente di grave), a un certo punto arrivano le feste. Le feste, questa tradizione imposta dall'alto e che deve per forza essere fonte di gioia e speranza: arrivato a una certa età, e dopo che la mia polemicità tipicamente fiorentina si è trasformata in un vago cinismo, questa storia delle feste ha cominciato un po' a starmi sulle balle. Nei miei momenti di massimo distacco dalla realtà può capitarmi di pensare le stesse cose di istituzioni ancora più importanti, tipo la famiglia, questo gruppo di persone che fanno parte della tua vita per puro caso e che per norma sociale sono destinati a essere il tuo fulcro di unità, affetto e valori. A volte davvero mi verrebbe da dire: ma chi l'ha deciso? Poi succede che per un imprevisto devo volare con urgenza in Spagna e ritrovarmi accerchiato da zie e cugini che non vedevo da anni e che non sento quasi mai. E lì mi rendo conto che questi miei punti di vista intellettuali, atarattici e nichilisti non hanno nessun valore: al di là di tutti i costrutti sociali a cui uno possa pensare, la famiglia resta la cosa più importante. Non c'è tanto di più da spiegare.

Torno in Francia dalla mia trasferta madrilena d'emergenza e mi dico che sì, forse posso dare una chance anche a questo fantomatico calore delle feste. Per fortuna gli amici (l'altra cosa più importante) hanno anticipato questo mio desiderio, convincendomi giorni prima a prendere i biglietti per andare al concerto di Biche, un gruppo di indie pop francese contemporaneo (interpretate il “contemporaneo” come volete, io lo applico a sproposito ogni volta che intravedo rullanti ovattati e con loro l’inevitabile legato di Mac DeMarco). Do mezzo ascolto ai Biche e non disdegno affatto il loro sound fresco, elegante e delicatamente psichedelico. Vista anche la location (l’unico e inimitabile Petit Bain), gli opener decisamente promettenti e soprattutto il fatto che con questi amici abbiamo il progetto di strimpellare insieme proprio dell’indie pop francese, accetto l’invito con piacere e senza pensarci troppo.

Il lunedì del concerto arriva, dopo un week-end privo di qualsivoglia emozione natalizia malgrado la mia buona volontà: le luci e le decorazioni per strada e nei negozi non mi comunicano niente, la proliferazione di tronchetti di natale nelle pasticcerie un po’ mi stomaca, e pensare a che regali fare e a chi farli resta una discreta rottura di coglioni. In questo spirito da Grinch, guardo i biglietti del Dice e noto che la serata si chiama “Le Noël du Motel”. Oimè, una serata di natale. Speriamo bene.

***

Arrivo al mitico molo del Petit Bain per primo tra i miei compari. In realtà sono arrivato prestissimo, perché sì: arrivare all’apertura è un altro dei miei lati intransigenti e un po’ scorbutici, da Ebenezer Scrooge. La serata è gelida e decido di entrare. La ragazza della biglietteria che, poverina, deve stare a lavorare all’aperto per tutta la sera fa comunque grandi sorrisi a tutti mentre distribuisce biglietti della tombola in allegato al timbro sul polso. Entro in cambusa per ammazzare il tempo ma ancora non c’è praticamente nessuno. Le poche persone in sala, però, sono estremamente sorridenti e sembrano tutte conoscersi. Ogni nuovo avventore saluta i presenti con un abbraccio, e a turno la gente viene a scambiare due chiacchiere con il banchino del merch. Mi sento quasi a disagio, come un imbucato a un pranzo tra parenti di una famiglia di sconosciuti.

Ovviamente c’è una spiegazione per questa sensazione: il Motel che organizza questa festa di natale è un famoso bar, l’unico che abbia sentito rivendicarsi la parola “indie” nei suoi statuti fondanti: una nicchia mitica di una scena parigina alla quale non appartengo. La gente che suppongo affiliata al Motel, in sala o sul ponte, è molto affabile verso il suo circolo, ma mi sento un po’ burbero e la cosa non mi scalda particolarmente. In compenso scovo un dettaglio divertente nella descrizione dell’evento, che leggo mentre aspetto la musica seduto nel gradino degli uomini soli (piano piano ci siamo accumulati): tutti e tre i gruppi sono stati, in passato, baristi al Motel. E in effetti, appena i cinque Speed 3 salgono sul palco, cominciano subito i salutini e gli inside joke con alcuni elementi del pubblico. Comincio a intenerirmi: quando vado a vedere i gruppi dei miei amici fiorentini (fanno o free jazz o ska-punk) il mood è più o meno il medesimo.

La formazione che apre le danze è quantomeno bizzarra: cantante, bassista e batterista sono dei tipici ragazzotti un po’ hipster da gruppo indie rock (si segnala l’avvistamento di una maglietta degli Stereolab sul batteria); il chitarra solista, arruffato come pochi, sembra un metallaro degli anni che furono; il tastierista, invece, è il tipico personaggio mattacchione da bar scene, un po’ più anziano degli altri e dalla faccia burlona e gentile. Contro ogni aspettativa, la serata si apre all’insegna del rumore e della sregolatezza: l’indie rock aggressivo di Speed 3, che vuole bene tanto al britpop quanto a una New York d’antan (leggasi: quel folle viaggio che ci porta dalla Factory fino a Casablancas), è una gioia per le orecchie di chi, come me, ama il rock che flirta col noise ancora più del noise rock stesso. Sopra a un sostrato ritmico precisissimo e pulito, una voce strepitante e saturatissima sconquassa gli avventori, e il gruppo tira fuori dal cappello mille trucchetti, tra assoli graffianti e parti di tastiera sempre inaspettate. La band è affiatata e matura, macina musica e sembra tutto tranne che un gruppo che ha un solo singolo su Bandcamp all’attivo. Ma oltre alle tastere-carillon di The Art of Saying No si cela un piccolo universo di trovate divertenti: scream laceranti che rompono le atmosfere mogie di canzoni sulla solitudine, pianoforti boogie che esaltano i crescendi di arringhe politiche contro liberalismo e poteri forti, accelerazioni e sfuriate che ti schiaffeggiano a tradimento mentre ti concedi di gongolare ammaliato da sezioni pop quasi raffinate.

Intrattenuto dal fiume in piena di questi simpatici Speed 3, dimentico persino le mie vaghe sensazioni di isolamento. Intanto gli amici arrivano e la sala si riempie con grande naturalezza. Il gran finale, marcato da una canzone-omaggio al Das Kapital, è l’occasione di ritornare a scherzare tutti insieme, sfottendo l’amica americana (di background repubblicano) citandole i rischi di epurazione che corre con questa vita parigina in linea tangente col marxismo. Nel calore di un Petit Bain finalmente pieno di gente, verosimilmente non tutte del microcosmo Motel, comincio ad avere le prime visioni del Fantasma del Natale Presente e ad assaporare l’allegria del momento con più leggerezza.

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Non passa neanche un quarto d’ora che il palco si rabbuia di nuovo per lasciare spazio ad Alva Starr, l’act che forse mi incuriosisce di più stasera. Anche loro ai loro inizi, si suppone: i singoli su Bandcamp stavolta sono tre, ma due sono “rough demo” e uno è “live” (ciascuno, peraltro, si può acquistare per la modica cifra di mille euro, cosa che trovo spassosissima). Ascoltandoli in streaming, visti i miei mezzi limitati, avevo apprezzato molto il loro indie pop che, seppur soffuso, è attento a non cadere nella rischiosissima trappola di un suono “bedroom” inflazionato e banale. Chitarre trillanti, synth soffici, un groove dimesso ma accogliente e armonie vocali leggiadre, né troppo liriche né al contrario troppo “blasées”, fanno di questo quartetto parigino una piccola perla che, se fossi un talent scout, sorveglierei a dovere. E siccome fingermene uno è il mio passatempo preferito, mi piazzo in prima fila.

Il concerto di Alva Starr è delicato come una mattinata d’inverno dal cielo blu (oggetto rarissimo da queste parti). Impossibile non sorridere, chiudere gli occhi e ondeggiare la testa, per esempio, con le melodie dolci di una canzone come Airlane, talmente aggraziata da far perdonare, o addirittura apprezzare, anche la fortissima somiglianza armonica con Boys Don’t Cry; oppure ancora la micro-hit Go to Congo, che con le sue vocals esotiche e le sue chitarrine un po’ folk un po’ indie anni ’00 (mi si segnala un aroma di Vampire Weekend), ci fa viaggiare tra le Afriche e le Americhe con buffe storie di amori criptici; e ovviamente non può mancare la canzone di natale: I Want a U-boot for Christmas finalmente riaccende dentro al mio cuore un po’ di spirito natalizio. Anche a questo giro, le canzoni nuove sono tante, e tenere quanto lo stage banter un po’ timido del cantante. Il duetto finale e l’abbraccio con Lonny, cantante più affermata e anche DJ più tardi nella serata, è un attimo di grande e sincera dolcezza, in un alternarsi di voce femminile e maschile che ricorda persino i momenti più affettuosi dei Moldy Peaches.

Più che per la famosa “freschezza” con cui vengono incensati solitamente i nuovi gruppi indie, Alva Starr meritano un plauso per l’esatto opposto: il tepore. Nella sala del Petit Bain, a fine concerto, sembra quasi di sentire un odore di legna nel caminetto e di pan di ramerino. Poi una voce annuncia che al piano di sopra c’è la tombola e a quel punto saliamo nella sala del ristorante tutti emozionati: siamo quasi tornati bambini.

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I lotti, uno ad uno, vengono annunciati. C'è un gran vociare tra i tavoli e le sedie della “cantine” (“mensa”), mentre gli astanti, parecchio pigiati, vengono illuminati dalle luci calde della sala. La luna, fuori dagli oblò, si riflette sulla Senna. Mentre i baristi spillano birra, una bambina estrae i foglietti dalla boccia di vetro e una ragazza urla i numeri, lamentandosi di doverli ripetere più volte. Non mancano le tradizionali battutacce, tipo le descrizioni altisonanti dei premi meno ghiotti, o i sempreverdi “’Azzo, quasi!”, “Ambo!”, “È mio, è mio! No, scherzo”. Ci si sente davvero come a una tombola di famiglia.

E la dea bendata ci sorride. Proprio mentre vengono tessute le lodi di uno straordinario, eccezionale cappellino invernale di marca “Le Motel”, con tanto di logo (un tricheco), mi permetto di dire: “Boh, io non la porto mai ‘sta roba” e il mio 903 viene miracolosamente estratto. Tutti i compari mi fanno letteralmente le feste, perché tra noi sono il primo vincitore della sera. Festa doppia, perciò, quando i fidanzatini del gruppo si portano a casa il premio più ambito, un ingresso per due al prossimo concerto dei Beach Fossils. Siamo i fortunati della serata, scherzosamente invidiati dai partecipanti della tombola che incrociamo in un angolo fumatori che ha la stessa atmosfera del ritrovo delle zie in giardino con le loro sigarette prima del dessert, la sera del 24. È la magia del natale.

“Lo senti? Stanno iniziando i Biche!”. Buttiamo i mozziconi nel posacenere e ci dirigiamo verso l’interno, con la stessa fretta del parente a cui è stato chiesto di andare a dare una mano per portare in tavola le fette di panettone. Nella sala concerti, il pubblico è in un silenzio un po’ religioso, un po’ divertito, un po’ commosso, come se stesse ascoltando il coro dei bambini che canta Tu Scendi Dalle Stelle. In realtà, sul palco, illuminato di un colore azzurro come quello dei fiocchi di neve, i cinque ragazzi di Biche stanno suonando la bellissima Kepler, Kepler, una delle canzoni più riuscite del (lui sì) freschissimo LP del 2019 La Nuit des Perséides. A cavallo tra generazioni di pop-rock di foggia inglese, ma con un piglio melodico francesissimo, questi giovani talentuosi sono riusciti a plasmare un sound sognante, appassionato e quasi sensuale. Ponte di congiunzione dei nostri giorni tra Beatles (vedasi le chitarre alla Taxman), i Blur di Parklife e le psichedelie gentili e innamorate degli anni ’60 degli Stereolab, la miscela Biche sa essere originale e al contempo referenzialista, ma senza pesantezza e in maniera giocosa e sbarazzina (in effetti, il cambio maglietta del cantante che, sorpresa, era anche batterista degli Speed 3, spiega tutto: vedasi foto).

Che i Biche siano un gruppo sopra la media nel loro genere è chiaro fin da subito. Ma c’è una cosa ancora più evidente: stasera i Biche stanno suonando esclusivamente per amici e parenti. Lungi da loro, perciò, l’idea anche rispettabile di fare uno showcase esaustivo del repertorio o di raccontare qualsivoglia aneddoto informativo su album, singoli, collaborazioni e altri successi. Non ci sono discografici o personaggi influenti all’ascolto, e anche se ci fossero stasera l’unica cosa che conta è passare un buon momento con i propri cari. Gli outsider come me, pur divertendosi e godendosi la musica, non capiscono nemmeno granché di quel che succede: ad esempio, una loro amica che non sappiamo chi sia (nota a posteriori: è la cantante di En Attendant Ana) monta sul palco e canta la maggior parte delle canzoni col gruppo, che del resto funziona benissimo a due voci; il quintetto, inoltre, ci delizia con tante novità e pezzi mai sentiti. Ovviamente, c’è spazio per diversi fan-favorites: penso alla dolce Le Laboratoire, così ondeggiante che anche il Petit Bain sembra per un attimo muoversi sulle onde: un finto walzer dai retrogusti krautrock che tutti sogneremmo di ballare con la nostra ragazza dei sogni in una sala del liscio creata apposta per nerd come noi. Nonostante la solidità impressionante della band sulle canzoni già rodate, però, sono proprio i pezzi inediti a brillare. “Non lo so se vi piace, quando ai concerti partono le canzoni nuove…”, dice il fascinoso Alexis Fugain, leader della band. Stasera piace a tutti: tra le varie novità, apprezzo particolarmente una cannonata synth-pop a 200 bpm (complimenti al tastierista per la resistenza delle dita) e la gagliardissima e ritmata L’Engranage, che non necessita di più cowbell ma che aspettiamo in gloria in un prossimo disco.

