giovedì 30 novembre 2023

Un rituale di inizio inverno - Al Festival BBMix con Arab Strap, La Féline e R. Aggs

Arab Strap live @Carré Belle-Feuille (Festival BBMix), Boulogne-Billancourt, 25/11/2023

Introduzione: un inizio di stagione

È fine novembre ed è venuto un gran freddo. Le foglie cadono dagli alberi, e mi godo il loro odore quando si accumulano per terra giallognole e ancora un po’ fresche. Vedere il vapore uscirmi dalla bocca mentre respiro l’aria del mattino mi mette una certa esaltazione: finalmente finisce una mezza stagione dubbiosa e arriva un vero inverno. Vado al mercato e noto con piacere il ritorno di una vecchia amica, l’“endive”, l’insalata belga, compagna fedele delle mie cene invernali. Tiro fuori dall’armadio il piumino canadese marrone chiaro, che mi dà un aspetto serio ma gentile. E poi ovviamente, come con la verdura, mi rigusto un po’ di musica di stagione. L’equivalente delle indivie, il gruppo invernale definitivo, per me sono i Mineral: quel midwest emo sensibile, un po’ tremolante un po’ pungente, descrive l’inizio dell’inverno come non lo fa nessun’altra musica. Metto su The Power of Failing e Five, Eight and Ten mi racconta come mi sento meglio di come potrei farlo io stesso: un po’ malinconico, un po’ preoccupato dal freddo e dal buio che arriva, ma soprattutto emozionato dalla novità e sorpreso da quest’emozione che si rinnova ogni anno come una prima volta. Per un po’, voglio godermi questa energia. Poi, magari, tutte le foglie saranno cadute e i rami degli alberi disegneranno nel cielo scheletri scuri come nella copertina di Burning From the Inside dei Bauhaus. Ma ancora non mi sento “dark”, no. Mi sento elettrico come la scarica di feedback che ti ridesta prima dell’ultimo ritornello di Slower.

Mentre mi godo queste sensazioni di cambiamento del sabato mattina, mi metto a organizzare la giornata. Verso le 19 stasera devo essere a Boulogne. Ottimo: una scusa perfetta per farmi una passeggiata di due ore e passa e attraversare il famoso Bois nell’aria meditabonda dell’“heure bleue”. Poi arriverò alla sala e ci sarà un grande concerto. Ricontrollo la pagina dell’evento per avere l’indirizzo preciso e l’occhio mi scivola su una parola in particolare: festival. Festival, festival, festival… Un festival? In questo momento dell’anno? Cosa?

Era ancora una fine settembre dal sapore estivo quando è stata annunciata la line-up del Festival BBMix. Appena ho guardato il cartellone due nomi, in un’associazione imprevedibile, mi hanno subito fatto saltare sulla sedia: Arab Strap e La Féline, una combo di artisti diversissimi tra loro che, per motivi diversi, volevo assolutamente rivedere. Ancora si usciva fuori di casa con le maniche corte, ai concerti si sudava tantissimo e la parola “festival” aveva quella naturalezza tipica delle giornate d'estate. Ne avevo anche fatti un bel po’ di festival quell’estate, più di quanti ne avessi mai fatti, e in tutto ciò avevo definito la mia politica a riguardo, ovvero: siccome sono sempre esperienze un po’ impegnative, non me la sento di fare più di una giornata e vengo solo il giorno in cui ci sono gli artisti che preferisco. Poi se scopro che lo spirito, la linea editoriale e l’organizzazione generale mi piacciono, tornerò l’anno dopo un po’ più studiato. Perciò a settembre prendo i miei biglietti per il sabato del BBMix con serenità e senza pormi la domanda che invece oggi mi preme: a cosa diavolo assomiglia un festival di periferia a inizio inverno?

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Lacrime di gioia con R. Aggs e la sua danza allegra contro un mondo malato

Arrivo al Carré Belle-Feuille con le gambe un po’ provate. La passeggiata di dieci chilometri e pochissime pause che ho appena fatto mi ha riportato coi piedi per terra, e specialmente la pettata di 45 minuti nel gigantesco Bois de Boulogne, molto meno bucolica del previsto, ha trasformato la mia energia minerale in uno stato meditativo un po’ triste (in sostanza ho attraversato un solo sentiero, costellato di prostitute e parallelo a uno stradone dove le macchine sfrecciano a tutta velocità). Succede.

Entro nel locale, che in realtà è un teatro dal retrogusto comunale. Assomiglia a quello che si dice di Boulogne nella regione: borghese, sì, e anche tanto, ma con un suo lato “street”. Nella grande sala dove di solito si va a prendere aria in mezzo a due atti, i 2 Limited DJ (un gioco di parole rivolto ai 2 Many?) stanno mettendo un disco dei Tropical Fuck Storm davanti al bar. Mi offro subito una birra ma mi accorgo che non posso portarla dentro la sala e mi trovo costretto a ingollarla in fretta e furia, in questo ambiente un po’ inedito, dove sono più giovane della media e forse anche un pochino intimidito.

Lo spazio dedicato ai concerti è bellissimo, un grande auditorium rosso e comodo. L’opening act monta sul palco poco dopo che mi sono seduto, le luci calano e non ci vuole un master in psicologia per accorgersi che l’intimidazione del luogo è arrivata anche lassù. Con la sua zazzerona di capelli, shorts da calcetto, calzini e camicia colorata, quest’artista che non conosco mette subito simpatia. Il tavolo pieno di cavi, aggeggi e altri oggetti esotici riflette quel caos ordinato tipico degli artisti e degli adolescenti, e quando noto la chitarra e il violino a fianco di tutto quell’hardware non ho idea di cosa aspettarmi.

L’artista in questione è Ray Aggs, personalità chitarristica molto attiva nella scena di Glasgow in tanti gruppi situati tra l’indie rock e il post-punk (Shopping, Trash Kit o Sacred Paws, toccherà recuperare), che stasera monta sul palco del teatro sotto al moniker solista R. Aggs. Chi mi legge sa quanto rispetto io abbia degli opening acts: quello di scaldare il pubblico, metterlo nel giusto stato d’animo, aprire le danze, creare interesse e aspettativa, è uno dei lavori più difficili al mondo. Fare bene una o più di queste cose è fondamentale: ho visto serate finire in sfacelo perché gli opening act non erano all’altezza. Ovviamente i modi per portare a termine questa missione di vitale importanza sono infiniti. R. Aggs, in una serata di musica essenzialmente triste, decide di farlo erogando buonumore sugli spalti come se stesse sparando da una pistola d’acqua. La sua musica, essenzialmente indie pop ma dalle solide fondamenta club music, si arricchisce di un chitarrismo dalle melodie rapide, dolci e concise che è semplicemente pieno di vita. La voce naïve ma dalle incursioni intense di Aggs, insieme a certi passaggi di violino, ogni tanto possono dare un’idea di malinconia. Ma non ci si può veramente intristire davanti al suo modo di ballare autentico e soprattutto al suo sorriso schietto, che trasmettono un bisogno sincero di elargire positività, mentre le drum machine e i synth spingono, spensierati.

Chiudo gli occhi e mi immagino sulla pista da ballo. Le canzoni si susseguono, e tutte scaldano il cuore. Alcune le ricordo ancora, ma non le ritrovo sui suoi due simpatici album su Bandcamp, il che lascia presagire l’arrivo di nuova musica (in compenso su Youtube trovate un intero concerto al bar alternativo Chair de Poule nell’undicesimo arrondissement, per rendervi conto del fantastico live act, e una chiacchierata di un’ora e passa con Big Jeff, il più leggendario spettatore di concerti della storia). Dei pezzi che ho sentito dal vivo, sono contentissimo di ritrovare la minimalista New Beat, che mi aveva colpito perché suona come quelle scrollate di spalle finto indifferenti che si fanno ripensando a una vecchia delusione amorosa.

Appena finisce un’altra canzone sorridente, R. Aggs mi prende alla sprovvista facendo il più bel discorso che abbia sentito quest’anno da un’artista sul palco: un momento di lucidità per pensare alla crudeltà del mondo, alla difficoltà di essere artisti e sentirsi a volte inutili, ma persistere nello scopo di diffondere messaggi che ci facciano sentire umani. Non si può veramente spiegare perché, ma mi ritrovo con le lacrime agli occhi come non succedeva da tempo. Non un luccichio, quello succede spesso, proprio le guance rigate. Meno male che siamo al buio (“I’d like to say that it’s nice to see you, but I can’t really see you”).

Per fortuna posso rimettermi a sesto ridendo un po’. Il finale è un omaggio alla musica house del Regno Unito, sopra le righe e teneramente comico: R. Aggs sbaglia a premere un bottone facendo glitchare tutto e a quel punto “fuck it”, prende la sua stessa musica e ci si diverte, la distorce, accelera i BPM all’inverosimile e ci fa il regalo di proporre qualcosa che nessuno risentirà più suonato così. Il concerto finisce e mi sento riempito di gratitudine. La nuova stagione, forse, mi rende ipersensibile. Ma indipendentemente da questo, mi commuove vedere ancora artisti impegnati in una causa fin troppo sottovalutata, quella di farci capire quanto l’autentica gioia possa essere un’arma potente per migliorare il mondo.

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Lacrime di nostalgia con La Féline e il suo sguardo sulla terra natale

Mi asciugo un attimo e ne approfitto per andare a fare un giretto di ricognizione. Il Carré Belle-Feuille si è riempito, anche di facce familiari. I DJ, che pensavo sarebbero serviti a chiudere la serata, sono lì soprattutto per accompagnare gli intermezzi, e spinnano roba simpatica compresi i Superchunk. Mi accorgo, però, che gli orari del BBMix sono belli serrati: non si ha nemmeno il tempo di fondersi un minimo con l’ecosistema che già bisogna tornare in teatro per un altro concerto. Ma è coerente che il rituale festival del solstizio d’inverno richieda una certa austera disciplina.

A questo giro mi siedo vicinissimo al palco: sono davvero curioso di rivedere La Féline, alias musicale della scrittrice Agnès Gayraud. Quando venne alla Ferme Electrique del 2022, se non ricordo male, veniva per rimpiazzare un gruppo un po’ all’ultimo minuto, ma ero riuscito comunque ad esplorare parte della discografia. Il pop curatissimo e sinuoso di album come il solenne Triomphe (2017) e l’esotico Vie Future (2019), in particolare, mi avevano decisamente ammaliato. Il concerto de La Féline dentro al fienile della Ferme, in compenso, era stato profondo quanto irrisolto: la voce e presenza carismatica della cantante e le sue linee di basso penetranti avevano sedotto praticamente tutti, ma la formazione estremamente scarna (solo un batterista con lei), in una setlist che proponeva canzoni decisamente barocche, aveva portato a un senso di incompletezza o di potenziale non del tutto sfruttato. Poi, verso la fine dell’anno 2022, è uscito Tarbes.

Al contrario dei suoi predecessori, quest’album ha un concept estremamente semplice: è un disco sulla città natale dell’artista, Tarbes per l’appunto, quarantamila anime nell’estremo Sud-Ovest. È un disco con meno florilegi e meno allegorie, più diretto e facile all’ascolto, i cui temi principali sono il ricordo, il passato perduto, le origini, che ovviamente a un trapiantato come me risvegliano sentimenti reconditi. Ed è per questo che sono euforico appena vedo La Féline (vestita di rosso sgargiante come l’ultima volta) che monta sul palco con altre tre persone e attacca con l’opener, Tarbes: a questo giro, con canzoni meno elaborate e più musicisti, penso che sarà un concertone. Sul mio volto c’è sorriso entusiasta quando Agnès Gayraud comincia a cantare: “Ça fait un moment que je ne suis pas retournée à Tarbes […] C’est un peu loin d’où je vis désormais. Les mois passent. La ville où je suis née, oh Tarbes”. Poi, porca puttana, risuccede: “Je pense aux Pyrénées […] Aux années de lycée, quand déjà je savais que je partirai un jour de Tarbes”. Lacrimoni di nuovo.

Gli acuti della cantante occitana sono il grido dell’emozione della mia quinta superiore a Firenze, la consapevolezza di allontanarsi da qualcosa di amato per una sorta di destino che sembra al contempo inevitabile eppure non del tutto sensato. Sono sensazioni quasi inspiegabili, che solo una voce speciale come quella de La Féline possono risvegliare. E così, mentre mi riasciugo questo pianto precoce, parte Une Ville Moyenne, una canzone d’amore verso la città dove si è cresciuti, dalle immagini semplici, da poesia crepuscolare: i gatti, i senza tetto, i muratori, “la folla graziosa delle strade pedonali”. Il pop dalle velleità funk è confortante, di una nostalgia senza tristezza. Mi riò, e finalmente mi posso godere la musica senza essere troppo sopraffatto dalle emozioni.

Il quartetto di stasera è composto dallo stesso batterista della Ferme, dallo stile discreto ed elegante, i sintetizzatori suonati da un’altra bravissima cantante e una chitarra blueseggiante che sa aggiungere quella vena di inquietudine tipica di quando il sound de La Féline si fa un po’ oscuro. È il caso, per esempio, di Place de Verdun, ricordo di una tumultuosa passione giovanile da vecchio film erotico francese, oppure Va pas sur les quais de l’Adour, una tenebrosa descrizione delle passeggiate che tutti noi abbiamo fatto almeno una volta in luoghi poco consoni allo “struscio”, senza sapere bene perché né per come. Ma Tarbes, che è il fulcro del set di stasera, è molto altro: sono le storie medievali delle nostre città, come quella di Jeanne d’Albret, canzone dall’epica tragica sulla regina protestante che bruciò la cattedrale (secondo la versione di Gayraud, lo fece lei stessa personalmente); è la malinconia di vedere le cose cambiare quando si torna a casa, come nella dolceamara Tout Doit Disparaître; sono le tradizioni che abbiamo nel nostro DNA anche se non le pratichiamo veramente, come quella della lingua occitana: la versione a cappella a due voci di Fum è da pelle d’oca.

Il concerto de La Féline, insomma, è toccante e mi entusiasma. Il finale è splendido: l’elegia de La Panthère des Pyrénées, omaggio alle nostre geomorfologie interiori e alle topografie della terra natale: pendii, creste rocciose, massi, animali mitici. Il crescendo è mistico e sensuale (come diceva il Maestro del pop sofisticato) e amo pensare che trasporti i presenti sulle proprie montagne del cuore: io personalmente mi immagino a fluttuare sopra al Passo dell’Abetone nell’Appennino Tosco-Emiliano. Allo stesso modo, la scanzonata Dancing parla della pista da ballo un po’ dubbiosa che ognuno di noi ha avuto in gioventù (ci si vergogna di parlarne, di questa, contrariamente alle montagne).

Sotto le note della strumentale vellutata de La Route de Pau, Agnès Gayraud e soci si prendono una pioggia di meritati applausi. “Bràva!”, le urlo, e a questo giro non è tanto perché voglio distinguermi dalla folla (in francese si usa “bravó” per dire “brava”, “bravi”, “brave”), ma perché mi sento davvero un po’ ritrasportato in quel labile concetto che è “la mia terra”. Ormai, dopo tanti anni qua in Francia, non saprei bene cosa vuol dire. Di sicuro, però, non è un luogo dove si dice “bravó” per applaudire i grandi artisti. Mi concedo almeno questo piccolo moto di fierezza, tipica di noi toscani, ma, si dice a giro, un po' anche degli occitani.

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Niente lacrime con gli Arab Strap e la loro autentica tristezza

Il prossimo concerto è tra quindici minuti e la coda al bar (per comprare birre “da shot”) sembra infinita. Onestamente, meglio così, la birra nemmeno mi va. È una serata più sentimentale che festaiola, e mi va di restare ancorato a questa comoda sedia reclinabile, a guardare Aidan Moffat con la sua barbona bianca che sistema il palco con faccia seriosa.

Non mi sembra cambiato per niente da quando ho visto gli Arab Strap in concerto l’ultima volta. Certo, era tanto tempo fa, e un’esperienza sensoriale del tutto diversa. Eravamo al Primavera Sound, avevo appena visto i Descendents (momento più bello della mia vita?) e Paolo quasi trascinò quel mucchio di stracci e sudore che rimaneva di me a vedere questo gruppo scozzese che non conoscevo, a parole sue “iconico degli anni ‘90”, di cui non sapeva veramente spiegarmi il genere. Ancora una volta, e sono due articoli di fila che lo dico, grazie Paolo. Quello che vedemmo quel giorno fu un concerto penetrante in tutti i sensi: ricordo ancora le drum machine a volumi altissimi che suonavano come bastonate, e la voce di Moffat che, pur non capendo niente di quel che diceva, mi raccontava storie sulla dura banalità, e la banale durezza, della vita. Dopo un concerto di musica adolescenziale, speranzosa (avevo perso la voce cantando Hope), ecco che mi piombò addosso l’immagine che avevo dell’età adulta. Dischi effettivamente iconici come The Week Never Starts Round Here e Philophobia in realtà sono stati pubblicati quando i due Arab Strap avevano 23, 25 anni, e raccontano della vita sociale studentesca, di relazioni un po’ casuali, di amici di amici, di feste e di eccessi: tutte tematiche giovanili, ma private di ogni tipo di spensieratezza. Persino The First Big Weekend, che a prima vista sembra una divertente epopea di cazzonaggine da liceale, in realtà è una canzone sul sentirsi fuori posto, incapace di divertirsi, tormentato da un sentimento di inadeguatezza sociale, in cerca di oblio… 

Nonostante la profondità dell’essenza della loro musica, gli Arab Strap possono avere anche un lato festoso e quella sera a Barcellona furono capaci di dosarlo come si deve, dimostrando di saper essere dei veri mattatori. Accompagnati da tanti musicisti, di cui anche un violino, i due scozzesi fecero uno show storico, emozionante e ricco di intrattenimento. Primavera Sound: Live in Barcelona (2017) degli Arab Strap è l’unico live album tratto di un concerto a cui ho assistito, o almeno l’unico che consideri davvero rilevante. È registrato benissimo ed è pure gratis su Bandcamp. Difficile trovare scuse per non scaricarlo.

Stasera tante cose sono diverse da quel giugno di sei anni fa. Non è solo che siamo in un teatro, o che è inverno. Stasera gli Arab Strap ci portano uno show che si chiama Philophobia Undressed. Il loro album di culto del 1998, Philophobia, verrà suonato per intero e, anzi, “denudato”, anche se non so cosa vuol dire. Due cose vanno specificate: uno, Philophobia è uno dei dischi più tristi che conosca. Due, ormai ho pianto a tutti i concerti di stasera, e anche per motivi abbastanza inspiegabili e imbarazzanti: ho un vero timore di cosa sta per succedere.

Ma poi, finisce che non verso nemmeno una lacrima. Non è che la performance non sia profonda o sentita, no. È che si può piangere di gioia, di rabbia, di commozione, di disperazione e di mille altre cose, ma è davvero difficile piangere di pura e semplice tristezza.

Gli Arab Strap montano sul palco in due, come nella loro formazione originale. Non ci sono fronzoli né arrangiamenti particolari: Aidan Moffat canta, manda delle basi semplicissime (basso, drum machine e un paio di strumenti al massimo) e suona un piatto e un timpano; Malcolm Middleton non molla mai la sua chitarra e disegna musica. Non è minimalismo, è essenzialità. La loro musica, non per caso, è indefinibile: indie sì, ma troppo poco energetico per essere rock e troppo poco orecchiabile per essere pop; elettronica sì, ma né veramente club, né veramente sperimentale. È musica che non vuole appartenere a un genere, ma il cui solo obiettivo è quello di comunicare.

Parte Packs of Three e piombiamo subito in un oceano di nichilismo. Moffat parla di dispiaceri sessuali con una tonalità che ti stringe le budella e il suo accento scozzese, che sei anni fa nell'euforia generale mi era sembrato un elemento di “novelty”, oggi mi appare come uno strumento, per l'appunto, di messa a nudo. Tante band scozzesi ci hanno insegnato che di cantare in “BBC English” ne sono facilmente capaci. Cantare nella stessa maniera con cui si parla nella vita vera è la scommessa di chi accetta di portare gli ascoltatori nella propria quotidianità. E nello squallore degli aneddoti di chi è cresciuto troppo in fretta nella Glasgow a cavallo tra anni ‘80 e ‘90, fa male catapultarcisi. Il bello di Philophobia, però, è che la sua musica è deprimente ma mai repulsiva, e nel dolore si aprono tantissimi spiragli di lancinante bellezza: il riff che arriva alla fine di Here We Go è cupo ma dolce come una carezza, la coda distorta che nobilita il mogio spoken-word di New Birds è esaltante, il lungo tappeto sonoro di Islands è un barlume di speranza (“There’s land ahoy”). In molti, me compreso, hanno detto che in fondo Philophobia è un disco slowcore, ma anche questa definizione gli sta stretta: ci sono canzoni che sono persino vivaci, come Not Quite a Yes, un bilancio crudo sulle contraddizioni di quello strano costrutto sociale che è la seduzione.