Nella spensieratezza di questo cenone musicale di natale coesistono sia il divertimento naïf dell’infanzia che la gratitudine, più adulta, del sentirsi in famiglia. Il set di Biche passa in un baleno e nei volti del pubblico si indovina solo ed esclusivamente una piacevole soddisfazione. C’è chi come me, ad occhi socchiusi, si lascia ipnotizzare da canzoni colorate come le lucine che lampeggiano sull’albero; c’è chi sorride, chi ride; c’è chi canta, chi balla, chi ruzza e chi se ne sta fermo, anche a braccia conserte, a godersi un gruppo che potrebbe (meritatamente) essere destinato a grandi cose, e che, malgrado un’aura di sofisticatezza che può ingannare l’occhio inesperto, ci ha mostrato di essere capace di trasmettere un’intimità senza artifici. I ringraziamenti finali sono sinceri come quelli che si possano fare a chi ti ha offerto un bel regalo, e suonano proprio diversi dalle classica formalità dell’etichetta da palcoscenico. Di rimando, pure dal pubblico si sente montare più di un “merci”.

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Come ad ogni cenone che si rispetti, ci beviamo un ultimo digestivo che forse è di troppo, ma che avrà il merito di farci dormire serenamente. Ci facciamo due risate con la gente del pubblico e poi, presi da un inizio di sonnolenza dopo l’abbuffata indie di stasera, decidiamo di tornarcene a casa. Prima di andare alla fermata della metro ci fermiamo simbolicamente sul lungosenna come farebbero gli ospiti sul pianerottolo e salutiamo questo nuovo parente, il Motel, a cui promettiamo di rendere visita appena potremo. Da dietro, il Petit Bain ci fa anche lui ciao ciao con la mano, in modo meno solenne perché tanto ci vediamo già spesso.

Tra pochi giorni parto per Firenze e gli amici con cui ero stasera non li rivedrò per qualche settimana. Ci auguriamo buone feste e, per una volta, pronuncio queste frasi universali, trite e ritrite, credendoci davvero. Buon natale, buon anno, state bene.

A volte mi sembra tutto forzato e stupido. A volte vorrei che le tradizioni non esistessero, e che certi giorni, certi periodi, si potessero vivere senza caricarli di significati che mi lasciano indifferente. Poi, un po’ vittima degli eventi, un po’ spinto da una forza invisibile, ti ritrovi a passare dei momenti speciali come quelli di stasera e ti rendi conto che a volte certi principii astratti sono più forti di te. A capodanno non so cosa faccio, ma so che lo passerò con chi voglio. Il natale del Motel invece, come da proverbio, l’ho passato con i miei.

lunedì 18 dicembre 2023

Stereo Totale's Quarterly Business Review - 4 Mixtape per Dicembre 2023

Il natale è ormai alle porte, la fine dell’anno quasi la si tocca con mano, e dicembre è passato in fretta. Un po’ mi sono calmato coi concerti, e i pochi che ho visto non mi hanno ispirato pagine e pagine dei miei soliti muri di testo. Detto ciò, su questo blog non ce ne siamo mica stati con le mani in mano, anzi. Negli uffici della Stereo Totale SRL (azienda che è multinazionale fin dalla sua nascita) c’è ancora più fermento del solito: sono passati ormai quattro mesi dal lancio del brand e tra continui meeting, qualche joint-venture e la ricerca continua di nuovi deal, la timetable è stata parecchio serrata, ma adesso una domanda sorge spontanea: come sta andando il business? È il momento di lasciare un attimo da parte le task in corso, concentrarci su una vision un po’ più on the long run, in linea con la nostra mission e quella dei nostri partners. Tutto chiaro?

Quattro mesi fanno un quadrimestre, e nello spirito corporate sappiamo bene che non si può pronunciare la parola “quadrimestre” senza rimandare a un’impellenza stagionale inevitabile: la Quarterly Business Review, per gli amici QBR. Vi do perciò il benvenuto in questa nuova rubrica, un po’ diversa dai classici live report o altri articoloni che vi capita di leggere qua. Ovviamente, è una rubrica che cadrà ogni quattro mesi e che, ve lo prometto, non conterrà mai più nessun altro fastidioso gergo aziendale.

La Stereo Totale Quarterly Business Review, in sostanza, è quel momento in cui, dopo tante (troppe) parole riversate a raccontare concerti, dischi e canzoni, finalmente posso posare la penna sul calamaio e far parlare la musica al mio posto. Da qualche tempo ho sviluppato un nuovo svago, che è quello di creare dei semplicissimi mix su Audacity, per avere dei file pieni di musica senza pause da condividere un po’ con chi capita. Un bel mix, come un diamante, è per sempre. Un bel mix può servire a tantissime cose, e oggi servirà soprattutto a fare un piccolo bilancio delle attività del blog nell’ultimo quadrimestre. Spoiler: sono stati quattro mesi stupendi, pieni di tanta bella musica, e infatti i mix sono riuscitissimi e ci sono solo pezzoni. I miei lettori sono sempre fantastici, gli sono molto riconoscente e per questo approfitterò delle QBR per far loro un piccolo ma meritatissimo regalo.

Senza troppi giri di parole, perciò, vi lascio sotto l’albero di natale non uno, non due, non tre ma quattro mix. I due mix “QBR” contengono un po’ tutta la musica di cui si è parlato su Stereo Totale fra settembre, ottobre, novembre e dicembre. Ci sono varie ragioni per cui i mix sono due: innanzitutto, per me il mix perfetto dura 45 minuti all’incirca, e un solo mix con tutti gli artisti citati sarebbe durato molto di più; inoltre, negli articoli del quadrimestre abbiamo trattato di musica molto diversa, a volte estremamente rumorosa e a volte invece dolce e delicata, che ho voluto dividere per coerenza. State perciò attenti a cliccare bene sul link giusto: vi sconsiglio di mettere “The Loud Stuff” in sottofondo al cenone coi parenti, così come sconsiglio di pomparvi nelle cuffie “The Calm Stuff” quando siete sonnolenti a lavoro (magari distrutti dal concerto della sera prima) e dovete reggervi in piedi per l’ultima ora del turno.

Siccome sembra brutto regalare solo due mix su quattro mesi, mi impegno a trasmettervi, in questa e nelle future Quarterly Business Review, anche due altri mix “bonus”. Si tratta di miscellanee a tema che ho prodotto per diletto al di fuori dell’attività blogghistica. A questo giro ho deciso di riciclarne due che ho fatto in estate: “What is Garage Rock” è un compendio del meglio di ciò che, nella mia visione, si può definire garage rock, ma il suo titolo si può interpretare anche come una domanda, filosofica ma del tutto legittima, su cosa davvero significhi quest’etichetta così labile e astratta; “Synthetic Laughs, Synthetic Tears”, invece, è una raccolta di canzoni synth-pop tutte accomunate dal fatto di essere al contempo allegre e tristi, che ho riunito quasi con la voglia di provare che questa melancolica ambivalenza è l’essenza stessa del genere. Potete ascoltare in streaming o scaricare questi quattro mix sul link Mega qui sotto. 

Mega  Stereo Totale QBR - Dicembre 2023

Tengo a ribadire che, non essendo io un professionista, tutti i quattro mix e in particolare i “bonus” sono di livello amatoriale e pieni di difettucci, tipo che a volte i volumi tra una canzone e l’altra non sono equilibratissimi. Spero comunque che vi piacciano e che tutta questa bella musica possa diffondersi il più possibile. Non lascio volontariamente nessuna tracklist per non rovinare la sorpresa. Inoltre, se davvero vorrete l’ordine e il nome delle canzoni (e del sample vocale che annuncia sempre la fine del mix, mia piccola idiosincrasia) potrete chiedermeli nei commenti o sul mio Instagram (dai che ce l’avete tutti) e magari così potremo anche chiacchierare.

Buon ascolto!

mercoledì 6 dicembre 2023

Trovare la pace dove meno te l’aspetti - Il concerto di consacrazione dei Grand Blanc, stella brillante dell’ambient-pop

Grand Blanc live @La Gaîté Lyrique, Parigi, 30/11/2023
Introduzione, o il primo inserto di cronaca rosa di Stereo Totale

Le tende davanti alla finestra restano aperte per tutta la notte. Il sole si alza tardi, ma ultimamente mi sveglio stanco, molto prima che sorga, molto prima della sveglia. Non ho ben compreso questo fenomeno recente, ma ho una teoria: la vita va troppo in fretta e il mio corpo per compensare ha deciso, per conto suo, di regalarmi dei momenti di quiete mattutina. In francese si direbbe proprio un “cadeau empoisonné”, un regalo avvelenato. Nella mia stanza, dove la luce è quella di un crepuscolo al contrario, mi alzo prima del previsto con rassegnazione.

I grattacieli della Défense, nel passaggio della linea 13 sopra alla Senna, sono coperti di bruma. La gente si stringe il cappotto attorno al collo all’uscita della metropolitana, per proteggersi dalla ventata gelida dello sbocco d’aria. Nell’aria piovigginosa, in mezzo al viavai di automobili, nessuno dei volti che incrocio accenna un sorriso. La pioggia ticchetta sul soffitto a vetri dell’ufficio, alzo la testa dalla scrivania. Il cielo, dietro alle luci fredde dell’open air, è grigio e scuro. Butto giù un sorso del caffè amaro nella tazza, che ormai è freddo. Il telefono vibra e un messaggio su Whatsapp alleggerisce la situazione: “so pumped for tonight!!”. Finalmente qualcosa di un po’ rinfrancante: in questo periodo dell’anno dove le soddisfazioni sono brevi e passeggere e le delusioni sono un po’ più dolorose del normale, è una benedizione avere un’amica come Lauren l’Americana che mi spalleggia. Stasera però sono io a spalleggiarla. “meetup 7PM”, le rispondo.

Da un mese a questa parte Lauren mi chiede spessissimo se voglio andare a vedere i Grand Blanc. Non ho idea di chi siano e mi sento molto occupato di questi tempi, perciò faccio l’uomo di mondo e le do risposte equivoche tipo “vediamo dai”, “eh ci penso”, “boh dai ti dico”. Poi una settimanina prima del concerto mi chiede di accompagnarla con un tono di voce molto diverso da quello di chi ti propone di venire a sentire un gruppo che gli piace. Il suo “Please come with me to the concert” suona veramente come una richiesta di sostegno amicale, ed è troppo difficile da rifiutare. Per un concerto, si può fare. Ma perché la mia presenza è richiesta stasera? Non lo posso spiegare se non con una piccola licenza stilistica inaspettata, ovvero: il mio primo inserto di cronaca rosa. Prima di parlare di musica e di tutto quello che ci ruota attorno mi concederò perciò un paio di pettegolezzi.

Se dovessi descrivere Lauren in tre parole direi subito: piena di sorprese. I miei lettori più assidui l’hanno già incontrata: la californiana innamorata della musica francese degli anni ’70 che però si pompa i Deerhoof. Ma Lauren ha sempre tante soprese in serbo, di cui alcune giusto sbalorditive (non le chiedete chi ha votato alle elezioni, mi raccomando), altre di cui invece col tempo ci si abitua, tipo quando tira fuori dal nulla frasi come: “Ho incrociato l’ex-ministro della cultura, abbiamo fissato un appuntamento per parlare di musica”. Tra questi aneddoti talmente sopra le righe che ormai li diamo per scontati c'è una recente storia di passione con una personalità musicale francese decisamente inserita nei piani alti del musicbiz che, tra le tante, ha connessioni con il gruppo che suona stasera. 

Avrei risparmiato questi dettagli ai lettori ma so che la mia amica, sotto sotto, ama che si faccia un po di sano gossip. Inoltre, questa piccola parentesi illustra bene che al concerto dei Grand Blanc ci sono capitato più per caso che per un interesse musicale profondo. Ovviamente Lauren stasera un po’ vuole e un po’ non vuole rivedere il ragazzo in questione. “It’s complicated”, e i veri amici si vedono proprio quando le cose si fanno complicate.

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Amori nervosi nel Palazzo dell’Ambient

Qualche giorno prima dello show mi metto ad esplorare la musica dei Grand Blanc. Sono un ottimo amico, per carità, ma non al punto di venire a un concerto di musica che non mi piace (quello mi è capitato di farlo quando ero un buon fidanzato: errore fatale). Mi convinco fin da subito che vale la pena di venire perché questi giovani di Metz (città più bella di Francia) non solo hanno pubblicato tre LP veramente validi, ma secondo me sono in odore di consacrazione. Il primo indizio che mi fa dire ciò è il biglietto, un po’ costosetto, per vederli suonare nell’immensa Gaîté Lyrique (dove ho visto gli Stereolab, per dire). Il secondo indizio è la loro traiettoria discografica recente. Ma andiamo per gradi.