Un’altra cosa davvero impressionante di Philophobia è come sia un album tristissimo e lungo più di un’ora ma che in realtà è ben digeribile e scorre in fretta. Ogni canzone è un piccolo pugno nello stomaco, ma sempre nuovo e che ti lascia sempre la curiosità di vedere come sarà il successivo. “It’s not the most cheerful record”, dice Aidan Moffat in glaswegian, facendo ridere nervosamente tutto l’uditorio. I Would Have Liked Me a Lot Last Night colpisce particolarmente in profondità: sarà che ho appena letto Trainspotting, sarà che mi ritrovo a pensare che è stata scritta 25 anni fa da due ragazzi di 25 anni, e che ho 25 anni in questo momento… Resta una canzone di un’attualità disarmante, che racconta tutto ciò che non vorrei diventare e che ho paura che i miei amici diventino, una dichiarazione di annichilimento spaventosissima. Philophobia finisce di divorarci i sentimenti con la closing track The First Time You’re Unfaithful, donandoci, dopo tanta inevitabile volgarità (sesso, droga, gelosia…) una prova di delicatezza e di coscienza di sé: “You said you know what I’m like”…

Sentire Philophobia è stato un privilegio irripetibile, e non me ne frega nemmeno granché di pretendere una First Big Weekend (per quello posso aspettare il PS 2024). L’encore ci vizia comunque con due canzoni del repertorio “quasi-ballabile” degli scozzesi: The Turning of Our Bones, coito inquieto e perverso, e la struggente The Shy Retirer, grande classico nonché una di quelle rare canzoni che sanno rendere la house music tragica.

Il concerto termina ed è stato molto apprezzato da tutto il pubblico. Sondo rapidamente i volti dei miei vicini di posto: sono tutti seri, non contriti ma sicuramente segnati. Chi è venuto da solo, come me, non sembra volersi attardare nell’atrio tra bevande, DJ e merchandise. Dopo il set degli Arab Strap, accogliere il freddo delle strade di Boulogne e crogiolarci nella consueta solitudine della metropolitana sembra un buon piano per sentirsi bene.

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Conclusione: la stagione continua

La giornata di oggi, e la musica di stasera, dipingono perfettamente la parabola delle sensazioni dell'arrivo di un lungo inverno. All'inizio un entusiasmo che sfida l'intimidazione del freddo con ottimismo. Poi, subito dopo, una languida malinconia che però dà ancora un sentimento di conforto inspiegabile e domestico. Infine, l’accettazione che la semplice e pura tristezza esiste, e che bisogna viverla senza artifici se non, al limite, un briciolo di fiera rassegnazione. In questo trambusto emozionale, il Festival BBMix ha avuto il ruolo di fautore della catarsi, come le tragedie in un teatro greco: la serata di oggi è stata un vero e proprio rituale di purificazione.

Durante il suo set, a un certo punto La Féline dice che anni fa era venuta al BBMix per vedere gli Young Marble Giants. È lì che mi sono incuriosito davvero alla filosofia del festival e ho esplorato le vecchie line-up. A parte che ci sono stati headliner da capogiro, tutti con un'essenza squisitamente invernale, ma poi hanno tutti come fil rouge il concetto stesso di catarsi: Swans, Spain, Boris, James Chance & The Contorsions, Wire, Faust… Andare a un festival per ritualizzare l'arrivo della stagione più dura dell'anno e accettarla con naturalità mi sembra un concetto bellissimo. Magari l'anno prossimo sarà tramite scariche di drone e shoegaze, ritmi sabbatici e ossessivi oppure ancora con la crudezza di uno slowcore scheletrico. Poco importa: l’idea mi convince e l'anno prossimo presenzierò. 

Ma l'anno prossimo è ancora lontano. È cominciato un lungo inverno, e probabilmente non sarà facilissimo. Ma la stagione continua.

martedì 21 novembre 2023

Life Lately (Novembre 2023) - Alfa Mist, Deerhoof, Superchunk, The Magnetic Fields, Fucked Up


Dal momento dell’apertura del blog di Stereo Totale ad ora ho vissuto una “winning streak” perfetta. Scrivere, in quantità e con ispirazione, non mi era mai stato così facile. Ovviamente, c’è un trucchetto. Se ci fate caso tutte le serate di cui ho parlato finora, susseguitesi con un ordine pressoché perfetto, hanno tantissime cose in comune: band che ho quasi sempre già visto dal vivo, perlopiù francesi o di paesi limitrofi, e tutte che fluttuano in quel magnifico strato di aria tra l’underground e la consacrazione, quella mesosfera nel quale noi piloti della musica “di nicchia” amiamo fare le evoluzioni aeree più audaci coi nostri velivoli. Per un cronista in erba e ancora alle prime armi come me è stata una fortuna inaudita quella di avere un settembre/ottobre strutturato così: ho potuto presentare ai miei lettori qualcosa di nuovo ma che già conosco, e soprattutto parlare di band di cui probabilmente in Italia si sa ancora poco o nulla. Non si pensi però che nella vita vado unicamente a concerti di gruppi garage rock con un bacino di utenza di grandezza medio-bassa. Mi capita al contrario piuttosto spesso di andare a vedere artisti ben affermati, ai quali riviste importanti hanno già dedicato pagine su pagine di interviste, recensioni e retrospettive. Capite bene che diventa molto più complicato scrivere qualcosa di completamente inedito. Non per questo trovo inutile tirare giù sulla pagina qualche riga di testo sul mio punto di vista riguardo a quello che musicisti famosi propongono oggigiorno sul palco. Amo la musica e amo parlare di musica su questo spazio, e siccome su Stereo Totale non esiste una vera e propria “linea editoriale” oggi ci divertiremo a uscire dai sotterranei dei gruppi emergenti per toccare con mano nuove realtà (e nuove sale concerti, e nuovi opening act, e nuovi generi, e nuove persone, e nuove emozioni)…

Ecco perciò “Life Lately” una piccola rassegna che racconta alcuni concerti degli ultimi tempi. Una blog entry magari un po’ più lunga della media, ma anche divisa in piccoli capitoli, in cui ai lettori è concesso anche di andare a guardare solo quello che gli interessa. Ancora non ne so nulla, ma penso proprio che non sarà un unicum e probabilmente diventerà una rubrica frequente.

Cinque concerti. Pronti, via.

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Alfa Mist – Quando la carovana del jazz contemporaneo arriva in città

Alfa Mist live @La Lune des Pirates, Amiens, 04/11/2023

Quest’estate ho regalato alla mia amica Sophie una finta smartbox di marca Reric, un buono omaggio per un concerto di sua scelta e un’accoglienza parigina di tutto rispetto. Il giorno che Sophie ha “appizzato il Songkick” (gergo da giovani) per vedere quale evento avrebbe potuto riportarla in città, è rimasta scottata dal fatto che la venuta del suo idolo Alfa Mist a Parigi fosse incompatibile con l’agenda della sua vita digionese. Ci viene però segnalata la notizia improbabile che il pianista inglese avrebbe portato la sua band un sabato sera ad Amiens, nel dipartimento della Somme. Della Somme è difficile conoscere molto, a meno di essere esperti della Grande Guerra o di pale eoliche, che nella regione sono presenti in gran numero. Essendo un mestierante dell’energia del vento ho avuto la fortuna di conoscere abbastanza bene questa parte di Picardia, e Amiens, il suo capoluogo, è una bellissima città di media grandezza che respira tutto ciò che caratterizza questa parte del fare Francia Nord-Est: austerità, resistenza, fierezza e anche un po’ di impoverimento post-industriale. Perciò accetto con entusiasmo la proposta di un weekend piccardo a base di nu-jazz, case di mattoni rossi, canali alla olandese e piatti generosi dove la panna abbonda. Amo fare delle saltuarie sortite “en province”, amo ancora di più far incazzare Sophie, che teoricamente “en province” ci vive, pronunciando senza vergogna questa espressione un po’ dispregiativa.

Che poi, faccio tanto il fenomeno ma non è che qua la cultura dei concerti sia tanto dissimile da quella della capitale, è solo un attimo più sana e gradevole: l’apertura dei cancelli anche qui è presto, ma abbastanza tardi da prevedere una cena anticipata sensata, contrariamente a Parigi; le birre costano un pochino di più che al bar, ma almeno sono varie e di qualità, contrariamente a Parigi; la gente è cafona tra un set e l’altro, ma educatissima nel mentre che i gruppi suonano, contrariamente a Parigi. È chiaro che siamo al concerto-evento del mese: la Lune des Pirates, splendida SMAC (statale!) dalla capienza di 250 persone è strapiena al punto che è quasi difficile muoversi, e all’ingresso lo staff non sa più dove mettere i cartelli “sold out” per ribadire il concetto. Quello dell’opening act, il trio dei locali Verb, è quasi un piccolo trionfo. Nonostante la cinica ma giusta definizione di Sophie, “i ragazzi della scuola di musica”, devo dire che non disdegno affatto la performance di questi giovanissimi: intanto hanno la miglior line-up jazz possibile, ovverosia piano, basso e batteria (come il Bill Evans Trio); poi gli devo riconoscere il merito di avere delle composizioni originali carucce, dei temi orecchiabili e qualche idea riuscita (Colonel Macmontgomery, per esempio, si fa ascoltare con interesse), a discapito degli assoli che sono pochi e non particolarmente emozionanti.

Ovviamente siamo qui per il main act. Prima di parlarne, però, mi concedo di fare un piccolo inciso. Chi mi legge si sarà accorto che, per ora, di musica jazz non si è proprio mai parlato. In realtà il jazz, soprattutto per la natura molto colta della sua critica (inserire copypasta di Scaruffi sulla critica rock), è un macro-genere del quale non mi sento troppo a mio agio di parlare davanti a un pubblico generale. Il rischio è sempre quello di passare per una persona che parla senza saperne nulla. Penso che sia un complesso che in molti hanno, nel microcosmo di chi scrive di musica. Perciò mi concedo questa piccola parentesi che è quasi un’ammissione di colpa: contrariamente al rock, dove mi concedo di fare ponti tra sottogeneri e scuole di pensiero o altri pindarismi, io il jazz lo valuto “a pelle”. Mi piace ascoltare i grandi classici del bebop, del cool jazz, dell’hard-bop e anche mettere su del jazz contemporaneo piacione quando me ne viene voglia (non disdegno un Branford Marsalis, con immenso scorno di amici per cui il jazz rappresenta un mestiere, e che trovano questo tipo di ascolti deplorevole). Non traggo troppo piacere dal free-jazz, dall’improvvisazione libera o dal post-bop troppo avanguardista (The Bad Plus è la cosa più “spinta” che io possa ascoltare). Insomma, per farla breve: quel che amo sono le alternanze di assoli, le forme dei brani immediate, tema-solo-solo-tema, le melodie memorabili, la maestria dei musicisti. Soprattutto quest’ultima cosa: amo vedere un gruppo in concerto e dire: “Porca vacca, come suonano bene”. Sarà una visione semplicistica, ma non ci posso fare granché, a parte, come direbbe qualcuno, “farmi una cultura” e ascoltare nuovi dischi uno dietro l’altro invece di rimettere su la solita vecchia compila di Charlie Parker. Ma non so se mi va.

La bellezza del jazz, nonostante tutti questi discorsi che denotano più insicurezza che altro, è che alla fine è una musica che ci parla anche se non ne siamo o non vogliamo esserne esperti. Ad esempio l’ultimo disco di Alfa Mist, Variables (2023), mi ha molto colpito: un album che sa riprendere forme di swing classiche con eleganza e riuscire a essere sia brillante sia un po’ tenebroso, con quel savoir-faire piovoso che si trova solo nel Regno Unito. La più grande referenza che ho sempre avuto di Alfa Mist però è il suo classicone, Antiphon (2017), un album che è stato su tutti i consigliati di Youtube del mondo, ma che ha oggettivamente grande personalità, proponendo un universo sonoro capace di piacere sia ai puristi del genere sia agli amanti di nuove correnti più easy-listening definite (da chi poi?) con l’etichetta “lo-fi”. Cosa mi aspettavo perciò da Alfa Mist? Fermo restando che non sono un grande esperto dell’artista in questione, quando ho visto il quintetto di inglesini imberbi montare sul palco, con sullo sfondo un bellissimo video di acquerelli in stop-motion, non ho potuto fare a meno di immaginarmi un concerto delicato, pieno di ritmi hip-hop che avrebbero fornito il giusto sottofondo per far brillare il frontman e il suo piano elettrico. E invece.

La performance che segue è quasi abrasiva: la chitarra elettrica si concede spesso e volentieri bending asprignoli, la tromba spinge sugli acuti, il basso elettrico sarà quasi sempre preferito al contrabbasso, creando una coltre di frequenze cupe densissima, e soprattutto l’eccezionale batterista propone uno stile “hard” che non si fa scrupoli a mettere accenti sul crash sconquassando tutti gli avventori della Lune des Pirates. Alfa Mist ha soprattutto il ruolo di mettere dell’ordine e dell’equilibrio in questo esaltante assalto, con accordi dolci e sfumati, ma se vedessimo la band senza saperne nulla faticheremmo a definirne un leader. I momenti solistici del pianista non sono tantissimi, e coincidono, per l’appunto, con quell’approccio moderno e un po’ hip-hop che ha reso celebre Antiphon: è splendido, per esempio, l’intermezzo in dilla-beat di Organic Rust, dove Alfa Mist fa anche un po’ di rap. Ma, per l’appunto, i brevi passaggi che riportano al cosiddetto “lo-fi” sono solo intermezzi, e il resto del concerto è più orientato su una sorta di hard-bop contemporaneo estroso e potente, non privo di dolcezza, ma sempre pronto a esplodere con intensità, come nell’inquieta Variables. Infine, quasi ogni pezzo viene introdotto da uno strumento che, completamente solo, anticipa la canzone per un minuto o più. Tutti i solisti sono fortissimi, e perciò la domanda che sorge spontanea a tutti è la seguente: ma che cazzo ci fanno ‘sti mostri un sabato sera ad Amiens, in questo bugigattolo che non ha nemmeno un backstage?

Continuo a pormi la domanda anche mentre la band attraversa tutta la sala e sale le gradinate per tornare dietro le quinte tra gli applausi, dopo averci deliziati chiudendo con l’iconico e sfizioso funkettone di Brian. Il pubblico della “provincia” è abbastanza in visibilio, anche se c’è chi ha trovato l’approccio live del gruppo troppo estremo. Io non sono d’accordo e controbatto: che fortuna quella di aver visto da vicinissimo dei giovani talenti di questo livello. Una vera e propria iniezione di meraviglia. Torno su quel che dicevo prima: io del jazz amo il lato strabiliante, immediato, forse persino spettacolare, che è quello che stasera Alfa Mist ci ha portato.

Perciò mi do la risposta che vorrei sentirmi dare. Cosa ci faceva il quintetto di Alfa Mist, ad Amiens un sabato sera? Nulla, passavano dalla Picardia con la loro carovana e si sono fermati in città per una sera. 

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Deerhoof – Nella ricetta dell’allegria c’è sempre un pizzico di rumore

Deerhoof live @La Maroquinerie, Parigi, 07/11/2023

Nei vari shoutout ai miei amici che ormai popolano gli articoli di Stereo Totale c’è un nome che non ho ancora mai citato ed è quello di Lauren. Direttamente da Orange County, California, la mia amica Lauren è al contempo un esempio di francofilia definitivo e un rifugio di sana americanità che sono contentissimo di avere nella mia vita. Ci siamo conosciuti perché lei voleva fondare una band di variété française pura e dura, e cantava cover di Véronique Sanson insieme ai suoi inediti, scritti con grande professionalità. Nonostante la sua missione culturale franco-francese, capii subito che Lauren era piena di sorprese: nella prima sera in cui ci siamo parlati mi ha fatto scoprire i Deerhoof, il gruppo noise-rock più matto che io conosca. Quest’estate era il suo compleanno e quindi le ho regalato il concerto di questo suo gruppo-feticcio, una band che lei ascolta da più di dieci anni. Capita proprio in questo inizio novembre, un momento in cui per varie vicissitudini e per voglia di conoscere nuova gente ci vediamo più spesso del solito. Abbiamo trovato un bell’affiatamento nel rapportarci al mondo esterno: lei, come del resto tutti gli americani, è campionessa di attaccamento conversazioni con gente sconosciuta; io, da semplice estroverso, seguo e mi diverto.

Quando ci incontriamo, stasera, siamo in preda ad un’eccitazione febbrile: è chiaro che ci aspetta uno show unico nel suo genere. Io penso a un’intervista di Stephen Malkmus in cui lui diceva che i Deerhoof sono il suo concerto preferito (e la Fiorentina la sua squadra del cuore!), lei ride e mi fotografa davanti a un cartello in cui i Deerhoof chiedono gentilmente al pubblico di mettere una maschera contro il covid: ma quanto sono strani? Ci raggiunge Pauline, terzo tassello di un trio di amici nato tre anni or sono attorno alla voce di Lauren e che mi fa tanto piacere sia restato unito. Tra che non ci vediamo da un po’ e abbiamo tanto da raccontarci, tra che stasera abbiamo l’aspettativa di vedere qualcosa di grandioso sul palco, decidiamo di saltare l’opening act, un duo dadaista un po’ semplicione, dopo nemmeno due canzoni. Preferiamo approfittare del bar all’aperto della mitica Maroquinerie, uno dei mi locali preferiti a Parigi per varie ragioni: è nel quartiere Ménilmontant (a uno sputo da Belleville e altri luoghi d’interesse), ha la forma di un mini-anfiteatro, ha un bar all’aperto.

Quando l’ora si avvicina scendiamo in sala per vedere i Deerhoof, con la mascherina donataci da loro rigorosamente posizionata sotto al mento (dai su, ma si può mettere una mascherina anti-covid a novembre 2023?). Per chi non li conoscesse, una rapida descrizione della band. Nati nel 1994 a San Francisco, i Deerhoof da quasi trent’anni pubblicano dischi uno dietro l’altro ampliando costantemente il loro sound noise-rock sopra le righe. Attingendo tanto da free-jazz e affini, con ritmiche sbilenchissime e uniche nel loro genere, i nostri sono capaci di tutto: si passa dall’estremamente melodico al rumore puro. Unico fil rouge di una carriera prolificissima, le vocals leggiadre della cantante Satomi Matsuzaki, giapponese trapiantata in California che riesce a infondere bizzarria, ma anche delicatezza e persino eleganza a un universo sonoro pieno di follie e trovate inaspettate. In questi ultimi anni i Deerhoof sono in un momento di grazia, con la pubblicazione di album particolarmente riusciti: quello del 2021, Actually, You Can, è una delle mie release rock preferite del decennio e il recente Miracle-Level (primo album in giapponese, nonché primo album registrato in un vero studio!) riconferma una band che ha ancora tantissimo da dire.

All’interno della Maroquinerie, la nostra posizione leggermente sopraelevata ci sembra perfetta per vedere tutto quel che succede sul palco. Purtroppo ci sbagliamo: Greg Saunier, il batterista, è altissimo ma suona bassissimo, e non lo vedremo mai agitarsi sul suo kit ultraminimale (piatto, rullante, timpano, cassa), se non in qualche raro spiraglio della folla. In compenso, appena la musica inizia, mi rendo subito conto che sto ascoltando uno degli interpreti dello strumento più impressionanti della mia generazione: il suo piatto suona come quattro piatti diversi, idem per tutti gli altri elementi del kit, e le note che suona sono tantissime, piene di sfumature, mai dove te le aspetteresti ma tutte sensate. Mentre Saunier impazzisce sulle pelli (è lui il verso solista del gruppo) i due chitarristi shreddano riff impossibili, sinfonici e dissonanti allo stesso tempo. Una musica intellettuale, si potrebbe pensare a un primo approccio, ma non è così: i Deerhoof sono buffi, energetici, simpatici, ed è puro intrattenimento. Le canzoni si susseguono velocemente, una più speciale dell’altra, e se ne vorrebbe sempre di più. Le sfuriate chitarristiche si alternano a, o si fondono con, attimi di pura carineria: My Lovely Cat!, ad esempio, un po’ svolazza e un po’ punge, tra texture melodiche atmosferiche e la discesa dal cielo di chitarre taglientissime; Scarcity is Manufactured suona come una versione math-rock de La Bamba; Be Unbarred, O Ye Gates of Hell produce un sing-along esilarante nella sala (il testo parla delle verdure dell’orto) e alterna un tema principale di musica barocca in distorsione (!) con intermezzi di puro metal (!!!). La musica dei Deerhoof è una vera e propria pozione di buonumore, piena di nostalgie divertenti tipo la cover in tempi dispari della sigla di Supercar (Love-Lore 2) e momenti emozionanti come la sfuriata noise finale, di una violenza sonora che non fa sconti a nessuno.