Il primo full-lenght dei Grand Blanc, Mémoire Vive (2016) colpisce subito per il suo approccio synth-rock (mi concedo il neologismo) moderno senza essere avanguardista e nostalgico senza essere desueto. Le drum-machine pestone, i chitarroni e i sintetizzatori di ispirazione post-punk offrono una memorabile collezione di canzoni energetiche, cupe ma anche orecchiabili. Il termine “coldwave”, che non mi è mai stato troppo simpatico, si può applicare abbastanza serenamente al debutto dei Grand Blanc, visto il suo approccio grintoso e quasi aggressivo. Non si pensi però che è musica lugubre e squallida all’inverosimile, come quella di gruppi a cui è affibbiata la stessa etichetta (penso ai crudissimi Oi Boys, anche loro di Metz): al contrario, i raggi di luce sono frequenti e portano perlopiù un nome, quello della vocalist Camille Delvecchio, la cui voce purissima funziona benissimo in contrapposizione con quella ben più rude dell’altro cantante, Benoît David. Al secondo album dei Grand Blanc, il riuscitissimo Image au Mur (2018), la definizione “coldwave” sta già strettissima vista la sua sensibilità pop molto più pronunciata. Pur mantenendo le ritmiche fredde e la spinta rock anni ’80 del suo predecessore, l’album concede più di un momento radio-friendly e i tappetti sonori si fanno sempre più volentieri meno ombrosi, regalando tante incursioni in un nuovo reame di dream-pop molto originale nel conservare la sua essenza lorena, ovverosia contemplativa, un po’ austera e un po’ malinconica.

(Per inciso, la Lorena è la mia regione francese preferita in assoluto, ma ne parleremo semmai un’altra volta.)

Ed è qui che arriviamo al terzo album, Halo, uscito ad aprile 2023. L'ultima fatica dei “messins” mantiene la predisposizione dei loro lavori precedenti per orizzonti fonici atmosferici, ma fa la scommessa di esasperarla al massimo. Le drum machine sono quasi inesistenti, sostituite da arpeggi svolazzanti, e il suono della band che ha sempre brillato nell’alternanza di voci (quella femminile eterea ed ipnotica, quella maschile sanguigna e poetica), si sublima in un ambient-pop intimista, al contempo ricercato e “grand public”. Senza dubbio stasera, in un decoro di eccellenza, è questo nuovo abito dei Grand Blanc che sarà celebrato.

Curioso di vedere in cosa si sostanzia questo possibile nuovo fenomeno della musica francese, arrivo molto presto alla Gaîté Lyrique, vero e proprio palazzo nobiliare dalle colonne in porfido rosso, che affaccia su una piazzetta alberata della Parigi bene. Al suo interno, il sontuoso edificio si sviluppa più come uno spazio artistico multidisciplinare che come una sala concerti tradizionale. In compenso, c’è un bar prima dell’ingresso alla zona musica (che sciccheria!), perciò mi metto ad aspettare Lauren con una birra e ne approfitto per leggere la programmazione concertistica della Gaîté, a cui vengo molto di rado. Effettivamente, la proposta musicale è molto specifica e lontana dalle assi principali del mio gusto: tanta elettronica sperimentale (tra qualche giorno vengono Alessandro Cortini, Panda Bear e Sonic Boom), musica contemporanea (noto il passaggio di un’orchestra che suona Steve Reich), un po’ di noise-rock spigoloso e/o modulare (The Psychotic Monks a gennaio vengono a consacrarsi anche loro) e, quando si tratta di abbassare un po’ l’intellettualismo, grandi act elettronici popolari ma sempre un po’ “branchés” (Nicolas Jaar, Jacques, Flavien Berger etc). Una volta esplorata la programmazione del centro culturale, osservo le sue frequentazioni: stasera tanta gente giovane, dallo stile un po’ alternativo. E poi, beh, quel popolare musicista di cui vi parlavo prima, con cui incrocio per sbaglio lo sguardo, con imbarazzo.

Lauren arriva due minuti dopo. È tesissima, un fascio di nervi, e le tremano le mani. Talmente nervosa che anch’io, per proprietà transitiva, mi sento addosso un po’ di quel magone da innamorati. Ci ritroviamo al piano di sopra, al di là del controllo biglietti, a vagare tra l’anticamera, una grande sala bianca e moderna, e il secondo bar, uno stanzone sfarzoso con grandi vetrate e affreschi ottocenteschi. Più che vagare, stiamo evitando ogni tipo di contatto col capellone in questione. Persino i baristi, con cui proviamo ad essere il più scherzosi possibile (uno ha la maglia del Milan, un altro è uguale spiccicato ad Aphex Twin), sembrano accorgersi dello stress che emaniamo. Addirittura mi viene uno dei miei classici tic nervosi: comincio a cantare a ripetizione il ritornello della canzone che ho in testa, che visto il setting un po’ french touch è Daft Punk Is Playing At My House degli LCD Soundsystem.

Per distrarci, decidiamo di andare a vedere l’opening act. La sala dove c’è la musica è un grosso scatolone nero al quale si accede da pesantissime porte simil-depressurizzate. Al suo interno questa Zona architettonica di tarkovskiana memoria, dove la ricezione telefonica scompare nel nulla, appare smisuratamente grande, con soffitti altissimi. Un setting che, più che le sale concerto che frequento di solito, ricorda più il salone delle sonorizzazioni elettroacustiche dell’IRCAM, dove un paio di anni fa io e mio babbo andammo a vedere una composizione di Xenakis che ci lasciò più sdubbiati che altro. Passano pochi minuti, che spendiamo perlopiù a guardarci attorno paranoici, poi si spengono le luci. Il sipario si apre (!) e appaiono Adrien Pallot & Pierre Piezanowski, due musicisti che, con sintetizzatori e chitarra, propongono canzoni relativamente brevi di un’ambient nuda, cruda e senza grandi fronzoli. Non è spiacevole, ma non è né troppo originale né troppo coeso: in certi brani tutto si appoggia sul drone psichedelico (ve li ricordate i Mohave Triangles?), in altri ho l’impressione di ascoltare un vecchio progetto di William Basinski, o ancora degli Stars of the Lid… Sarà, o non ne capisco una mazza io, o davvero il concerto non è niente di eccezionale, o sono ancora un po’ sotto l’influenza stressata di Lauren. Probabilmente tutte e tre, fatto sta che dopo quindici o venti minuti perdo un po’ di interesse e propongo di andare a fumare. Facendoci strada tra la gente ovviamente mi trovo davanti la presenza di quel cavolo di chitarrista che ormai fa sussultare anche me.

Camminiamo per altri tre metri e poi prendo Lauren per le spalle e la guardo fissa negli occhi, tra le luci del palco e note lunghissime che impregnano l’aria. Sembra quella scena di Skins dove Tony e Sid si incontrano al concerto dei Crystal Castles.

“Have you seen him?”
“No, what?!”
“Sista, we fucking walked past him. He’s there. You go talk to him now.”
“Well…”
“I’ll wait for you at the exit.
Now go”.

***

Meravigliarsi per dimenticare tutto, la lezione di vita dei Grand Blanc

La nostra pausa sigaretta ha un’atmosfera strana. Il nervosismo ha lasciato spazio a più spaesamento che altro. Lauren ha spiccicato tre parole in croce con il ragazzo misterioso. Sono un po’ arrabbiato con me stesso per essere stato così duro e “forceur”, un po’ deluso da Lauren che se n’è uscita soltanto con un misero “Coucou, ça va?” e poi se n’è andata, un po’ preoccupato perché non so come si sente la mia amica, se triste, dispiaciuta o stizzita. Chiacchieriamo con gente a caso davanti alla Gaîté Lyrique per ammazzare il tempo e quel miscuglio di sentimenti che ci centrifugano dentro (a me a velocità standard, a lei biturbo). Come se non bastasse fa un freddo becco.

Non resisto più in quest’aria gelida e un po’ mogia, perciò torno dentro. Lascio Lauren fuori con gente che abbiamo appena conosciuto, le dico che ci vediamo dentro alla sala. Appena entro nel cubo della musica, però, mi rendo conto di quanto sia ambizioso il mio programma: c’è una quantità immane di gente. Ecco, adesso sono anche incazzato perché vedrò il concerto da lontano. Provo ad avvicinarmi quanto posso, arrivo a un punto quasi soddisfacente ma non del tutto. Poi un ronzio di synth. Si spengono le luci e il sipario si apre, ma non si vede praticamente nulla di quel che c’è sul palco. Il buio è fitto, non c’è campo e sbuffo di nuovo: mi tocca pure vederli da solo, i Grand Blanc. Poi si accendono le luci e tutti, ma proprio tutti i presenti, cacciamo un “oooh” di meraviglia tra i più rumorosi che abbia mai sentito in vita mia.

Sul palco c’è una cresta rocciosa altissima e splendida. In cima, a qualcosa come tre metri da terra, un’arpa sinuosa. Seduta su uno sgabello, Camille Delvecchio comincia a pizzicare melodie complesse e sbalorditive. Una presenza luminosa e paranormale, a metà tra l’inquietante fantasma e le visioni divine che atterriscono i viandanti. La sua voce, piano piano, passa da vocalizzi mistici a frasi sempre più udibili, come un corpo che ritorna alla vita dopo un secolo di sonno. Le sagome dei tre ragazzi sotto di lei sul palco si fanno sempre più nitide, la chitarra e le tastiere si sentono sempre di più. Il primo crescendo è estatico, e mi lascia a bocca aperta. Non ricordo di aver mai visto coesistere delicatezza ed intensità in maniera così naturale, è un miracolo di purezza. La canzone dovrebbe essere Pillule Bleue, ma se faccio errori di setlist non me ne vogliate: se di solito mi tengo vivo nella mente qualche elemento lirico o strumentale dei brani per poi poterli citare di nuovo nei miei live report, adesso non mi passa nemmeno nell’anticamera del cervello. Mi faccio soggiogare dallo sbigottimento, e scompare tutto: la solitudine, le delusioni, la stanchezza, le insicurezze. Un po’ scompaio anch’io.

Quel che segue è uno dei più bei concerti dell’anno. Delvecchio raggiunge i suoi compagni scendendo aggraziata dalle pareti rocciose, scenografia che, passato lo stupore iniziale, non appare più ultraterrena, ma molto elegante. L’affiatamente del gruppo, ora che sono tutti sullo stesso piano e che l’arpa ha lasciato spazio a una più sobria chitarra, è palese e toccante. Mi emoziono con Loon, ballata suadente come un canto di sirene, che parla di viaggi lontani avvolgendo la platea sotto a un manto di arpeggi, e melodie che si incrociano con una spontaneità tale da nasconderne anche l’intricatezza tecnica. Un’altra canzone di sette minuti che è passata veloce come un sospiro: il pubblico è quasi preoccupato di applaudire o urlare talmente l’aria rimane sospesa. Per fortuna Benoît David prende in mano la situazione e alleggerisce l’atmosfera raccontandoci un po’ della “lore” di Halo con una buffa voce sognante: i Grand Blanc che trovano l’ispirazione per il disco sul delta del Danubio in Romania, poi la trasformazione di una casa nel bosco (“les Parages”, i Paraggi) nel loro studio artistico e nella loro etichetta, le tante sessioni di registrazione all’aria aperta… Insomma, tutta una serie di storie suggestive che aggiungono ancora materia a quello che ormai sono convinto sarà il prossimo mito del pop alternativo francese.

E che ventata di aria fresca, se così fosse! Il sound di Halo ha una profondità inedita e tutta da scoprire: seppure le chitarre pizzicate e i sintetizzatori ambient sono le solide fondamenta di praticamente tutte le canzoni, le sorprese sono tante: penso alla coda quasi noise (a cui la voce di David si abbina benissimo) della struggente Orange, o ancora alle gentili distorsioni di Nuit des Temps e all’assolo di sassofono suonato dallo “special guest” Adrien Soleiman, sagoma sciamanica che spunta nell’ombra in cima ai pinnacoli dei Parages. E anche liricamente i loreni possono regalare tante emozioni insospettabili: nell’intro strabiliante di Ailleurs, con i suoi synth lancinanti (questi sì, un po’ “french touch”), la citazione a Françoise Hardy colpisce nell’anima all’insaputa: “Tous les garçons et les filles de mon âge”… È proprio mentre mi sto facendo accecare dal suo commovente ritornello che per magia Lauren mi ritrova. L’abbraccio che ci diamo, più che per la felicità di ritrovarci, è per quella di essere davanti a un fenomeno così splendido, un’aurora boreale sul palco che ci lascia senza parole. Ci diciamo: “Hey, this gig is…” “Yeah, it’s…” e non troviamo nemmeno l’aggettivo giusto. Appena i quattro di Metz escono dal palco rifiatiamo un po’ e possiamo cominciare a trovarne qualcuno: jawdropping, astounding, flabbergasting. E non abbiamo nemmeno ancora visto l’encore!

Un encore perfetto è un encore che ti vizia, e anche in questo i Grand Blanc dimostrano una maestria da veri grandi. Io vorrei sentire Belleville, composizione new-wave vivace con un poetico testo sull’asprezza della vita urbana (tutto rimanda al quartiere parigino, ma amo pensare che sia una strizzata d’occhio anche a quell’industriosa Belleville che sta sulle rive della Mosella). Mi convinco che, visto il sound e la tematica, non c’è spazio per un pezzo del genere in questo set, e rimango sorpresissimo di sentirla partire in un riarrangiamento soave e senza batteria. Questo mitico singolo di Image au Mur, nella sua versione soft, finisce inaspettatamente con un’esplosione di sintetizzatori conditi di feedback degna di shoegazers esperti, che ci spettina a dovere. Lauren, lei, voleva sentire Oiseaux, ma dopo una scossa elettrica del genere sembra improbabile di tornare alla delicatezza delle corde acustiche. Invece Delvecchio approfitta del frastuono appena consumatosi per riprendere posto all’arpa, come all’inizio, e chiudendo il cerchio riaccompagnarci progressivamente verso un ultimo, placido, lido sonoro dove tre chitarre possono disegnare il meraviglioso intreccio degli stormi di rondini nel cielo, dandoci un ultima, serena, estasi.

Il concerto è finito e tutto il pubblico è in visibilio. In una situazione normale direi a Lauren, forse con toni un po’ petulanti: “Eh sì, me lo sentivo proprio che questo era il loro concerto di consacrazione!”, ma non me la sento di dire nemmeno una parola. Mantengo solo un grande sorriso e biascico qualche: “Great, great”. La sensazione che ci sentiamo addosso, soprattutto, è un totale distacco da tutte le manfrine di inizio serata. La lezione di vita dei Grand Blanc è stata chiara, immediata ed efficace: l’immensità e la bellezza hanno il potere sovrannaturale di rimettere a fuoco le nostre ansie e difficoltà quotidiane, trasformandole in qualcosa di piccolo, se non irrisorio. Il concerto di stasera (sembrano stereotipi ma è vero) ci insegna che a volte per stare meglio con noi stessi c’è solo bisogno di ritrovarsi a tu per tu con la foresta, il crinale, la terra, gli uccelli, o persino i fiori (come ci ha insegnato poco fa Benoît David prima di attaccare Fleur). In assenza di elementi naturali, può bastare la dolcezza delle corde di metallo dell’arpa, il suono che esce dal legno della cassa di risonanza della chitarra o persino un synth ben calibrato su frequenze trascendentali. A suonarle, però, devono essere dita talentuose, e stasera quelle dei Grand Blanc ci hanno fatto il regalo di prestarle al servizio della nostra meraviglia. La meraviglia, sì, e un nuovo sentimento di pace.

È con una leggiadria inaspettata e che mi mette di buon umore che la mia amica del cuore va a parlare con quel ragazzo che tanto le piace mentre beviamo l’ultimo bicchiere. Sotto la luce sofisticata della hall della Gaîté Lyrique, getto anch’io uno sguardo più duraturo verso al chitarrista del cuore di Lauren: si vede che, nonostante passi la vita ad accompagnare famose cantanti su grandi palcoscenici, è una persona gentile e dolce. Niente di cui stupirsi visto che è anche amico dei Grand Blanc, che sembrano veramente dei pezzi di pane (questa la mia impressione anche quando li ho visti “in borghese” fuori dalla venue mentre ero in fila per entrare, intenti a confezionare il tenero foglio di ringraziamenti che hanno srotolato sul palco).

Torniamo a casa, entrambi verso il dipartimento 92, e la metro è sorprendentemente affollata ma, in pace con noi stessi come siamo, non ce ne accorgiamo nemmeno. Parliamo di come ci sentiamo ultimamente, di cosa vogliamo fare nei giorni seguenti. Lei chiederà un nuovo appuntamento al tipo che era tanto stressata di rivedere, io continuerò la mia vita di tutti i giorni e vedrò come va. Sono contento, quantomeno, di avere un’amica così speciale con cui condividere sia i momenti di angoscia e di smarrimento sia quelli di bellezza e serenità, sempre con la stessa vicinanza e la stessa fiducia. 

***

Conclusione

Sono le sei del mattino, il giorno dopo, quando mi sveglio ancora una volta assetato. Bevo dell’acqua, provo a riaddormentarmi, ma mi ritrovo a rigirarmi nel letto per un’ora. Ancora una volta, mi alzo con rassegnazione. La giornata sembra il clone di quella di ieri: i grattacieli nebbiosi della Défense sopra alla Senna, il vento freddo all’uscita della metro, i volti seri e incappucciati dei passanti, la pioggia sul vetro, il caffè freddo.

Una sola cosa è cambiata: dentro di me sento che da qualche parte, là fuori, ci sono amore e infinita bellezza. Basta questo a tenere viva una luce. Metto su la musica. Accenno un sorriso.

giovedì 30 novembre 2023

Un rituale di inizio inverno - Al Festival BBMix con Arab Strap, La Féline e R. Aggs

Arab Strap live @Carré Belle-Feuille (Festival BBMix), Boulogne-Billancourt, 25/11/2023

Introduzione: un inizio di stagione

È fine novembre ed è venuto un gran freddo. Le foglie cadono dagli alberi, e mi godo il loro odore quando si accumulano per terra giallognole e ancora un po’ fresche. Vedere il vapore uscirmi dalla bocca mentre respiro l’aria del mattino mi mette una certa esaltazione: finalmente finisce una mezza stagione dubbiosa e arriva un vero inverno. Vado al mercato e noto con piacere il ritorno di una vecchia amica, l’“endive”, l’insalata belga, compagna fedele delle mie cene invernali. Tiro fuori dall’armadio il piumino canadese marrone chiaro, che mi dà un aspetto serio ma gentile. E poi ovviamente, come con la verdura, mi rigusto un po’ di musica di stagione. L’equivalente delle indivie, il gruppo invernale definitivo, per me sono i Mineral: quel midwest emo sensibile, un po’ tremolante un po’ pungente, descrive l’inizio dell’inverno come non lo fa nessun’altra musica. Metto su The Power of Failing e Five, Eight and Ten mi racconta come mi sento meglio di come potrei farlo io stesso: un po’ malinconico, un po’ preoccupato dal freddo e dal buio che arriva, ma soprattutto emozionato dalla novità e sorpreso da quest’emozione che si rinnova ogni anno come una prima volta. Per un po’, voglio godermi questa energia. Poi, magari, tutte le foglie saranno cadute e i rami degli alberi disegneranno nel cielo scheletri scuri come nella copertina di Burning From the Inside dei Bauhaus. Ma ancora non mi sento “dark”, no. Mi sento elettrico come la scarica di feedback che ti ridesta prima dell’ultimo ritornello di Slower.

Mentre mi godo queste sensazioni di cambiamento del sabato mattina, mi metto a organizzare la giornata. Verso le 19 stasera devo essere a Boulogne. Ottimo: una scusa perfetta per farmi una passeggiata di due ore e passa e attraversare il famoso Bois nell’aria meditabonda dell’“heure bleue”. Poi arriverò alla sala e ci sarà un grande concerto. Ricontrollo la pagina dell’evento per avere l’indirizzo preciso e l’occhio mi scivola su una parola in particolare: festival. Festival, festival, festival… Un festival? In questo momento dell’anno? Cosa?

Era ancora una fine settembre dal sapore estivo quando è stata annunciata la line-up del Festival BBMix. Appena ho guardato il cartellone due nomi, in un’associazione imprevedibile, mi hanno subito fatto saltare sulla sedia: Arab Strap e La Féline, una combo di artisti diversissimi tra loro che, per motivi diversi, volevo assolutamente rivedere. Ancora si usciva fuori di casa con le maniche corte, ai concerti si sudava tantissimo e la parola “festival” aveva quella naturalezza tipica delle giornate d'estate. Ne avevo anche fatti un bel po’ di festival quell’estate, più di quanti ne avessi mai fatti, e in tutto ciò avevo definito la mia politica a riguardo, ovvero: siccome sono sempre esperienze un po’ impegnative, non me la sento di fare più di una giornata e vengo solo il giorno in cui ci sono gli artisti che preferisco. Poi se scopro che lo spirito, la linea editoriale e l’organizzazione generale mi piacciono, tornerò l’anno dopo un po’ più studiato. Perciò a settembre prendo i miei biglietti per il sabato del BBMix con serenità e senza pormi la domanda che invece oggi mi preme: a cosa diavolo assomiglia un festival di periferia a inizio inverno?

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Lacrime di gioia con R. Aggs e la sua danza allegra contro un mondo malato

Arrivo al Carré Belle-Feuille con le gambe un po’ provate. La passeggiata di dieci chilometri e pochissime pause che ho appena fatto mi ha riportato coi piedi per terra, e specialmente la pettata di 45 minuti nel gigantesco Bois de Boulogne, molto meno bucolica del previsto, ha trasformato la mia energia minerale in uno stato meditativo un po’ triste (in sostanza ho attraversato un solo sentiero, costellato di prostitute e parallelo a uno stradone dove le macchine sfrecciano a tutta velocità). Succede.

Entro nel locale, che in realtà è un teatro dal retrogusto comunale. Assomiglia a quello che si dice di Boulogne nella regione: borghese, sì, e anche tanto, ma con un suo lato “street”. Nella grande sala dove di solito si va a prendere aria in mezzo a due atti, i 2 Limited DJ (un gioco di parole rivolto ai 2 Many?) stanno mettendo un disco dei Tropical Fuck Storm davanti al bar. Mi offro subito una birra ma mi accorgo che non posso portarla dentro la sala e mi trovo costretto a ingollarla in fretta e furia, in questo ambiente un po’ inedito, dove sono più giovane della media e forse anche un pochino intimidito.

Lo spazio dedicato ai concerti è bellissimo, un grande auditorium rosso e comodo. L’opening act monta sul palco poco dopo che mi sono seduto, le luci calano e non ci vuole un master in psicologia per accorgersi che l’intimidazione del luogo è arrivata anche lassù. Con la sua zazzerona di capelli, shorts da calcetto, calzini e camicia colorata, quest’artista che non conosco mette subito simpatia. Il tavolo pieno di cavi, aggeggi e altri oggetti esotici riflette quel caos ordinato tipico degli artisti e degli adolescenti, e quando noto la chitarra e il violino a fianco di tutto quell’hardware non ho idea di cosa aspettarmi.

L’artista in questione è Ray Aggs, personalità chitarristica molto attiva nella scena di Glasgow in tanti gruppi situati tra l’indie rock e il post-punk (Shopping, Trash Kit o Sacred Paws, toccherà recuperare), che stasera monta sul palco del teatro sotto al moniker solista R. Aggs. Chi mi legge sa quanto rispetto io abbia degli opening acts: quello di scaldare il pubblico, metterlo nel giusto stato d’animo, aprire le danze, creare interesse e aspettativa, è uno dei lavori più difficili al mondo. Fare bene una o più di queste cose è fondamentale: ho visto serate finire in sfacelo perché gli opening act non erano all’altezza. Ovviamente i modi per portare a termine questa missione di vitale importanza sono infiniti. R. Aggs, in una serata di musica essenzialmente triste, decide di farlo erogando buonumore sugli spalti come se stesse sparando da una pistola d’acqua. La sua musica, essenzialmente indie pop ma dalle solide fondamenta club music, si arricchisce di un chitarrismo dalle melodie rapide, dolci e concise che è semplicemente pieno di vita. La voce naïve ma dalle incursioni intense di Aggs, insieme a certi passaggi di violino, ogni tanto possono dare un’idea di malinconia. Ma non ci si può veramente intristire davanti al suo modo di ballare autentico e soprattutto al suo sorriso schietto, che trasmettono un bisogno sincero di elargire positività, mentre le drum machine e i synth spingono, spensierati.

Chiudo gli occhi e mi immagino sulla pista da ballo. Le canzoni si susseguono, e tutte scaldano il cuore. Alcune le ricordo ancora, ma non le ritrovo sui suoi due simpatici album su Bandcamp, il che lascia presagire l’arrivo di nuova musica (in compenso su Youtube trovate un intero concerto al bar alternativo Chair de Poule nell’undicesimo arrondissement, per rendervi conto del fantastico live act, e una chiacchierata di un’ora e passa con Big Jeff, il più leggendario spettatore di concerti della storia). Dei pezzi che ho sentito dal vivo, sono contentissimo di ritrovare la minimalista New Beat, che mi aveva colpito perché suona come quelle scrollate di spalle finto indifferenti che si fanno ripensando a una vecchia delusione amorosa.

Appena finisce un’altra canzone sorridente, R. Aggs mi prende alla sprovvista facendo il più bel discorso che abbia sentito quest’anno da un’artista sul palco: un momento di lucidità per pensare alla crudeltà del mondo, alla difficoltà di essere artisti e sentirsi a volte inutili, ma persistere nello scopo di diffondere messaggi che ci facciano sentire umani. Non si può veramente spiegare perché, ma mi ritrovo con le lacrime agli occhi come non succedeva da tempo. Non un luccichio, quello succede spesso, proprio le guance rigate. Meno male che siamo al buio (“I’d like to say that it’s nice to see you, but I can’t really see you”).

Per fortuna posso rimettermi a sesto ridendo un po’. Il finale è un omaggio alla musica house del Regno Unito, sopra le righe e teneramente comico: R. Aggs sbaglia a premere un bottone facendo glitchare tutto e a quel punto “fuck it”, prende la sua stessa musica e ci si diverte, la distorce, accelera i BPM all’inverosimile e ci fa il regalo di proporre qualcosa che nessuno risentirà più suonato così. Il concerto finisce e mi sento riempito di gratitudine. La nuova stagione, forse, mi rende ipersensibile. Ma indipendentemente da questo, mi commuove vedere ancora artisti impegnati in una causa fin troppo sottovalutata, quella di farci capire quanto l’autentica gioia possa essere un’arma potente per migliorare il mondo.

***

Lacrime di nostalgia con La Féline e il suo sguardo sulla terra natale

Mi asciugo un attimo e ne approfitto per andare a fare un giretto di ricognizione. Il Carré Belle-Feuille si è riempito, anche di facce familiari. I DJ, che pensavo sarebbero serviti a chiudere la serata, sono lì soprattutto per accompagnare gli intermezzi, e spinnano roba simpatica compresi i Superchunk. Mi accorgo, però, che gli orari del BBMix sono belli serrati: non si ha nemmeno il tempo di fondersi un minimo con l’ecosistema che già bisogna tornare in teatro per un altro concerto. Ma è coerente che il rituale festival del solstizio d’inverno richieda una certa austera disciplina.