Usciti dal locale, bevendoci un’ultima birra, notiamo che tutti attorno a noi sono su di giri, esaltati e soprattutto allegri. La gente chiacchiera senza inibizioni di argomenti vari ed esotici e soprattutto dice che ci vorrà almeno una buona notte di sonno per riabituarsi alla musica “normale”. È questo il potere dei Deerhoof: trasportarti in un mondo dove nulla è veramente al posto in cui te lo aspetteresti, dove tutto un po' stupisce, un po’ spaventa, ma alla fine ti mette sulla faccia un gran sorrisone. È un po’ come immagino la droga psichedelica perfetta.

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Superchunk – La musica adolescenziale vince ancora

Superchunk live @Supersonic Records, Parigi, 08/11/2023

Una decina di giorni prima dell’8 novembre ero a un concerto di Trotski Nautique (sì, un altro) e ho parlato con un giovane parigino dalle vedute molto radicali che mi ha detto testuali parole: “Al concerto dei Superchunk non voglio andarci, perché è una musica così adolescenziale che non posso sopportare di vederla suonata da un gruppo di cinquantenni”. Inutile a dirsi, ho detto al ragazzo in questione che è una testa di cazzo.

Sia detto: per me “adolescenziale”, se si parla di musica rock, sarà sempre un complimento: trovo eroica la capacità di trasmettere emozioni pure, crude e vivaci come se le vivessi per la prima volta, o ancora la bellezza di sentire in un’arte “adulta” la voglia di stupirsi ancora delle cose semplici ed efficaci, che si parli di una pausa prima di un ritornello, di una linea vocale arrogante, di una chitarra che si aggiunge all’equazione o di una batteria che raddoppia i colpi di rullante per alzare l’intensità. Se Giovanni Pascoli parlava della poetica del fanciullino, io in molta della musica rock che ascolto vado alla ricerca di quella del diciassettenne. Potrei passare ore ed ore a fare liste di artisti che, nel cercare di trasmettere emozioni “mature” suonano falsi e poco credibili, così come potrei citare un’immensità di gruppi che ancora oggi sono capaci di fare concerti o pubblicare nuovi album in cui non si fa segreto della loro mezza età, e con poche note farci risognare gli anni andati dell’adolescenza, periodo magico e nostalgico per eccellenza.

Nella mia testa, faccio defilare qualche nome che aderisce a una poetica adolescenziale. La prima cosa che mi viene in mente sono i gruppi punk californiani, che siano della prima scena melodic hardcore tipo i Descendents o dei loro continuatori morali, sia quelli più emo tipo i Jawbreaker o quelli più skater tipo i Cigar. L’altra scuola che ha reso grande la visione filosofica del sound adolescenziale sono i peripatetici dell’indie/slacker rock degli anni ’90: Pavement, Dinosaur Jr., Teenage Fanclub, etc. Per me i Superchunk sono sempre stati un “inbetweener” tra questi due approcci alla musica, un ponte che connette due mondi che amo alla follia. Ho sempre amato gli inbetweeners (per esempio, preferisco i metallari Helmet o i quasi shoegazers Swervedriver a gruppi grunge più “classici”). Inoltre, i Superchunk mi ricordano quei bellissimi sette mesi passati a St. Louis, Missouri, quand’ero in scambio universitario: fu proprio nel mio periodo “midwestern” che scoprii questa fantastica band power pop, dalle leggere velleità punk e un senso della melodia fenomenale. Inutile dire che ho saltato di gioia quando ho scoperto che il quartetto della North Carolina sarebbe passato da Parigi. “20 euro sono troppi”, mi diceva il testa di cazzo sopracitato. Allora valli a spendere altrove.

Il Supersonic Records, appendice del più celebre (e gratuito) Supersonic Club, è una bellissima saletta con amplificatori e memorabilia da fu record-shop sparsa sui muri. Non c’è tantissima gente e stasera i mei 25 anni abbassano l’età media sensibilmente. La gente con cui chiacchiero nell’area fumatori (un oggetto in via d’estinzione che è nostro dovere proteggere) sono quarantenni in giacca di pelle che hanno già visto i Superchunk dal vivo anni or sono. Li osservo mentre disquisiscono del periodo africano dei The Ex e mi ricordano comicamente i personaggi di Vernon Subutex, l’epopea rock di Virginie Despentes. L’opener non è veramente niente di che ma siccome sono da solo me lo sorbisco tutto. Poi, finalmente, i Superchunk.

Una band che avrebbe meritato molto di più, questo è il mio primo pensiero. Mac McCaughan, le due socie della sezione ritmica e il chitarrista pelato (il meno giovanile della band, perciò il più fiero) hanno un’energia lucente dal primo momento in cui montano sul palco. Le vocals lamentose del frontman non sono invecchiate in nulla e mi commuovono, mentre la batteria picchia (essenzialmente sul ride) e le chitarre sciorinano melodie su melodie. Le canzoni avanzano senza sosta e un secondo pensiero affiora, un po’ come il diavoletto che viene a rompere le palle all’angioletto sulla spalla. È un pensiero che, peraltro, mi sfiora spesso quando ascolto la loro musica: sono tutte belle queste canzoni, certo è sempre un po’ “more of the same”. Ma in realtà, più ci rifletto, più mi convinco che, come si dice a Firenze, “l'è i’ su’ bello”: ognuno può afferrare le sue personali hit da questo vento di melodie che soffia incessante. E perciò vedere i Superchunk è anche un’esperienza mutuata dal proprio vissuto. Io per esempio mi esalto con Hello Hawk (perché adoro Come Pick Me Up, specialmente il suo lato A), un altro giovane fan domanda a gran voce My Gap Feels Weird, riesce a farla inserire nella scaletta e festeggia con tutti quelli nel raggio di cinque metri attorno a lui (evidentemente questa deep cut è una canzone importante nella sua vita, che bella cosa). Scopro nuove perle del loro grande repertorio, tipo On the Mouth, uno sfrenato e oscuro B-side esclusa dal disco omonimo, che mi piace proprio perché mi ricorda quanto l’anima dei Superchunk sia profondamente punk rock. Il finale con Precision Auto (che di On The Mouth invece era l’opener) è davvero un bel regalino: il riff principale andrebbe messo nella versione digitale dell’Enciclopedia Britannica alla voce “teenage angst”. E ci dovrebbe essere anche un video dei Superchunk stasera, agitatissimi sul palco, che trasmettono un’energia che posso paragonare solo a quella di momenti vissuti tra i 17 e i 19.

Come tutte le cose belle, il concerto finisce e ho addosso un'eccitazione inspiegabile. Volevo andare a letto presto, ieri ho visto i Deerhoof, prima del concerto avevo persino sonno. Invece sono qua a farmi una bevuta di troppo con quel matto che faceva richieste poco lontano da me. La batterista e la bassista escono a smontare i loro attrezzi di lavoro e ne approfittiamo per scambiarci due parole. È il momento di giocarmi la mia carta e perciò decido di riciclare una frase che avevo usato nel mio programma radiofonico sulla “college radio” di St. Louis: “Next tour please consider playing Like a Fool, ‘cause it’s the Baba O’Riley of ‘90s indie rock”. Il programma si chiamava “Messy Hair”.

Spero di continuare a spettinarmi con la musica anche quando sarò vecchio.

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The Magnetic Fields – Avremo sempre bisogno di canzoni d’amore

The Magnetic Fields live @Petit Bain, Parigi, 11/11/2023

Il Petit Bain è sicuramente la mia sala concerto preferita in città. Ricordo ancora come se fosse ieri la prima volta che ci sono andato: era luglio 2015 e grazie a mio padre, che lavorava a Parigi, avevo rimediato un piccolo tirocinio di quarta liceo in cui passavo la giornata a sistemare gli archivi dell’università che anni dopo avrei frequentato. In quelle giornate, leggermente monotone, non sapevo troppo come occupare il mio tempo se non ascoltando thrash metal. In un’estate parigina particolarmente calda, ho un particolare ricordo di Beneath the Remains dei Sepultura che suonava ogni giorno. Un bel dì apprendo la notizia che gli Iron Reagan, side-project dei Municipal Waste (forse la band più leggendaria del revival thrash anni 2000), si sarebbero esibiti al Petit Bain. Fu una serata di grandi rivelazioni: non solo scoprii, con grande sorpresa e dopo tante incomprensioni con Google Maps, che può esistere una sala concerti nella stiva di una barca, ma feci anche il mio primo stage dive.

All’epoca non sapevo che un giorno avrei vissuto a Parigi in pianta stabile, ma capii che quel Petit Bain che galleggia sulla Senna nel tredicesimo arrondissement (il più strano, post-industriale e modernamente austero dei venti distretti) sarebbe stato uno dei locali del cuore della mia vita intera. Anni dopo, eccomi qua: al Petit Bain ci vado regolarmente, i concerti qui hanno un sapore speciale e la programmazione è splendida a ogni stagione. Tra l’altro, mentre vedevo un gruppo indie rock che risponde al nome di In My Head alla Ferme Electrique qualcuno mi fa: “Lo vedi il cantante? Si chiama Nico, è lui che fa la programmazione del Petit Bain”. Capelli alla J Mascis, cappello sempre in testa, quest’uomo molto ben riconoscibile è diventato la vittima costante dei miei deliri serali da quando sono stati annunciati i Magnetic Fields al Petit Bain. Ogni sera in cui lo incrocio, da mesi a questa parte (compreso il concerto dei Superchunk), gli dico: “Sei un grande per aver portato i Magnetic Fields al Petit Bain” oppure “I Magnetic Fields? Non penso ad altro, giorno e notte”.

Ovviamente, sono cose che penso davvero. Innanzitutto è davvero sorprendente vedere un gruppo così grande associato a questa sala, di grandezza medio-piccola. Stephin Merritt, il frontman del gruppo, è considerato da molti il più grande paroliere “indie” della storia del pop, e i Magnetic Fields non mancano mai nella conversazione quando le parole “indie” e “pop” vengono pronunciate a prossimità l’una dell’altra. C’è un’altra ragione, però, che giustifica la mia esaltazione per la venuta dei Magnetic Fields al Petit Bain, ovvero che sono il gruppo più importante dell’anno 2023 per me. In una domenica di questo febbraio, in cui non avevo niente da fare se non tante lavatrici, ho cominciato a vedere le prime avvisaglie della fine di una storia di amore che durava da due anni. Era il giorno perfetto per ascoltare 69 Love Songs e da quel momento in poi quel triplo album, praticamente perfetto, mi ha accompagnato e aiutato tantissimo durante un lungo periodo di separazione dalla prima fidanzata della mia vita francese. Il mio amico e consulente sentimentale Paolo, che avete già conosciuto nell’articolo sul Primavera Sound, 69 Love Songs mi aveva consigliato di ascoltarlo circa 5 anni prima. Come al solito, i consigli di Paolo li seguo con grande ritardo ma arrivano sempre al momento giusto.