A questo giro mi siedo vicinissimo al palco: sono davvero curioso di rivedere La Féline, alias musicale della scrittrice Agnès Gayraud. Quando venne alla Ferme Electrique del 2022, se non ricordo male, veniva per rimpiazzare un gruppo un po’ all’ultimo minuto, ma ero riuscito comunque ad esplorare parte della discografia. Il pop curatissimo e sinuoso di album come il solenne Triomphe (2017) e l’esotico Vie Future (2019), in particolare, mi avevano decisamente ammaliato. Il concerto de La Féline dentro al fienile della Ferme, in compenso, era stato profondo quanto irrisolto: la voce e presenza carismatica della cantante e le sue linee di basso penetranti avevano sedotto praticamente tutti, ma la formazione estremamente scarna (solo un batterista con lei), in una setlist che proponeva canzoni decisamente barocche, aveva portato a un senso di incompletezza o di potenziale non del tutto sfruttato. Poi, verso la fine dell’anno 2022, è uscito Tarbes.

Al contrario dei suoi predecessori, quest’album ha un concept estremamente semplice: è un disco sulla città natale dell’artista, Tarbes per l’appunto, quarantamila anime nell’estremo Sud-Ovest. È un disco con meno florilegi e meno allegorie, più diretto e facile all’ascolto, i cui temi principali sono il ricordo, il passato perduto, le origini, che ovviamente a un trapiantato come me risvegliano sentimenti reconditi. Ed è per questo che sono euforico appena vedo La Féline (vestita di rosso sgargiante come l’ultima volta) che monta sul palco con altre tre persone e attacca con l’opener, Tarbes: a questo giro, con canzoni meno elaborate e più musicisti, penso che sarà un concertone. Sul mio volto c’è sorriso entusiasta quando Agnès Gayraud comincia a cantare: “Ça fait un moment que je ne suis pas retournée à Tarbes […] C’est un peu loin d’où je vis désormais. Les mois passent. La ville où je suis née, oh Tarbes”. Poi, porca puttana, risuccede: “Je pense aux Pyrénées […] Aux années de lycée, quand déjà je savais que je partirai un jour de Tarbes”. Lacrimoni di nuovo.

Gli acuti della cantante occitana sono il grido dell’emozione della mia quinta superiore a Firenze, la consapevolezza di allontanarsi da qualcosa di amato per una sorta di destino che sembra al contempo inevitabile eppure non del tutto sensato. Sono sensazioni quasi inspiegabili, che solo una voce speciale come quella de La Féline possono risvegliare. E così, mentre mi riasciugo questo pianto precoce, parte Une Ville Moyenne, una canzone d’amore verso la città dove si è cresciuti, dalle immagini semplici, da poesia crepuscolare: i gatti, i senza tetto, i muratori, “la folla graziosa delle strade pedonali”. Il pop dalle velleità funk è confortante, di una nostalgia senza tristezza. Mi riò, e finalmente mi posso godere la musica senza essere troppo sopraffatto dalle emozioni.

Il quartetto di stasera è composto dallo stesso batterista della Ferme, dallo stile discreto ed elegante, i sintetizzatori suonati da un’altra bravissima cantante e una chitarra blueseggiante che sa aggiungere quella vena di inquietudine tipica di quando il sound de La Féline si fa un po’ oscuro. È il caso, per esempio, di Place de Verdun, ricordo di una tumultuosa passione giovanile da vecchio film erotico francese, oppure Va pas sur les quais de l’Adour, una tenebrosa descrizione delle passeggiate che tutti noi abbiamo fatto almeno una volta in luoghi poco consoni allo “struscio”, senza sapere bene perché né per come. Ma Tarbes, che è il fulcro del set di stasera, è molto altro: sono le storie medievali delle nostre città, come quella di Jeanne d’Albret, canzone dall’epica tragica sulla regina protestante che bruciò la cattedrale (secondo la versione di Gayraud, lo fece lei stessa personalmente); è la malinconia di vedere le cose cambiare quando si torna a casa, come nella dolceamara Tout Doit Disparaître; sono le tradizioni che abbiamo nel nostro DNA anche se non le pratichiamo veramente, come quella della lingua occitana: la versione a cappella a due voci di Fum è da pelle d’oca.

Il concerto de La Féline, insomma, è toccante e mi entusiasma. Il finale è splendido: l’elegia de La Panthère des Pyrénées, omaggio alle nostre geomorfologie interiori e alle topografie della terra natale: pendii, creste rocciose, massi, animali mitici. Il crescendo è mistico e sensuale (come diceva il Maestro del pop sofisticato) e amo pensare che trasporti i presenti sulle proprie montagne del cuore: io personalmente mi immagino a fluttuare sopra al Passo dell’Abetone nell’Appennino Tosco-Emiliano. Allo stesso modo, la scanzonata Dancing parla della pista da ballo un po’ dubbiosa che ognuno di noi ha avuto in gioventù (ci si vergogna di parlarne, di questa, contrariamente alle montagne).

Sotto le note della strumentale vellutata de La Route de Pau, Agnès Gayraud e soci si prendono una pioggia di meritati applausi. “Bràva!”, le urlo, e a questo giro non è tanto perché voglio distinguermi dalla folla (in francese si usa “bravó” per dire “brava”, “bravi”, “brave”), ma perché mi sento davvero un po’ ritrasportato in quel labile concetto che è “la mia terra”. Ormai, dopo tanti anni qua in Francia, non saprei bene cosa vuol dire. Di sicuro, però, non è un luogo dove si dice “bravó” per applaudire i grandi artisti. Mi concedo almeno questo piccolo moto di fierezza, tipica di noi toscani, ma, si dice a giro, un po' anche degli occitani.

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Niente lacrime con gli Arab Strap e la loro autentica tristezza

Il prossimo concerto è tra quindici minuti e la coda al bar (per comprare birre “da shot”) sembra infinita. Onestamente, meglio così, la birra nemmeno mi va. È una serata più sentimentale che festaiola, e mi va di restare ancorato a questa comoda sedia reclinabile, a guardare Aidan Moffat con la sua barbona bianca che sistema il palco con faccia seriosa.

Non mi sembra cambiato per niente da quando ho visto gli Arab Strap in concerto l’ultima volta. Certo, era tanto tempo fa, e un’esperienza sensoriale del tutto diversa. Eravamo al Primavera Sound, avevo appena visto i Descendents (momento più bello della mia vita?) e Paolo quasi trascinò quel mucchio di stracci e sudore che rimaneva di me a vedere questo gruppo scozzese che non conoscevo, a parole sue “iconico degli anni ‘90”, di cui non sapeva veramente spiegarmi il genere. Ancora una volta, e sono due articoli di fila che lo dico, grazie Paolo. Quello che vedemmo quel giorno fu un concerto penetrante in tutti i sensi: ricordo ancora le drum machine a volumi altissimi che suonavano come bastonate, e la voce di Moffat che, pur non capendo niente di quel che diceva, mi raccontava storie sulla dura banalità, e la banale durezza, della vita. Dopo un concerto di musica adolescenziale, speranzosa (avevo perso la voce cantando Hope), ecco che mi piombò addosso l’immagine che avevo dell’età adulta. Dischi effettivamente iconici come The Week Never Starts Round Here e Philophobia in realtà sono stati pubblicati quando i due Arab Strap avevano 23, 25 anni, e raccontano della vita sociale studentesca, di relazioni un po’ casuali, di amici di amici, di feste e di eccessi: tutte tematiche giovanili, ma private di ogni tipo di spensieratezza. Persino The First Big Weekend, che a prima vista sembra una divertente epopea di cazzonaggine da liceale, in realtà è una canzone sul sentirsi fuori posto, incapace di divertirsi, tormentato da un sentimento di inadeguatezza sociale, in cerca di oblio… 

Nonostante la profondità dell’essenza della loro musica, gli Arab Strap possono avere anche un lato festoso e quella sera a Barcellona furono capaci di dosarlo come si deve, dimostrando di saper essere dei veri mattatori. Accompagnati da tanti musicisti, di cui anche un violino, i due scozzesi fecero uno show storico, emozionante e ricco di intrattenimento. Primavera Sound: Live in Barcelona (2017) degli Arab Strap è l’unico live album tratto di un concerto a cui ho assistito, o almeno l’unico che consideri davvero rilevante. È registrato benissimo ed è pure gratis su Bandcamp. Difficile trovare scuse per non scaricarlo.

Stasera tante cose sono diverse da quel giugno di sei anni fa. Non è solo che siamo in un teatro, o che è inverno. Stasera gli Arab Strap ci portano uno show che si chiama Philophobia Undressed. Il loro album di culto del 1998, Philophobia, verrà suonato per intero e, anzi, “denudato”, anche se non so cosa vuol dire. Due cose vanno specificate: uno, Philophobia è uno dei dischi più tristi che conosca. Due, ormai ho pianto a tutti i concerti di stasera, e anche per motivi abbastanza inspiegabili e imbarazzanti: ho un vero timore di cosa sta per succedere.

Ma poi, finisce che non verso nemmeno una lacrima. Non è che la performance non sia profonda o sentita, no. È che si può piangere di gioia, di rabbia, di commozione, di disperazione e di mille altre cose, ma è davvero difficile piangere di pura e semplice tristezza.

Gli Arab Strap montano sul palco in due, come nella loro formazione originale. Non ci sono fronzoli né arrangiamenti particolari: Aidan Moffat canta, manda delle basi semplicissime (basso, drum machine e un paio di strumenti al massimo) e suona un piatto e un timpano; Malcolm Middleton non molla mai la sua chitarra e disegna musica. Non è minimalismo, è essenzialità. La loro musica, non per caso, è indefinibile: indie sì, ma troppo poco energetico per essere rock e troppo poco orecchiabile per essere pop; elettronica sì, ma né veramente club, né veramente sperimentale. È musica che non vuole appartenere a un genere, ma il cui solo obiettivo è quello di comunicare.

Parte Packs of Three e piombiamo subito in un oceano di nichilismo. Moffat parla di dispiaceri sessuali con una tonalità che ti stringe le budella e il suo accento scozzese, che sei anni fa nell'euforia generale mi era sembrato un elemento di “novelty”, oggi mi appare come uno strumento, per l'appunto, di messa a nudo. Tante band scozzesi ci hanno insegnato che di cantare in “BBC English” ne sono facilmente capaci. Cantare nella stessa maniera con cui si parla nella vita vera è la scommessa di chi accetta di portare gli ascoltatori nella propria quotidianità. E nello squallore degli aneddoti di chi è cresciuto troppo in fretta nella Glasgow a cavallo tra anni ‘80 e ‘90, fa male catapultarcisi. Il bello di Philophobia, però, è che la sua musica è deprimente ma mai repulsiva, e nel dolore si aprono tantissimi spiragli di lancinante bellezza: il riff che arriva alla fine di Here We Go è cupo ma dolce come una carezza, la coda distorta che nobilita il mogio spoken-word di New Birds è esaltante, il lungo tappeto sonoro di Islands è un barlume di speranza (“There’s land ahoy”). In molti, me compreso, hanno detto che in fondo Philophobia è un disco slowcore, ma anche questa definizione gli sta stretta: ci sono canzoni che sono persino vivaci, come Not Quite a Yes, un bilancio crudo sulle contraddizioni di quello strano costrutto sociale che è la seduzione.

Un’altra cosa davvero impressionante di Philophobia è come sia un album tristissimo e lungo più di un’ora ma che in realtà è ben digeribile e scorre in fretta. Ogni canzone è un piccolo pugno nello stomaco, ma sempre nuovo e che ti lascia sempre la curiosità di vedere come sarà il successivo. “It’s not the most cheerful record”, dice Aidan Moffat in glaswegian, facendo ridere nervosamente tutto l’uditorio. I Would Have Liked Me a Lot Last Night colpisce particolarmente in profondità: sarà che ho appena letto Trainspotting, sarà che mi ritrovo a pensare che è stata scritta 25 anni fa da due ragazzi di 25 anni, e che ho 25 anni in questo momento… Resta una canzone di un’attualità disarmante, che racconta tutto ciò che non vorrei diventare e che ho paura che i miei amici diventino, una dichiarazione di annichilimento spaventosissima. Philophobia finisce di divorarci i sentimenti con la closing track The First Time You’re Unfaithful, donandoci, dopo tanta inevitabile volgarità (sesso, droga, gelosia…) una prova di delicatezza e di coscienza di sé: “You said you know what I’m like”…

Sentire Philophobia è stato un privilegio irripetibile, e non me ne frega nemmeno granché di pretendere una First Big Weekend (per quello posso aspettare il PS 2024). L’encore ci vizia comunque con due canzoni del repertorio “quasi-ballabile” degli scozzesi: The Turning of Our Bones, coito inquieto e perverso, e la struggente The Shy Retirer, grande classico nonché una di quelle rare canzoni che sanno rendere la house music tragica.

Il concerto termina ed è stato molto apprezzato da tutto il pubblico. Sondo rapidamente i volti dei miei vicini di posto: sono tutti seri, non contriti ma sicuramente segnati. Chi è venuto da solo, come me, non sembra volersi attardare nell’atrio tra bevande, DJ e merchandise. Dopo il set degli Arab Strap, accogliere il freddo delle strade di Boulogne e crogiolarci nella consueta solitudine della metropolitana sembra un buon piano per sentirsi bene.

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Conclusione: la stagione continua

La giornata di oggi, e la musica di stasera, dipingono perfettamente la parabola delle sensazioni dell'arrivo di un lungo inverno. All'inizio un entusiasmo che sfida l'intimidazione del freddo con ottimismo. Poi, subito dopo, una languida malinconia che però dà ancora un sentimento di conforto inspiegabile e domestico. Infine, l’accettazione che la semplice e pura tristezza esiste, e che bisogna viverla senza artifici se non, al limite, un briciolo di fiera rassegnazione. In questo trambusto emozionale, il Festival BBMix ha avuto il ruolo di fautore della catarsi, come le tragedie in un teatro greco: la serata di oggi è stata un vero e proprio rituale di purificazione.

Durante il suo set, a un certo punto La Féline dice che anni fa era venuta al BBMix per vedere gli Young Marble Giants. È lì che mi sono incuriosito davvero alla filosofia del festival e ho esplorato le vecchie line-up. A parte che ci sono stati headliner da capogiro, tutti con un'essenza squisitamente invernale, ma poi hanno tutti come fil rouge il concetto stesso di catarsi: Swans, Spain, Boris, James Chance & The Contorsions, Wire, Faust… Andare a un festival per ritualizzare l'arrivo della stagione più dura dell'anno e accettarla con naturalità mi sembra un concetto bellissimo. Magari l'anno prossimo sarà tramite scariche di drone e shoegaze, ritmi sabbatici e ossessivi oppure ancora con la crudezza di uno slowcore scheletrico. Poco importa: l’idea mi convince e l'anno prossimo presenzierò. 

Ma l'anno prossimo è ancora lontano. È cominciato un lungo inverno, e probabilmente non sarà facilissimo. Ma la stagione continua.

martedì 21 novembre 2023

Life Lately (Novembre 2023) - Alfa Mist, Deerhoof, Superchunk, The Magnetic Fields, Fucked Up


Dal momento dell’apertura del blog di Stereo Totale ad ora ho vissuto una “winning streak” perfetta. Scrivere, in quantità e con ispirazione, non mi era mai stato così facile. Ovviamente, c’è un trucchetto. Se ci fate caso tutte le serate di cui ho parlato finora, susseguitesi con un ordine pressoché perfetto, hanno tantissime cose in comune: band che ho quasi sempre già visto dal vivo, perlopiù francesi o di paesi limitrofi, e tutte che fluttuano in quel magnifico strato di aria tra l’underground e la consacrazione, quella mesosfera nel quale noi piloti della musica “di nicchia” amiamo fare le evoluzioni aeree più audaci coi nostri velivoli. Per un cronista in erba e ancora alle prime armi come me è stata una fortuna inaudita quella di avere un settembre/ottobre strutturato così: ho potuto presentare ai miei lettori qualcosa di nuovo ma che già conosco, e soprattutto parlare di band di cui probabilmente in Italia si sa ancora poco o nulla. Non si pensi però che nella vita vado unicamente a concerti di gruppi garage rock con un bacino di utenza di grandezza medio-bassa. Mi capita al contrario piuttosto spesso di andare a vedere artisti ben affermati, ai quali riviste importanti hanno già dedicato pagine su pagine di interviste, recensioni e retrospettive. Capite bene che diventa molto più complicato scrivere qualcosa di completamente inedito. Non per questo trovo inutile tirare giù sulla pagina qualche riga di testo sul mio punto di vista riguardo a quello che musicisti famosi propongono oggigiorno sul palco. Amo la musica e amo parlare di musica su questo spazio, e siccome su Stereo Totale non esiste una vera e propria “linea editoriale” oggi ci divertiremo a uscire dai sotterranei dei gruppi emergenti per toccare con mano nuove realtà (e nuove sale concerti, e nuovi opening act, e nuovi generi, e nuove persone, e nuove emozioni)…

Ecco perciò “Life Lately” una piccola rassegna che racconta alcuni concerti degli ultimi tempi. Una blog entry magari un po’ più lunga della media, ma anche divisa in piccoli capitoli, in cui ai lettori è concesso anche di andare a guardare solo quello che gli interessa. Ancora non ne so nulla, ma penso proprio che non sarà un unicum e probabilmente diventerà una rubrica frequente.

Cinque concerti. Pronti, via.

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Alfa Mist – Quando la carovana del jazz contemporaneo arriva in città

Alfa Mist live @La Lune des Pirates, Amiens, 04/11/2023

Quest’estate ho regalato alla mia amica Sophie una finta smartbox di marca Reric, un buono omaggio per un concerto di sua scelta e un’accoglienza parigina di tutto rispetto. Il giorno che Sophie ha “appizzato il Songkick” (gergo da giovani) per vedere quale evento avrebbe potuto riportarla in città, è rimasta scottata dal fatto che la venuta del suo idolo Alfa Mist a Parigi fosse incompatibile con l’agenda della sua vita digionese. Ci viene però segnalata la notizia improbabile che il pianista inglese avrebbe portato la sua band un sabato sera ad Amiens, nel dipartimento della Somme. Della Somme è difficile conoscere molto, a meno di essere esperti della Grande Guerra o di pale eoliche, che nella regione sono presenti in gran numero. Essendo un mestierante dell’energia del vento ho avuto la fortuna di conoscere abbastanza bene questa parte di Picardia, e Amiens, il suo capoluogo, è una bellissima città di media grandezza che respira tutto ciò che caratterizza questa parte del fare Francia Nord-Est: austerità, resistenza, fierezza e anche un po’ di impoverimento post-industriale. Perciò accetto con entusiasmo la proposta di un weekend piccardo a base di nu-jazz, case di mattoni rossi, canali alla olandese e piatti generosi dove la panna abbonda. Amo fare delle saltuarie sortite “en province”, amo ancora di più far incazzare Sophie, che teoricamente “en province” ci vive, pronunciando senza vergogna questa espressione un po’ dispregiativa.

Che poi, faccio tanto il fenomeno ma non è che qua la cultura dei concerti sia tanto dissimile da quella della capitale, è solo un attimo più sana e gradevole: l’apertura dei cancelli anche qui è presto, ma abbastanza tardi da prevedere una cena anticipata sensata, contrariamente a Parigi; le birre costano un pochino di più che al bar, ma almeno sono varie e di qualità, contrariamente a Parigi; la gente è cafona tra un set e l’altro, ma educatissima nel mentre che i gruppi suonano, contrariamente a Parigi. È chiaro che siamo al concerto-evento del mese: la Lune des Pirates, splendida SMAC (statale!) dalla capienza di 250 persone è strapiena al punto che è quasi difficile muoversi, e all’ingresso lo staff non sa più dove mettere i cartelli “sold out” per ribadire il concetto. Quello dell’opening act, il trio dei locali Verb, è quasi un piccolo trionfo. Nonostante la cinica ma giusta definizione di Sophie, “i ragazzi della scuola di musica”, devo dire che non disdegno affatto la performance di questi giovanissimi: intanto hanno la miglior line-up jazz possibile, ovverosia piano, basso e batteria (come il Bill Evans Trio); poi gli devo riconoscere il merito di avere delle composizioni originali carucce, dei temi orecchiabili e qualche idea riuscita (Colonel Macmontgomery, per esempio, si fa ascoltare con interesse), a discapito degli assoli che sono pochi e non particolarmente emozionanti.

Ovviamente siamo qui per il main act. Prima di parlarne, però, mi concedo di fare un piccolo inciso. Chi mi legge si sarà accorto che, per ora, di musica jazz non si è proprio mai parlato. In realtà il jazz, soprattutto per la natura molto colta della sua critica (inserire copypasta di Scaruffi sulla critica rock), è un macro-genere del quale non mi sento troppo a mio agio di parlare davanti a un pubblico generale. Il rischio è sempre quello di passare per una persona che parla senza saperne nulla. Penso che sia un complesso che in molti hanno, nel microcosmo di chi scrive di musica. Perciò mi concedo questa piccola parentesi che è quasi un’ammissione di colpa: contrariamente al rock, dove mi concedo di fare ponti tra sottogeneri e scuole di pensiero o altri pindarismi, io il jazz lo valuto “a pelle”. Mi piace ascoltare i grandi classici del bebop, del cool jazz, dell’hard-bop e anche mettere su del jazz contemporaneo piacione quando me ne viene voglia (non disdegno un Branford Marsalis, con immenso scorno di amici per cui il jazz rappresenta un mestiere, e che trovano questo tipo di ascolti deplorevole). Non traggo troppo piacere dal free-jazz, dall’improvvisazione libera o dal post-bop troppo avanguardista (The Bad Plus è la cosa più “spinta” che io possa ascoltare). Insomma, per farla breve: quel che amo sono le alternanze di assoli, le forme dei brani immediate, tema-solo-solo-tema, le melodie memorabili, la maestria dei musicisti. Soprattutto quest’ultima cosa: amo vedere un gruppo in concerto e dire: “Porca vacca, come suonano bene”. Sarà una visione semplicistica, ma non ci posso fare granché, a parte, come direbbe qualcuno, “farmi una cultura” e ascoltare nuovi dischi uno dietro l’altro invece di rimettere su la solita vecchia compila di Charlie Parker. Ma non so se mi va.

La bellezza del jazz, nonostante tutti questi discorsi che denotano più insicurezza che altro, è che alla fine è una musica che ci parla anche se non ne siamo o non vogliamo esserne esperti. Ad esempio l’ultimo disco di Alfa Mist, Variables (2023), mi ha molto colpito: un album che sa riprendere forme di swing classiche con eleganza e riuscire a essere sia brillante sia un po’ tenebroso, con quel savoir-faire piovoso che si trova solo nel Regno Unito. La più grande referenza che ho sempre avuto di Alfa Mist però è il suo classicone, Antiphon (2017), un album che è stato su tutti i consigliati di Youtube del mondo, ma che ha oggettivamente grande personalità, proponendo un universo sonoro capace di piacere sia ai puristi del genere sia agli amanti di nuove correnti più easy-listening definite (da chi poi?) con l’etichetta “lo-fi”. Cosa mi aspettavo perciò da Alfa Mist? Fermo restando che non sono un grande esperto dell’artista in questione, quando ho visto il quintetto di inglesini imberbi montare sul palco, con sullo sfondo un bellissimo video di acquerelli in stop-motion, non ho potuto fare a meno di immaginarmi un concerto delicato, pieno di ritmi hip-hop che avrebbero fornito il giusto sottofondo per far brillare il frontman e il suo piano elettrico. E invece.

La performance che segue è quasi abrasiva: la chitarra elettrica si concede spesso e volentieri bending asprignoli, la tromba spinge sugli acuti, il basso elettrico sarà quasi sempre preferito al contrabbasso, creando una coltre di frequenze cupe densissima, e soprattutto l’eccezionale batterista propone uno stile “hard” che non si fa scrupoli a mettere accenti sul crash sconquassando tutti gli avventori della Lune des Pirates. Alfa Mist ha soprattutto il ruolo di mettere dell’ordine e dell’equilibrio in questo esaltante assalto, con accordi dolci e sfumati, ma se vedessimo la band senza saperne nulla faticheremmo a definirne un leader. I momenti solistici del pianista non sono tantissimi, e coincidono, per l’appunto, con quell’approccio moderno e un po’ hip-hop che ha reso celebre Antiphon: è splendido, per esempio, l’intermezzo in dilla-beat di Organic Rust, dove Alfa Mist fa anche un po’ di rap. Ma, per l’appunto, i brevi passaggi che riportano al cosiddetto “lo-fi” sono solo intermezzi, e il resto del concerto è più orientato su una sorta di hard-bop contemporaneo estroso e potente, non privo di dolcezza, ma sempre pronto a esplodere con intensità, come nell’inquieta Variables. Infine, quasi ogni pezzo viene introdotto da uno strumento che, completamente solo, anticipa la canzone per un minuto o più. Tutti i solisti sono fortissimi, e perciò la domanda che sorge spontanea a tutti è la seguente: ma che cazzo ci fanno ‘sti mostri un sabato sera ad Amiens, in questo bugigattolo che non ha nemmeno un backstage?

Continuo a pormi la domanda anche mentre la band attraversa tutta la sala e sale le gradinate per tornare dietro le quinte tra gli applausi, dopo averci deliziati chiudendo con l’iconico e sfizioso funkettone di Brian. Il pubblico della “provincia” è abbastanza in visibilio, anche se c’è chi ha trovato l’approccio live del gruppo troppo estremo. Io non sono d’accordo e controbatto: che fortuna quella di aver visto da vicinissimo dei giovani talenti di questo livello. Una vera e propria iniezione di meraviglia. Torno su quel che dicevo prima: io del jazz amo il lato strabiliante, immediato, forse persino spettacolare, che è quello che stasera Alfa Mist ci ha portato.

Perciò mi do la risposta che vorrei sentirmi dare. Cosa ci faceva il quintetto di Alfa Mist, ad Amiens un sabato sera? Nulla, passavano dalla Picardia con la loro carovana e si sono fermati in città per una sera. 

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Deerhoof – Nella ricetta dell’allegria c’è sempre un pizzico di rumore

Deerhoof live @La Maroquinerie, Parigi, 07/11/2023

Nei vari shoutout ai miei amici che ormai popolano gli articoli di Stereo Totale c’è un nome che non ho ancora mai citato ed è quello di Lauren. Direttamente da Orange County, California, la mia amica Lauren è al contempo un esempio di francofilia definitivo e un rifugio di sana americanità che sono contentissimo di avere nella mia vita. Ci siamo conosciuti perché lei voleva fondare una band di variété française pura e dura, e cantava cover di Véronique Sanson insieme ai suoi inediti, scritti con grande professionalità. Nonostante la sua missione culturale franco-francese, capii subito che Lauren era piena di sorprese: nella prima sera in cui ci siamo parlati mi ha fatto scoprire i Deerhoof, il gruppo noise-rock più matto che io conosca. Quest’estate era il suo compleanno e quindi le ho regalato il concerto di questo suo gruppo-feticcio, una band che lei ascolta da più di dieci anni. Capita proprio in questo inizio novembre, un momento in cui per varie vicissitudini e per voglia di conoscere nuova gente ci vediamo più spesso del solito. Abbiamo trovato un bell’affiatamento nel rapportarci al mondo esterno: lei, come del resto tutti gli americani, è campionessa di attaccamento conversazioni con gente sconosciuta; io, da semplice estroverso, seguo e mi diverto.