L’annuncio dei Magnetic Fields a Parigi ha riportato Paolo in città e ci siamo di nuovo dedicati ad attività importanti come l’abbuffata di escargot, o i dodici chilometri di camminata giornaliera minimo. Quando entriamo al Petit Bain è stupidamente pieno: non è sold-out, è proprio oversold. Insieme ai nostri amici securizziamo un buono spot proprio in mezzo alla fossa, e nonostante la calca ci godiamo l’opening act di Ed Dowie, un signore inglese ormai stagionato il cui synth-pop, tenero e timido quanto lui, omaggia in maniera smaccata ma non spiacevole i Magnetic Fields dell’epoca Holiday e Get Lost, con giusto qualche sprazzo di folk britannico (vedasi Dear Florence, canzone che apprezzeremo molto pur non accorgendoci che è un omaggio alla nostra terra natale). Number Eight Wire sembra veramente un b-side dei Magnetici del ’94, e infatti quando, dopo quindici interminabili minuti di attesa, il quintetto newyorkese monta sul palco con sobrietà, Merritt si accomoda sul suo scranno con un’espressione quasi scazzata e dice che ha ancora in testa la melodia della canzone di Dowie.

I Magnetic Fields, e nell’ambiente si sa, suonano musica prevalentemente acustica, e a volumi molto bassi. Merritt ha perso parecchio udito a un concerto degli Einstürzende Neubauten (nostro), perciò facendo di necessità virtù ha fatto riarrangiare tutte le canzoni che contenessero una benché minima distorsione e il risultato, come si poteva prevedere, è splendido. Il loro concerto è un fiume in piena di hit, viene voglia di cantare quasi tutti i ritornelli. Le canzoni, com’è nell’ethos dell’autore, sono spesso molto brevi, e sono tutte toccanti e/o spiritose. Il violoncello, la chitarra, l’ukelele e la voce grave e seriosa di Merritt (compreso il suo stage banter freddissimo e memorabile), tutto crea un’atmosfera intima ed emozionante. Sì, mi arrabbierò con dei coglioni che vogliono comunque cianare in mezzo a tutta questa bellezza, mi salirà il sangue al cervello e tutto quanto, ma niente, nemmeno il più irrispettoso degli esseri umani può rovinare la gioia di subire una raffica di canzoni così perfette. Si ha l’impressione che i Magnetic Fields ci stiano deliziando con un vero e proprio best of che ripercorre la loro eccezionale carriera: qualche puntata ai vecchi The Charm of the Highway Strip (Born on a Train da brividi), Holiday (Take Ecstasy With Me, la canzone d’amore più inquietante che conosca) e Get Lost (All the Umbrellas in London, un viaggio nell’immensità del mondo e del dolore). i, album dal titolo geniale, fa anche lui la sua comparsata con It’s Only Time, ovvero la ballata del fatalismo, e viene tirato fuori il meglio anche dai recenti 50 Songs Memoir (Be True to your Bar, un vero inno) e Quickies (The Day the Politicians Died, che i newyorkesi hanno avuto la fortuna di suonare in Irlanda quando è morta la regina Elisabetta). Ovviamente, c’è spazio anche per tantissime delle 69 Love Songs, con degli highlights pazzeschi: tutta la sala che canta Kiss Me Like You Mean It (Shirley Simms, che voce); il chitarrista che canta Luckiest Guy on the Lower East Side e riesce a tenere la celebre nota lunghissimissima, con la sorpresa di tutti; e poi il miglior momento di tutto il concerto, la palla di cristallo da discoteca che si accende sui versi di Papa Was a Rodeo: “The light reflecting off the mirror ball looks like a thousand swirling eyes”. E poco dopo Merritt guarda ciascuno di noi negli occhi e, beffardo e ironico, domanda: “What are we doing in this dive bar? How can you live in a place like this?”, provocando il nostro riso e facendoci credere, per un attimo, che Stephin potrebbe essere quell’amico estremamente cinico di cui a volte si ha bisogno.

L'encore, costituito dalla fan-favorite A Chicken With Its Head Cut Off seguita da 100,000 Fireflies (dove tutto ebbe inizio) è un tripudio, e non fa che rinforzare un pensiero che non se n’è andato durante tutto il concerto: questi potrebbero restare qui a suonare hit fino a domani. Effettivamente, sono tantissime le canzoni memorabili lasciate fuori dalla performance, e ciononostante il concerto è durato quasi due ore. Non c’è niente da aggiungere, di canzonieri come i Magnetic Fields ce ne sono pochi al mondo, e noi stasera li abbiamo visti qui, al Petit Bain. Si fatica quasi a crederci.

Dopo questo momento fuori dal tempo chiacchiero con Paolo di quello che vorrei scrivere per Stereo Totale riguardo a questo concerto. Il suo consiglio non è pessimo: un articolo di vita vissuta in cui comparo quel che ho sentito alle mie esperienze in Francia, “il paese che mi ha educato all’amore”. Se fosse stata un’altra band, anche anche. Ma coi Magnetic Fields, no, non ce la posso fare. Chi sa scrivere di amore, scrive. Chi non lo sa fare, ascolta.

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Fucked Up – Anche il caos può avere classe

Fucked Up live @Petit Bain, Parigi, 14/11/2023

I lettori più attenti di Stereo Totale hanno già letto un piccolo resoconto di un concerto dei Fucked Up, non uscito dalla mia penna bensì da quella del mio caro amico Tommaso. Si tratta del concerto del mercoledì 29 maggio 2019, cominciato alle ore 1:50 del mattino alla Sala Apolo di Barcellona. Cosa si può dire che non sia già stato scritto in quell’articolo a tema Primavera Sound? Poca roba: che eravamo stanchissimi, quindi allucinati; che c’era un muro di chitarre spessissimo e che a volte era anche complesso capire dove stesse andando quel maelstrom di musica; che la calca umana era altrettanto spessa; che pogammo con Mac DeMarco. 

Effettivamente, annovero quel concerto tra le esperienze mistiche della mia vita: una trance catartica di cui però ricordo molto poco. Ammetto che, da allora, non ho ascoltato i Fucked Up questo granché: giusto un paio di ascolti a Year of the Horse, un gigantesco concept album dove l’hardcore punk incontra le suite di foggia progressive rock (follia assoluta). Quando Tommaso, che ha seguito molto più di me le vicissitudini di questi insoliti punk canadesi, mi ha scritto: “Concerto dei Fucked Up al Petit Bain, vengo a Parigi”, è stata una splendida notizia che mi ha fatto riprendere in mano la loro musica. In particolare, ho recuperato One Day, l’album del 2023, che coi suoi toni “artsy as fuck” e la sua varietà (un po’ groovy, un po’ rock’n’roll, un po’ emo) mi ha conquistato. 

Entriamo al Petit Bain e mi sento a casa. Chiacchieriamo col batterista dei Fucked Up che sta vendendo merch, e anche lui si ricorda il veglione di quattro anni e mezzo fa: “Oh, yeah, the super late concert? Time of our lives”. Ci godiamo l’opener Alvilda, quattro ragazze pariginissime (tutte con la frangia, aiuto) che fanno un rock leggero e sbarazzino dove l’omaggio incessante ai Ramones incontra uno style yé-yé francese anni ’60/’70 molto simpatico. Sotto al palco io sono abbastanza ammaliato (chi mi conosce bene sa) ma Tommy mi fa tornare in me facendomi notare che le canzoni sono veramente tutte uguali. Un po’ ha ragione, e perciò andiamo al bar a chiacchierare mentre risuona in sottofondo un vecchio disco di punk newyorkese degli anni ’70 sul quale si è infiltrata Jacqueline Taieb (segnalo comunque un inedito carino delle Alvilda: Paris Été, che penso sarà nel loro prossimo LP e che forse si vuole un sequel spirituale di Le Printemps à Paris). 

Mentre discutiamo di quanto sia bello, apprezzabile e “nostro” avere un opening act che non c’entra una mazza con l’artista principale entrano sul palco i Fucked Up con un intro funky improbabile. È sempre bello vedere una band per una seconda volta vari anni dopo. È altrettanto bello rivedere una band per una seconda volta in una situazione completamente diversa. Quando i due fenomeni si verificano contemporaneamente, però, può sopraggiungere un forte senso di straniamento. Stasera quello che c’è è che la sala non è pienissima (in realtà è un’affluenza media, ma tre giorni prima c’erano i Magnetic Fields e ora so come può essere il Petit Bain strapieno) e la gente non è scatenata come quelli che a Barcellona avevano dovuto aspettare ore e ore per un agognato concerto di musica cattiva. Ma anche il suono dei Fucked Up mi pare diverso. Tommaso mi fa notare che le chitarre sono una in meno (nel 2019 erano tre) e quindi più distinguibili. La presenza scenica, quella non è cambiata: Damian Abraham, gigante barbuto, è un mattatore e un matto, le sue urla sono intense quanto i suoi contorsionismi sul palco e la sua vitalità esuberante scalda l’atmosfera come una palla di fuoco.

Ci metto un paio di minuti a riabituarmi al sound dei Fucked Up che è sì violento, sì volutamente dispersivo ma, me ne accorgo adesso per la prima volta, anche raffinato. C’è una bellissima armonia tra gli strumenti, e uno studio compositivo sopra la media, con canzoni ben strutturate e sempre sorprendenti ma mai del tutto spiazzanti, insondabili e gratuite come ricordavo. I loro brani sono ancora molto caratterizzati da ampie sezioni strumentali riflessive e dal sapore krautrock che fanno rifiatare dopo le potenti aggressioni di Abraham e soci, ma stasera abbiamo modo di godere anche di pezzi più concisi ed eclettici, che mi ricordano l’operato di altri pezzi grossi del “punk songwriting”, se vogliamo chiamarlo così, come i mitici Les Savy Fav (c’è anche una piccola somiglianza di cantanti) o gli Hot Snakes del compianto Rick Froberg (ex Drive Like Jehu, riposa in pace).