Quando ci incontriamo, stasera, siamo in preda ad un’eccitazione febbrile: è chiaro che ci aspetta uno show unico nel suo genere. Io penso a un’intervista di Stephen Malkmus in cui lui diceva che i Deerhoof sono il suo concerto preferito (e la Fiorentina la sua squadra del cuore!), lei ride e mi fotografa davanti a un cartello in cui i Deerhoof chiedono gentilmente al pubblico di mettere una maschera contro il covid: ma quanto sono strani? Ci raggiunge Pauline, terzo tassello di un trio di amici nato tre anni or sono attorno alla voce di Lauren e che mi fa tanto piacere sia restato unito. Tra che non ci vediamo da un po’ e abbiamo tanto da raccontarci, tra che stasera abbiamo l’aspettativa di vedere qualcosa di grandioso sul palco, decidiamo di saltare l’opening act, un duo dadaista un po’ semplicione, dopo nemmeno due canzoni. Preferiamo approfittare del bar all’aperto della mitica Maroquinerie, uno dei mi locali preferiti a Parigi per varie ragioni: è nel quartiere Ménilmontant (a uno sputo da Belleville e altri luoghi d’interesse), ha la forma di un mini-anfiteatro, ha un bar all’aperto.

Quando l’ora si avvicina scendiamo in sala per vedere i Deerhoof, con la mascherina donataci da loro rigorosamente posizionata sotto al mento (dai su, ma si può mettere una mascherina anti-covid a novembre 2023?). Per chi non li conoscesse, una rapida descrizione della band. Nati nel 1994 a San Francisco, i Deerhoof da quasi trent’anni pubblicano dischi uno dietro l’altro ampliando costantemente il loro sound noise-rock sopra le righe. Attingendo tanto da free-jazz e affini, con ritmiche sbilenchissime e uniche nel loro genere, i nostri sono capaci di tutto: si passa dall’estremamente melodico al rumore puro. Unico fil rouge di una carriera prolificissima, le vocals leggiadre della cantante Satomi Matsuzaki, giapponese trapiantata in California che riesce a infondere bizzarria, ma anche delicatezza e persino eleganza a un universo sonoro pieno di follie e trovate inaspettate. In questi ultimi anni i Deerhoof sono in un momento di grazia, con la pubblicazione di album particolarmente riusciti: quello del 2021, Actually, You Can, è una delle mie release rock preferite del decennio e il recente Miracle-Level (primo album in giapponese, nonché primo album registrato in un vero studio!) riconferma una band che ha ancora tantissimo da dire.

All’interno della Maroquinerie, la nostra posizione leggermente sopraelevata ci sembra perfetta per vedere tutto quel che succede sul palco. Purtroppo ci sbagliamo: Greg Saunier, il batterista, è altissimo ma suona bassissimo, e non lo vedremo mai agitarsi sul suo kit ultraminimale (piatto, rullante, timpano, cassa), se non in qualche raro spiraglio della folla. In compenso, appena la musica inizia, mi rendo subito conto che sto ascoltando uno degli interpreti dello strumento più impressionanti della mia generazione: il suo piatto suona come quattro piatti diversi, idem per tutti gli altri elementi del kit, e le note che suona sono tantissime, piene di sfumature, mai dove te le aspetteresti ma tutte sensate. Mentre Saunier impazzisce sulle pelli (è lui il verso solista del gruppo) i due chitarristi shreddano riff impossibili, sinfonici e dissonanti allo stesso tempo. Una musica intellettuale, si potrebbe pensare a un primo approccio, ma non è così: i Deerhoof sono buffi, energetici, simpatici, ed è puro intrattenimento. Le canzoni si susseguono velocemente, una più speciale dell’altra, e se ne vorrebbe sempre di più. Le sfuriate chitarristiche si alternano a, o si fondono con, attimi di pura carineria: My Lovely Cat!, ad esempio, un po’ svolazza e un po’ punge, tra texture melodiche atmosferiche e la discesa dal cielo di chitarre taglientissime; Scarcity is Manufactured suona come una versione math-rock de La Bamba; Be Unbarred, O Ye Gates of Hell produce un sing-along esilarante nella sala (il testo parla delle verdure dell’orto) e alterna un tema principale di musica barocca in distorsione (!) con intermezzi di puro metal (!!!). La musica dei Deerhoof è una vera e propria pozione di buonumore, piena di nostalgie divertenti tipo la cover in tempi dispari della sigla di Supercar (Love-Lore 2) e momenti emozionanti come la sfuriata noise finale, di una violenza sonora che non fa sconti a nessuno.

Usciti dal locale, bevendoci un’ultima birra, notiamo che tutti attorno a noi sono su di giri, esaltati e soprattutto allegri. La gente chiacchiera senza inibizioni di argomenti vari ed esotici e soprattutto dice che ci vorrà almeno una buona notte di sonno per riabituarsi alla musica “normale”. È questo il potere dei Deerhoof: trasportarti in un mondo dove nulla è veramente al posto in cui te lo aspetteresti, dove tutto un po' stupisce, un po’ spaventa, ma alla fine ti mette sulla faccia un gran sorrisone. È un po’ come immagino la droga psichedelica perfetta.

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Superchunk – La musica adolescenziale vince ancora

Superchunk live @Supersonic Records, Parigi, 08/11/2023

Una decina di giorni prima dell’8 novembre ero a un concerto di Trotski Nautique (sì, un altro) e ho parlato con un giovane parigino dalle vedute molto radicali che mi ha detto testuali parole: “Al concerto dei Superchunk non voglio andarci, perché è una musica così adolescenziale che non posso sopportare di vederla suonata da un gruppo di cinquantenni”. Inutile a dirsi, ho detto al ragazzo in questione che è una testa di cazzo.

Sia detto: per me “adolescenziale”, se si parla di musica rock, sarà sempre un complimento: trovo eroica la capacità di trasmettere emozioni pure, crude e vivaci come se le vivessi per la prima volta, o ancora la bellezza di sentire in un’arte “adulta” la voglia di stupirsi ancora delle cose semplici ed efficaci, che si parli di una pausa prima di un ritornello, di una linea vocale arrogante, di una chitarra che si aggiunge all’equazione o di una batteria che raddoppia i colpi di rullante per alzare l’intensità. Se Giovanni Pascoli parlava della poetica del fanciullino, io in molta della musica rock che ascolto vado alla ricerca di quella del diciassettenne. Potrei passare ore ed ore a fare liste di artisti che, nel cercare di trasmettere emozioni “mature” suonano falsi e poco credibili, così come potrei citare un’immensità di gruppi che ancora oggi sono capaci di fare concerti o pubblicare nuovi album in cui non si fa segreto della loro mezza età, e con poche note farci risognare gli anni andati dell’adolescenza, periodo magico e nostalgico per eccellenza.

Nella mia testa, faccio defilare qualche nome che aderisce a una poetica adolescenziale. La prima cosa che mi viene in mente sono i gruppi punk californiani, che siano della prima scena melodic hardcore tipo i Descendents o dei loro continuatori morali, sia quelli più emo tipo i Jawbreaker o quelli più skater tipo i Cigar. L’altra scuola che ha reso grande la visione filosofica del sound adolescenziale sono i peripatetici dell’indie/slacker rock degli anni ’90: Pavement, Dinosaur Jr., Teenage Fanclub, etc. Per me i Superchunk sono sempre stati un “inbetweener” tra questi due approcci alla musica, un ponte che connette due mondi che amo alla follia. Ho sempre amato gli inbetweeners (per esempio, preferisco i metallari Helmet o i quasi shoegazers Swervedriver a gruppi grunge più “classici”). Inoltre, i Superchunk mi ricordano quei bellissimi sette mesi passati a St. Louis, Missouri, quand’ero in scambio universitario: fu proprio nel mio periodo “midwestern” che scoprii questa fantastica band power pop, dalle leggere velleità punk e un senso della melodia fenomenale. Inutile dire che ho saltato di gioia quando ho scoperto che il quartetto della North Carolina sarebbe passato da Parigi. “20 euro sono troppi”, mi diceva il testa di cazzo sopracitato. Allora valli a spendere altrove.

Il Supersonic Records, appendice del più celebre (e gratuito) Supersonic Club, è una bellissima saletta con amplificatori e memorabilia da fu record-shop sparsa sui muri. Non c’è tantissima gente e stasera i mei 25 anni abbassano l’età media sensibilmente. La gente con cui chiacchiero nell’area fumatori (un oggetto in via d’estinzione che è nostro dovere proteggere) sono quarantenni in giacca di pelle che hanno già visto i Superchunk dal vivo anni or sono. Li osservo mentre disquisiscono del periodo africano dei The Ex e mi ricordano comicamente i personaggi di Vernon Subutex, l’epopea rock di Virginie Despentes. L’opener non è veramente niente di che ma siccome sono da solo me lo sorbisco tutto. Poi, finalmente, i Superchunk.

Una band che avrebbe meritato molto di più, questo è il mio primo pensiero. Mac McCaughan, le due socie della sezione ritmica e il chitarrista pelato (il meno giovanile della band, perciò il più fiero) hanno un’energia lucente dal primo momento in cui montano sul palco. Le vocals lamentose del frontman non sono invecchiate in nulla e mi commuovono, mentre la batteria picchia (essenzialmente sul ride) e le chitarre sciorinano melodie su melodie. Le canzoni avanzano senza sosta e un secondo pensiero affiora, un po’ come il diavoletto che viene a rompere le palle all’angioletto sulla spalla. È un pensiero che, peraltro, mi sfiora spesso quando ascolto la loro musica: sono tutte belle queste canzoni, certo è sempre un po’ “more of the same”. Ma in realtà, più ci rifletto, più mi convinco che, come si dice a Firenze, “l'è i’ su’ bello”: ognuno può afferrare le sue personali hit da questo vento di melodie che soffia incessante. E perciò vedere i Superchunk è anche un’esperienza mutuata dal proprio vissuto. Io per esempio mi esalto con Hello Hawk (perché adoro Come Pick Me Up, specialmente il suo lato A), un altro giovane fan domanda a gran voce My Gap Feels Weird, riesce a farla inserire nella scaletta e festeggia con tutti quelli nel raggio di cinque metri attorno a lui (evidentemente questa deep cut è una canzone importante nella sua vita, che bella cosa). Scopro nuove perle del loro grande repertorio, tipo On the Mouth, uno sfrenato e oscuro B-side esclusa dal disco omonimo, che mi piace proprio perché mi ricorda quanto l’anima dei Superchunk sia profondamente punk rock. Il finale con Precision Auto (che di On The Mouth invece era l’opener) è davvero un bel regalino: il riff principale andrebbe messo nella versione digitale dell’Enciclopedia Britannica alla voce “teenage angst”. E ci dovrebbe essere anche un video dei Superchunk stasera, agitatissimi sul palco, che trasmettono un’energia che posso paragonare solo a quella di momenti vissuti tra i 17 e i 19.

Come tutte le cose belle, il concerto finisce e ho addosso un'eccitazione inspiegabile. Volevo andare a letto presto, ieri ho visto i Deerhoof, prima del concerto avevo persino sonno. Invece sono qua a farmi una bevuta di troppo con quel matto che faceva richieste poco lontano da me. La batterista e la bassista escono a smontare i loro attrezzi di lavoro e ne approfittiamo per scambiarci due parole. È il momento di giocarmi la mia carta e perciò decido di riciclare una frase che avevo usato nel mio programma radiofonico sulla “college radio” di St. Louis: “Next tour please consider playing Like a Fool, ‘cause it’s the Baba O’Riley of ‘90s indie rock”. Il programma si chiamava “Messy Hair”.

Spero di continuare a spettinarmi con la musica anche quando sarò vecchio.

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The Magnetic Fields – Avremo sempre bisogno di canzoni d’amore

The Magnetic Fields live @Petit Bain, Parigi, 11/11/2023

Il Petit Bain è sicuramente la mia sala concerto preferita in città. Ricordo ancora come se fosse ieri la prima volta che ci sono andato: era luglio 2015 e grazie a mio padre, che lavorava a Parigi, avevo rimediato un piccolo tirocinio di quarta liceo in cui passavo la giornata a sistemare gli archivi dell’università che anni dopo avrei frequentato. In quelle giornate, leggermente monotone, non sapevo troppo come occupare il mio tempo se non ascoltando thrash metal. In un’estate parigina particolarmente calda, ho un particolare ricordo di Beneath the Remains dei Sepultura che suonava ogni giorno. Un bel dì apprendo la notizia che gli Iron Reagan, side-project dei Municipal Waste (forse la band più leggendaria del revival thrash anni 2000), si sarebbero esibiti al Petit Bain. Fu una serata di grandi rivelazioni: non solo scoprii, con grande sorpresa e dopo tante incomprensioni con Google Maps, che può esistere una sala concerti nella stiva di una barca, ma feci anche il mio primo stage dive.

All’epoca non sapevo che un giorno avrei vissuto a Parigi in pianta stabile, ma capii che quel Petit Bain che galleggia sulla Senna nel tredicesimo arrondissement (il più strano, post-industriale e modernamente austero dei venti distretti) sarebbe stato uno dei locali del cuore della mia vita intera. Anni dopo, eccomi qua: al Petit Bain ci vado regolarmente, i concerti qui hanno un sapore speciale e la programmazione è splendida a ogni stagione. Tra l’altro, mentre vedevo un gruppo indie rock che risponde al nome di In My Head alla Ferme Electrique qualcuno mi fa: “Lo vedi il cantante? Si chiama Nico, è lui che fa la programmazione del Petit Bain”. Capelli alla J Mascis, cappello sempre in testa, quest’uomo molto ben riconoscibile è diventato la vittima costante dei miei deliri serali da quando sono stati annunciati i Magnetic Fields al Petit Bain. Ogni sera in cui lo incrocio, da mesi a questa parte (compreso il concerto dei Superchunk), gli dico: “Sei un grande per aver portato i Magnetic Fields al Petit Bain” oppure “I Magnetic Fields? Non penso ad altro, giorno e notte”.

Ovviamente, sono cose che penso davvero. Innanzitutto è davvero sorprendente vedere un gruppo così grande associato a questa sala, di grandezza medio-piccola. Stephin Merritt, il frontman del gruppo, è considerato da molti il più grande paroliere “indie” della storia del pop, e i Magnetic Fields non mancano mai nella conversazione quando le parole “indie” e “pop” vengono pronunciate a prossimità l’una dell’altra. C’è un’altra ragione, però, che giustifica la mia esaltazione per la venuta dei Magnetic Fields al Petit Bain, ovvero che sono il gruppo più importante dell’anno 2023 per me. In una domenica di questo febbraio, in cui non avevo niente da fare se non tante lavatrici, ho cominciato a vedere le prime avvisaglie della fine di una storia di amore che durava da due anni. Era il giorno perfetto per ascoltare 69 Love Songs e da quel momento in poi quel triplo album, praticamente perfetto, mi ha accompagnato e aiutato tantissimo durante un lungo periodo di separazione dalla prima fidanzata della mia vita francese. Il mio amico e consulente sentimentale Paolo, che avete già conosciuto nell’articolo sul Primavera Sound, 69 Love Songs mi aveva consigliato di ascoltarlo circa 5 anni prima. Come al solito, i consigli di Paolo li seguo con grande ritardo ma arrivano sempre al momento giusto.

L’annuncio dei Magnetic Fields a Parigi ha riportato Paolo in città e ci siamo di nuovo dedicati ad attività importanti come l’abbuffata di escargot, o i dodici chilometri di camminata giornaliera minimo. Quando entriamo al Petit Bain è stupidamente pieno: non è sold-out, è proprio oversold. Insieme ai nostri amici securizziamo un buono spot proprio in mezzo alla fossa, e nonostante la calca ci godiamo l’opening act di Ed Dowie, un signore inglese ormai stagionato il cui synth-pop, tenero e timido quanto lui, omaggia in maniera smaccata ma non spiacevole i Magnetic Fields dell’epoca Holiday e Get Lost, con giusto qualche sprazzo di folk britannico (vedasi Dear Florence, canzone che apprezzeremo molto pur non accorgendoci che è un omaggio alla nostra terra natale). Number Eight Wire sembra veramente un b-side dei Magnetici del ’94, e infatti quando, dopo quindici interminabili minuti di attesa, il quintetto newyorkese monta sul palco con sobrietà, Merritt si accomoda sul suo scranno con un’espressione quasi scazzata e dice che ha ancora in testa la melodia della canzone di Dowie.

I Magnetic Fields, e nell’ambiente si sa, suonano musica prevalentemente acustica, e a volumi molto bassi. Merritt ha perso parecchio udito a un concerto degli Einstürzende Neubauten (nostro), perciò facendo di necessità virtù ha fatto riarrangiare tutte le canzoni che contenessero una benché minima distorsione e il risultato, come si poteva prevedere, è splendido. Il loro concerto è un fiume in piena di hit, viene voglia di cantare quasi tutti i ritornelli. Le canzoni, com’è nell’ethos dell’autore, sono spesso molto brevi, e sono tutte toccanti e/o spiritose. Il violoncello, la chitarra, l’ukelele e la voce grave e seriosa di Merritt (compreso il suo stage banter freddissimo e memorabile), tutto crea un’atmosfera intima ed emozionante. Sì, mi arrabbierò con dei coglioni che vogliono comunque cianare in mezzo a tutta questa bellezza, mi salirà il sangue al cervello e tutto quanto, ma niente, nemmeno il più irrispettoso degli esseri umani può rovinare la gioia di subire una raffica di canzoni così perfette. Si ha l’impressione che i Magnetic Fields ci stiano deliziando con un vero e proprio best of che ripercorre la loro eccezionale carriera: qualche puntata ai vecchi The Charm of the Highway Strip (Born on a Train da brividi), Holiday (Take Ecstasy With Me, la canzone d’amore più inquietante che conosca) e Get Lost (All the Umbrellas in London, un viaggio nell’immensità del mondo e del dolore). i, album dal titolo geniale, fa anche lui la sua comparsata con It’s Only Time, ovvero la ballata del fatalismo, e viene tirato fuori il meglio anche dai recenti 50 Songs Memoir (Be True to your Bar, un vero inno) e Quickies (The Day the Politicians Died, che i newyorkesi hanno avuto la fortuna di suonare in Irlanda quando è morta la regina Elisabetta). Ovviamente, c’è spazio anche per tantissime delle 69 Love Songs, con degli highlights pazzeschi: tutta la sala che canta Kiss Me Like You Mean It (Shirley Simms, che voce); il chitarrista che canta Luckiest Guy on the Lower East Side e riesce a tenere la celebre nota lunghissimissima, con la sorpresa di tutti; e poi il miglior momento di tutto il concerto, la palla di cristallo da discoteca che si accende sui versi di Papa Was a Rodeo: “The light reflecting off the mirror ball looks like a thousand swirling eyes”. E poco dopo Merritt guarda ciascuno di noi negli occhi e, beffardo e ironico, domanda: “What are we doing in this dive bar? How can you live in a place like this?”, provocando il nostro riso e facendoci credere, per un attimo, che Stephin potrebbe essere quell’amico estremamente cinico di cui a volte si ha bisogno.

L'encore, costituito dalla fan-favorite A Chicken With Its Head Cut Off seguita da 100,000 Fireflies (dove tutto ebbe inizio) è un tripudio, e non fa che rinforzare un pensiero che non se n’è andato durante tutto il concerto: questi potrebbero restare qui a suonare hit fino a domani. Effettivamente, sono tantissime le canzoni memorabili lasciate fuori dalla performance, e ciononostante il concerto è durato quasi due ore. Non c’è niente da aggiungere, di canzonieri come i Magnetic Fields ce ne sono pochi al mondo, e noi stasera li abbiamo visti qui, al Petit Bain. Si fatica quasi a crederci.

Dopo questo momento fuori dal tempo chiacchiero con Paolo di quello che vorrei scrivere per Stereo Totale riguardo a questo concerto. Il suo consiglio non è pessimo: un articolo di vita vissuta in cui comparo quel che ho sentito alle mie esperienze in Francia, “il paese che mi ha educato all’amore”. Se fosse stata un’altra band, anche anche. Ma coi Magnetic Fields, no, non ce la posso fare. Chi sa scrivere di amore, scrive. Chi non lo sa fare, ascolta.

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Fucked Up – Anche il caos può avere classe

Fucked Up live @Petit Bain, Parigi, 14/11/2023

I lettori più attenti di Stereo Totale hanno già letto un piccolo resoconto di un concerto dei Fucked Up, non uscito dalla mia penna bensì da quella del mio caro amico Tommaso. Si tratta del concerto del mercoledì 29 maggio 2019, cominciato alle ore 1:50 del mattino alla Sala Apolo di Barcellona. Cosa si può dire che non sia già stato scritto in quell’articolo a tema Primavera Sound? Poca roba: che eravamo stanchissimi, quindi allucinati; che c’era un muro di chitarre spessissimo e che a volte era anche complesso capire dove stesse andando quel maelstrom di musica; che la calca umana era altrettanto spessa; che pogammo con Mac DeMarco. 

Effettivamente, annovero quel concerto tra le esperienze mistiche della mia vita: una trance catartica di cui però ricordo molto poco. Ammetto che, da allora, non ho ascoltato i Fucked Up questo granché: giusto un paio di ascolti a Year of the Horse, un gigantesco concept album dove l’hardcore punk incontra le suite di foggia progressive rock (follia assoluta). Quando Tommaso, che ha seguito molto più di me le vicissitudini di questi insoliti punk canadesi, mi ha scritto: “Concerto dei Fucked Up al Petit Bain, vengo a Parigi”, è stata una splendida notizia che mi ha fatto riprendere in mano la loro musica. In particolare, ho recuperato One Day, l’album del 2023, che coi suoi toni “artsy as fuck” e la sua varietà (un po’ groovy, un po’ rock’n’roll, un po’ emo) mi ha conquistato. 

Entriamo al Petit Bain e mi sento a casa. Chiacchieriamo col batterista dei Fucked Up che sta vendendo merch, e anche lui si ricorda il veglione di quattro anni e mezzo fa: “Oh, yeah, the super late concert? Time of our lives”. Ci godiamo l’opener Alvilda, quattro ragazze pariginissime (tutte con la frangia, aiuto) che fanno un rock leggero e sbarazzino dove l’omaggio incessante ai Ramones incontra uno style yé-yé francese anni ’60/’70 molto simpatico. Sotto al palco io sono abbastanza ammaliato (chi mi conosce bene sa) ma Tommy mi fa tornare in me facendomi notare che le canzoni sono veramente tutte uguali. Un po’ ha ragione, e perciò andiamo al bar a chiacchierare mentre risuona in sottofondo un vecchio disco di punk newyorkese degli anni ’70 sul quale si è infiltrata Jacqueline Taieb (segnalo comunque un inedito carino delle Alvilda: Paris Été, che penso sarà nel loro prossimo LP e che forse si vuole un sequel spirituale di Le Printemps à Paris). 

Mentre discutiamo di quanto sia bello, apprezzabile e “nostro” avere un opening act che non c’entra una mazza con l’artista principale entrano sul palco i Fucked Up con un intro funky improbabile. È sempre bello vedere una band per una seconda volta vari anni dopo. È altrettanto bello rivedere una band per una seconda volta in una situazione completamente diversa. Quando i due fenomeni si verificano contemporaneamente, però, può sopraggiungere un forte senso di straniamento. Stasera quello che c’è è che la sala non è pienissima (in realtà è un’affluenza media, ma tre giorni prima c’erano i Magnetic Fields e ora so come può essere il Petit Bain strapieno) e la gente non è scatenata come quelli che a Barcellona avevano dovuto aspettare ore e ore per un agognato concerto di musica cattiva. Ma anche il suono dei Fucked Up mi pare diverso. Tommaso mi fa notare che le chitarre sono una in meno (nel 2019 erano tre) e quindi più distinguibili. La presenza scenica, quella non è cambiata: Damian Abraham, gigante barbuto, è un mattatore e un matto, le sue urla sono intense quanto i suoi contorsionismi sul palco e la sua vitalità esuberante scalda l’atmosfera come una palla di fuoco.

Ci metto un paio di minuti a riabituarmi al sound dei Fucked Up che è sì violento, sì volutamente dispersivo ma, me ne accorgo adesso per la prima volta, anche raffinato. C’è una bellissima armonia tra gli strumenti, e uno studio compositivo sopra la media, con canzoni ben strutturate e sempre sorprendenti ma mai del tutto spiazzanti, insondabili e gratuite come ricordavo. I loro brani sono ancora molto caratterizzati da ampie sezioni strumentali riflessive e dal sapore krautrock che fanno rifiatare dopo le potenti aggressioni di Abraham e soci, ma stasera abbiamo modo di godere anche di pezzi più concisi ed eclettici, che mi ricordano l’operato di altri pezzi grossi del “punk songwriting”, se vogliamo chiamarlo così, come i mitici Les Savy Fav (c’è anche una piccola somiglianza di cantanti) o gli Hot Snakes del compianto Rick Froberg (ex Drive Like Jehu, riposa in pace).

Sono cambiati loro, siamo cambiati noi, insomma: i 50 minuti sfrenati dei Fucked Up al Petit Bain sono una prova di maturità, sia loro che nostra. Il quintetto canadese gioca col pubblico, tra teatralità, cambi continui di voci (quella della bassista è davvero bella), crescendi e decrescendi. C’è spazio anche per degli originalissimi riff armonizzati, la “signature” di One Day, che sanno essere gioiosi tipo quello della quasi Deerhoof-iana I Think I Might Be Weird, o emozionanti come quelli di Broken Little Boys, la canzone in scream più delicata dell’anno. Pur riconoscendo poche canzoni ho comunque un po’ di reminiscenze della bolgia del 2019, solo che questa volta non mi ritrovo a sballonzolare in un oceano di corpi, ma a ballare: facendoci caso, mi rendo conto che la gente che si agita nel pit, più che dimenarsi, sta riflettendo le vibrazioni della musica come su una pista da ballo. L’ultimo pezzo, Baiting the Public, ha una bellissima jam space-rock che funge da outro, e la mossa di sottrarre strumenti uno dietro l’altro, fino a lasciare uno scheletro di batteria a salutare il pubblico, è eseguita con eleganza. Ma non può finire in maniera così riflessiva, ed ecco che per l’encore i nostri vengono a darci un’ultima scossa con quello schiaffone sul viso che è Police (una delle più belle canzoni anti-sbirri degli ultimi anni).

La soddisfazione è palese, e la riversiamo sul solito, povero Nico, che è sempre un gentiluomo. Uscito dal Petit Bain un po’ frastornato, specchiandomi nella Senna d’argento, penso all’unico momento in cui il mitico Damian Abraham si è mostrato un po’ commosso, nel vortice di rabbia che attornia la sua musica. “We went around today, we walked like three hours… You got a beautiful city here, guys”.

Quando hai così tanta musica, e bella così, non posso dargli torto: abbiamo davvero una città bellissima.