Sono cambiati loro, siamo cambiati noi, insomma: i 50 minuti sfrenati dei Fucked Up al Petit Bain sono una prova di maturità, sia loro che nostra. Il quintetto canadese gioca col pubblico, tra teatralità, cambi continui di voci (quella della bassista è davvero bella), crescendi e decrescendi. C’è spazio anche per degli originalissimi riff armonizzati, la “signature” di One Day, che sanno essere gioiosi tipo quello della quasi Deerhoof-iana I Think I Might Be Weird, o emozionanti come quelli di Broken Little Boys, la canzone in scream più delicata dell’anno. Pur riconoscendo poche canzoni ho comunque un po’ di reminiscenze della bolgia del 2019, solo che questa volta non mi ritrovo a sballonzolare in un oceano di corpi, ma a ballare: facendoci caso, mi rendo conto che la gente che si agita nel pit, più che dimenarsi, sta riflettendo le vibrazioni della musica come su una pista da ballo. L’ultimo pezzo, Baiting the Public, ha una bellissima jam space-rock che funge da outro, e la mossa di sottrarre strumenti uno dietro l’altro, fino a lasciare uno scheletro di batteria a salutare il pubblico, è eseguita con eleganza. Ma non può finire in maniera così riflessiva, ed ecco che per l’encore i nostri vengono a darci un’ultima scossa con quello schiaffone sul viso che è Police (una delle più belle canzoni anti-sbirri degli ultimi anni).

La soddisfazione è palese, e la riversiamo sul solito, povero Nico, che è sempre un gentiluomo. Uscito dal Petit Bain un po’ frastornato, specchiandomi nella Senna d’argento, penso all’unico momento in cui il mitico Damian Abraham si è mostrato un po’ commosso, nel vortice di rabbia che attornia la sua musica. “We went around today, we walked like three hours… You got a beautiful city here, guys”.

Quando hai così tanta musica, e bella così, non posso dargli torto: abbiamo davvero una città bellissima.

martedì 7 novembre 2023

Trasformiamo halloween in una festività queer-punk! - La notte del terrore di Mary Bell, Ellah A. Thaun e Radical Kitten

Mary Bell live @La Boule Noire, Parigi, 31/10/2023

Così, su due piedi, non ho ricordo dell’ultima volta che ho festeggiato halloween. Se vado a scavare nei miei ricordi confusi degli anni dell’università, poi, qualcosina riaffiora. Una festa studentesca a tema halloween, in realtà indistinguibile dalle tutte le altre serate universitarie dell’epoca, la mia goffaggine nel ritrovarmi senza costume a pochi minuti dall’inizio della festa. Alla fine optai per un costume da “metallaro”, che è un po’ come se mi travestissi da “italiano”. Per dare un tocco di colore alla scelta discutibilissima di mettere uno smanicato fatto in casa della band speed metal in cui suonavo al liceo, aggiunsi delle finte borchie, bracciali e catene fabbricati con la carta d’alluminio. Onestamente avrei completamente cancellato dalla mia mente questo momento ridicolo, come del resto ho cancellato tanti ricordi di quel periodo, se non fosse per una foto che ancora alberga su Facebook e che mi ritrae accanto alla mia amica Sophie. Io sto facendo il gesto delle corna con la lingua di fuori, lei invece con un foulard in testa e un trucco insondabile (Frida Kahlo forse?) ha gli occhi socchiusi e quel sorrisone sornione che è proprio il suo “signature look”. Mi sono bastati due click per ritrovare la foto e osservarla a dovere. Ci sono dei dettagli niente male: si nota ad esempio l’architettura dell’appartamento, dietro alle finte ragnatele e ai pipistrelli di cartapesta, con le travi di legno che riaffiorano dall’intonaco del muro (i famosi “colombages”, pittoresco elemento delle costruzioni francesi, che abbondavano a Poitiers); dietro di noi, in una selva di volti familiari di persone con cui non parliamo più, qualcuno porta una maschera di Nicolas Sarkozy. La foto è stata pubblicata il 29 ottobre 2017. Sei anni fa, Sophie, ci crederesti?

La data della foto, in ogni caso, indica che l’ultima volta che mi sono travestito per halloween non era nemmeno il 31 ottobre. Il che vuol dire che stasera potrebbe davvero essere il primo halloween della mia età adulta, festeggiato il 31 stesso in una serata a tema e con un costume, proprio come nelle serie americane. Avevo pensato di vestirmi da muratore (come uno dei Village People) prendendo in prestito del materiale dall’azienda in cui lavoro, ma Sophie ha avuto un’idea geniale di costume di coppia, che è quella di vestirci da Team Rocket. Non è complicato: bastano dei pantaloni bianchi, anfibi, un dolcevita nero e un paio di guanti. I capelli lunghi che cadono sui lati li ho già, non fluorescenti, ma tant’è. Al crop-top bianco con la R rossa sul petto ci ha già pensato la mia amica, che si dileggia nell’arte del ricamo. Appena lo metto sono sbalordito dal risultato: sembriamo davvero Jessie e James pronti a catturare un Pokemon dietro all’altro in maniera spregiudicata.

Stasera andiamo alla Boule Noire, splendida sala concerti del cluster della bassa montmartriana. I miei lettori più accaniti forse ricorderanno che sono venuto qui per la prima volta proprio questo ottobre, per assistere fortuitamente a un concerto di dancehall guianese con mio padre. Sono contento di tornare, questa volta con più cognizione di causa. L’headliner della serata è una band riot grrrl eccezionale di nome Mary Bell, scoperta anche lei, come una buona fetta di altre band trattate su Stereo Totale, alla Ferme Electrique di Tournan-en-Brie (edizione 2022). Il loro fantastico LP del 2021 Bellatrix Boadicea, album estremamente coinvolgente nella sua alternanza di hardcore punk femminista vecchia scuola e grunge dalla cupezza meditativa, è nelle mie rotazioni senza sosta da ormai un anno e mezzo. Proprio questo ottobre, poi, il quartetto parigino è tornato sulle scene con un nuovo album, Cerbero, dove la formula si ripete con la solita freschezza. Il release party di questa nuova creatura infernale, pubblicato da una band che prende il nome da una bambina serial killer, non poteva che essere ad halloween e quindi eccoci qui, con un costume che non sarà dei più spaventosi ma che almeno è quello dei “cattivi”. E che ha la particolarità di essere particolarmente non binario: di fatto, senza parrucche, non si può sapere chi sia James e chi sia Jessie. Inoltre, una persona ci racconta che nell’ambiguità di genere del duo di “villains” ci ha visto le prime avvisaglie della sua disforia. Mentre chiacchieriamo di questi ricordi di infanzia monta sul palco un gruppo di cui ho già sentito parlare ma ancora non ho mai visto: Radical Kitten.

L’inizio della loro performance detta subito la linea editoriale di questo mio articolo, infatti eviterò le diciture di genere. “Questa canzone parla di tutte quelle domande del cazzo tipo… ma sei un maschio o una femmina?”, dicono prima di attaccare con Shitty Questions, uno spigolosissimo ballo di San Vito noise rock dove anche se non si capiscono le parole è la saturazione “gender-fluid” delle voci a spingere il messaggio. Da questo momento in poi, lo show e l’intera serata assumono un carattere politico che gli darà un valore speciale. La performance del trio tolosano è divertente e spensierata quanto potente e abrasiva. Il loro è un post-punk dalle declinazioni noise spiccate e una ricetta semplice ma efficace: la batteria e il basso si spingono in ostinati ossessivi, al contempo groovy ed esotici, che hanno quasi un ricordo dub (come nei vecchi dischi dei primi gruppi dark inglesi); la chitarra naviga in quel mare sconosciuto dove si oscilla tra il riffing e le derive del feedback; infine, le voci distorte vanno a sublimare questo tappeto di rumore tagliando l’atmosfera come un coltello. Il concerto non è tecnicamente perfetto (da batterista, trovo la ritmica originale ma molto esigente, quindi complimenti alla batteria per aver tenuto botta nonostante un paio di incespichi). In compenso la sberla sul viso arriva per restare e Radical Kitten confermano di essere decisamente radicali. Di gattino qualcosina ce lo si intuisce, in mezzo a tutta questa gioiosa e costruttiva violenza: si vedano per esempio gli urletti festosi di I Can’t Deal, efficacissima canzone di odio. Certo è che è un gattino che graffia parecchio.

Le danze sono lanciate e il pubblico è sempre più numeroso, mascherato e queer (per quanto poco legittimo io possa essere nell’usare quest’aggettivo per descrivere la gente, diciamo che l’ha detto Sophie). Avvistiamo in ordine sparso Mercoledì Addams, un Sims, Neo di Matrix, un poliziotto (come nei Village People!), Velma di Scooby Doo (con la barba) oltre che varie streghe, zombie e fantasmi più o meno convenzionali e/o eteronormati. Il mio amico Paul, con addosso la divisa completa da Babbo Natale, è sicuramente il personaggio con più strati di ironia. Io e Sophie in pieno delirio di onnipotenza “gotta catch ‘em all” ci esaltiamo nello scoprire che Mary Bell starebbero imbastendo un concorso per il miglior costume e ci sentiamo la vittoria in tasca. Questo trambusto festivo fa passare in sordina quel che sta succedendo nell’oscurità del palco, ma è il fine orecchio di Paul ad accorgersi per primo di uno svolazzio di chitarrine ambient che comincia ad insinuarsi nel chiacchiericcio allegro.

Di Ellah A. Thaun, prima di stasera, non sapevo niente di niente. Dopo aver visto un’intera performance ed esserne rimasto affascinato ho fatto un po’ di ricerche su internet che mi hanno ancora più coinvolto. Moniker perlopiù solista di Nathanaëlle Eléonore Hauguel, Ellah A. Thaun ha composto, suonato, cantato e pubblicato su Bandcamp una quantità di album lo-fi indie assolutamente strabordante. Non li ho ancora ascoltati tutti e non so nemmeno se ci riuscirò, ma bastano titoli e copertine per intravedere un universo poetico al contempo esoterico e intimista, dove oracoli, tarocchi e crocifissi incontrano l’immaginario della melancolia della vita quotidiana dell’artista, tra foto polaroid casalinghe, passeggiate nei boschi e momenti di messa a nudo (penso alla copertina di Sister o ancora al titolo celebrativo dell’identità trans di Thank God for Gender Disphoria, due dei suoi numerosi EP acustici allucinati). In una bellissima parabola bandcampistica che ricorda anche la favola di Will Toledo (ma con una prolificità più da Robert Pollard) Ellah A. Thaun un giorno diventa una band e pubblica, in particolare, i due volumi di Arcane Majeur, il primo nel 2018 e il secondo nel 2022: due album dove il cantautorato si sublima in un post-rock rumoroso e pieno di sorprese.

Ovviamente questa bella storia non la conosco mentre vedo il quartetto normanno che si impone timidamente, a suon di arpeggi, sulla folla in maschera. La magia, nonostante ciò, la subisco comunque: Ellah A. Thaun durante il loro concerto mi stregheranno, in una delle performance più toccanti che ho visto negli ultimi tempi. Se per Radical Kitten è relativamente facile descrivere una “formula”, questa band mi fa rinunciare subito all’idea di sottopormi a questo esercizio di stile che troppi critici a volte prendono come un dovere inderogabile. Il concerto è un fiume impetuoso, tanto di influenze e contaminazioni diverse quanto di emozioni commoventi (che è più importante). Le due chitarre e i sintetizzatori, effettatissimi senza mai essere autocompiacenti, svariano tra sfuriate emocore e momenti di dolcezza tragica (il pezzo che porta questo dualismo all’estremo è Pisces Moon Neuromantics, che mi ha letteralmente fatto cadere la mascella). Queste sonorità melancoliche e inquiete mi riportano indietro ad amori adolescenziali come Spiderland, ampliando tuttavia il discorso iniziato da Slint e altri gruppi simili con strati di rumore atmosferici e una solennità quasi gotica. Anche la tremula voce di Hauguel (che brividi quando rimane da sola in Signs & Wanders) è davvero degna di nota nella sua fissità ipnagogica, che a volte si risveglia e sfocia nel lacerante. Ammetto però che, per una deformazione professionale ormai appurata, è la batteria lo strumento che più desta la mia attenzione: la ricerca del suono è estremamente curata (addirittura con un piatto ibrido tra ride e china sicuramente “custom” che non avevo mai visto prima), ma anche la varietà e l’espressività della ritmica sono eccezionali. Un pezzo come The Flesh Fortress (uno dei momenti salienti del set) per esempio ha tutto per sconvolgermi: un arrangiamento inaspettato (sentite Flesh Fortress in acustico e ditemi se ci avreste mai inserito un groove del genere), anche certi piccoli virtuosismi ma, appena serve, un’immediatezza da grande indie rock, e una decelerazione strappalacrime sul finale (ma Ellah A. Thaun “can do it both”, come nell’esaltante accelerazione di Plasticflower). La chiusura del concerto è inaspettata quanto estatica: un omaggio al grande krautrock, con una cavalcata trascendentale che mi conquista definitivamente. Riascoltando gli album mi sembra di riconoscere Nuclear Kiss, ma sono passati vari giorni e potrei sbagliarmi; nel dubbio sentitevi anche Globelamp, la seconda candidata, e capirete di che cosa parlo. Psichedelia, rumore, pura emozione.

Se questo fosse l’ultimo concerto della serata probabilmente ce ne andremmo da qui con i lucciconi. Per fortuna, ci sono ancora Mary Bell, che senza fare complimenti montano sul palco con un look ancora più macabro del solito e cominciano a bombardare il pubblico con una scarica di punk a dir poco sulfureo. È una grande festa: i pezzi si susseguono uno dietro l’altro in un vortice oscuro che ci fa ogni tanto pogare e saltare da ogni parte, ogni tanto rifiatare osservando i membri della band in tutta la loro tenebrosità con la bocca spalancata. Le canzoni sono brevi, efficaci e accomunate tutte da una tonalità spettrale, in cui riff originali e inquietanti si accompagnano di ritmi nervosi e della fantastica voce di Alice Carlier, che sa spaziare da registri austeri e minacciosi (Beautiful Sky) ai classici acuti scattosi, rabbiosi ma anche scherzosi da classico riot grrrl anni ’90 (Minimoi). Il set di Mary Bell è decisamente sopra la media: siamo davanti a una band matura, con un sound proprio, definito e potentissimo. Ovviamente le mie personali highlights del concerto saranno le canzoni di Bellatrix Boadicea, come Consent con i suoi toni ipnotici da incantatore di serpenti, oppure la prorompente Sacrificed che coi suoi tempi dispari e il suo effluvio di urla inarrestabili mi ha lasciato completamente privo di fiato. Essendo però il release party di Cerbero, le nuove canzoni di Mary Bell trovano un nuovo spazio per brillare e funzionano tutte alla perfezione: Hairless, l’opener dell’album, è un instant classic adrenalinico che fa perdere la testa ma la mia preferita resta Viaggio, una piccola perla di frenesia che col suo maelstrom di voci e chitarre taglienti e coi toni epici del suo ritornello incapsula alla perfezione l’essenza di questo astro del punk femminista, che nascente non è (nove anni di attività ormai) ma in rampa di lancio per diventare grande potrebbe esserlo di sicuro.

Non c’è nessun modo migliore per definire la musica di Mary Bell che con lo straniero “empowering”, nonostante la parola risulti per molti irritante poiché troppe volte cooptata dal grande capitale per vendere prodotti di dubbia utilità sociale spacciandoli per emancipatori e progressisti. Le liriche della band evocano la rabbia davanti all’impunità del potere maschile, o ancora la volontà di riscatto delle donne in ruoli di genere “non convenzionali” (quello di punk rocker, ahimé, lo è ancora): rivendicazioni genuine, trascinanti e ispiranti. Ricamandosi attorno un immaginario da film dell’orrore, Mary Bell riportano sulle scene del mio amato garage punk contemporaneo l’emblematica figura delle streghe, caricandola di significato politico. Infine, il loro tetro universo sonico rinforza il messaggio politico della band dandogli un carattere intimidante e quasi spaventoso ma che sa anche essere, alla bisogna, scanzonato. La musica più rivoluzionaria è sempre stata la più divertente, ed è per questo che, appena finito il concerto tra gli applausi scroscianti, mentre vado a rifocillarmi boccheggiando e schivando mostri e maschere paurose in una Boule Noire che odora di zolfo, mi viene una bella intuizione.

È innegabile che halloween non sia una festività propriamente europea: in tutti i paesi da cui provengo e in cui ho vissuto non è affatto sentita e viene catalogata come un’usanza anglo-sassone, anche se sempre più festeggiata in vari paesi del mondo, perlopiù ricchi (basti pensare alla Corea del Sud e all’affluenza tragica dell’halloween 2022 di Seoul). Spingendo verso lidi marxisti un po’ dubbiosi la mia riflessione, si può dire che halloween sia essenzialmente una festa capitalista: non solo è stata largamente popolarizzata da protestanti (che secondo il buon Max Weber il capitalismo l’hanno inventato), ma è anche la festa che senza basi religiose e tradizionali particolarmente solide spinge di più al consumo di massa. L’emblema di questa deriva sono indubbiamente le caramelle, icona di halloween: sostanzialmente, un prodotto industriale ultra-raffinato e la cui componente di marketing (forma, imballaggio, coloranti…) è spesso più importante del sapore.

Seconda parte della riflessione: la mia generazione è portatrice di un progresso morale dirompente come non mai per quanto riguarda l’identità di genere e la sessualità. È impressionante quanto millennials e generazione Z stiano contribuendo al superamento di una visione binaria dominante, per non parlare della lotta contro discriminazioni che fino a qualche anno fa erano la norma indiscutibile e che finalmente stanno cominciando a essere riconosciute e, voglio ben sperare, a diminuire. Per tutti questi passi in avanti verso una società più giusta bisogna ringraziare una fetta della popolazione che, sempre più spesso, decide di sua spontanea volontà di definirsi “queer”. Col tempo ho imparato la potenza straordinaria di questa parola, che riesce a radunare una miriade di identità e aspirazioni sotto a un termine unico che in passato era offensivo e sottintendeva un concetto generale, quello della “non conformità”. Ciò che era considerato non conforme, quindi sminuito e osteggiato, sotto al termine queer viene innalzato e celebrato. Tutto quel che viene catalogato come queer, perciò, mi evoca innanzitutto la fierezza e la consapevolezza del non rispettare i dettami di una società che impone ancora una visione troppo limitante di sesso e genere, ed è qualcosa che ammiro e rispetto infinitamente.

Guardandomi intorno stasera alla Boule Noire vedo sì tanti bellissimi travestimenti, ma soprattutto tante bellissime persone queer allegre, in un ambiente festivo, sano, sicuro e, oltretutto, punk. E perciò mi dico: perché tutti gli halloween non sono così? E poi l’illuminazione: tutti gli halloween dovrebbero essere così! Al diavolo i dolcetti o scherzetti, al diavolo le feste in maschera dove troneggiano costumi associati ai ruoli di genere, il supereroe per i maschietti e la diavoletta per le femminucce. Al contrario, trasformiamo halloween in una festa queer-punk come quella di stasera, dove la musica rumorosa e i travestimenti gridino ai quattro venti l’orgoglio delle identità non conformi. E se questo fa paura al pensiero dominante, magari ancor più delle manifestazioni “pride” più classiche, allora tanto meglio: alla fine quello di fare paura è lo scopo stesso di halloween.

La bisboccia, alla Boule Noire, continua fino a tarda notte mentre immagino questa piccola utopia in cui ogni 31 ottobre tutta la popolazione va a concerti di gruppi punk queer e femministi, possibilmente travestita da personaggi non binari come questo Team Rocket che stiamo incarnando adesso io e Sophie. Finisce che il premio di miglior travestimento lo vinciamo davvero, senza accorgercene: mentre cazzeggiamo al merch Mary Bell ci offrono un’affiche della serata che solo più tardi scopriremo essere una serigrafia in edizione limitata numerata a mano e, a riguardarla con sguardo lucido, di pregevole fattura, tutt’altro che gratuita. Finisce che scambio due parole caciarone con tutte le protagoniste di questa serata di musica: alla chitarra di Radical Kitten, miglior distorsione della serata, faccio notare un’inedita somiglianza con Maxime Lopez, centrocampista della mia amata Fiorentina; alla batteria di Ellah A. Thaun racconto che la loro musica mi ha trasportato all’inizio della mia adolescenza, come nella scena di Ratatouille in cui Anton Ego torna bambino con un boccone; con Mary Bell rievochiamo la mitica Ferme Electrique, vero e proprio fil rouge della mia ultima serie di concerti (Trotski Nautique, Johnny Mafia, Marcel). Finisce che balliamo fino a chiusura con un DJ set memorabile che passa da Madonna a Bikini Kill con una naturalezza encomiabile.

Torniamo a casa col bus notturno passando davanti a discoteche deplorevoli dove il pubblico pagante è sicuramente lontano dallo spirito queer-punk che vorrei dare a questa nuova festività di cui il mondo ha bisogno. Questo mi dà ancora più slancio: “Sophie,” dico mentre, finalmente a casa, azzanno un pezzo di pane e brie con voracità, “l’anno prossimo rifacciamo halloween esattamente allo stesso modo”. Ormai è scritto, nero su bianco: da ora in poi il 31 ottobre lo si festeggia così. Per me è un impegno. Forse, addirittura, potrei chiamarlo un impegno politico. Non sarà granché, ma è già qualcosa.