Mary Bell live @La Boule Noire, Parigi, 31/10/2023 |
Così, su due piedi, non ho ricordo dell’ultima volta che ho festeggiato
halloween. Se vado a scavare nei miei ricordi confusi degli anni
dell’università, poi, qualcosina riaffiora. Una festa studentesca a tema
halloween, in realtà indistinguibile dalle tutte le altre serate universitarie
dell’epoca, la mia goffaggine nel ritrovarmi senza costume a pochi minuti
dall’inizio della festa. Alla fine optai per un costume da “metallaro”, che è
un po’ come se mi travestissi da “italiano”. Per dare un tocco di colore alla
scelta discutibilissima di mettere uno smanicato fatto in casa della band speed
metal in cui suonavo al liceo, aggiunsi delle finte borchie, bracciali e
catene fabbricati con la carta d’alluminio. Onestamente avrei completamente
cancellato dalla mia mente questo momento ridicolo, come del resto ho cancellato
tanti ricordi di quel periodo, se non fosse per una foto che ancora alberga su
Facebook e che mi ritrae accanto alla mia amica Sophie. Io sto facendo il gesto
delle corna con la lingua di fuori, lei invece con un foulard in testa e un
trucco insondabile (Frida Kahlo forse?) ha gli occhi socchiusi e quel sorrisone
sornione che è proprio il suo “signature look”. Mi sono bastati due click per
ritrovare la foto e osservarla a dovere. Ci sono dei dettagli niente male: si
nota ad esempio l’architettura dell’appartamento, dietro alle finte ragnatele e
ai pipistrelli di cartapesta, con le travi di legno che riaffiorano
dall’intonaco del muro (i famosi “colombages”, pittoresco elemento delle costruzioni francesi, che abbondavano a Poitiers); dietro di noi, in una
selva di volti familiari di persone con cui non parliamo più, qualcuno porta
una maschera di Nicolas Sarkozy. La foto è stata pubblicata il 29 ottobre 2017.
Sei anni fa, Sophie, ci crederesti?
La data della foto, in ogni caso, indica che l’ultima volta che mi sono
travestito per halloween non era nemmeno il 31 ottobre. Il che vuol dire che
stasera potrebbe davvero essere il primo halloween della mia età adulta,
festeggiato il 31 stesso in una serata a tema e con un costume, proprio come
nelle serie americane. Avevo pensato di vestirmi da muratore (come uno dei
Village People) prendendo in prestito del materiale dall’azienda in cui lavoro,
ma Sophie ha avuto un’idea geniale di costume di coppia, che è quella di
vestirci da Team Rocket. Non è complicato: bastano dei pantaloni bianchi,
anfibi, un dolcevita nero e un paio di guanti. I capelli lunghi che cadono sui
lati li ho già, non fluorescenti, ma tant’è. Al crop-top bianco con la R rossa
sul petto ci ha già pensato la mia amica, che si dileggia nell’arte del ricamo.
Appena lo metto sono sbalordito dal risultato: sembriamo davvero Jessie e James
pronti a catturare un Pokemon dietro all’altro in maniera spregiudicata.
Stasera andiamo alla Boule Noire, splendida sala concerti del cluster della
bassa montmartriana. I miei lettori più accaniti forse ricorderanno che sono
venuto qui per la prima volta proprio questo ottobre, per assistere
fortuitamente a un concerto di dancehall guianese con mio padre. Sono contento
di tornare, questa volta con più cognizione di causa. L’headliner della serata
è una band riot grrrl eccezionale di nome Mary Bell, scoperta anche lei, come
una buona fetta di altre band trattate su Stereo Totale, alla Ferme Electrique
di Tournan-en-Brie (edizione 2022). Il loro fantastico LP del 2021 Bellatrix
Boadicea, album estremamente coinvolgente nella sua alternanza di hardcore punk
femminista vecchia scuola e grunge dalla cupezza meditativa, è nelle mie
rotazioni senza sosta da ormai un anno e mezzo. Proprio questo ottobre, poi, il
quartetto parigino è tornato sulle scene con un nuovo album, Cerbero, dove la
formula si ripete con la solita freschezza. Il release party di questa nuova
creatura infernale, pubblicato da una band che prende il nome da una bambina
serial killer, non poteva che essere ad halloween e quindi eccoci qui, con un
costume che non sarà dei più spaventosi ma che almeno è quello dei “cattivi”. E
che ha la particolarità di essere particolarmente non binario: di fatto, senza
parrucche, non si può sapere chi sia James e chi sia Jessie. Inoltre, una
persona ci racconta che nell’ambiguità di genere del duo di “villains” ci ha
visto le prime avvisaglie della sua disforia. Mentre chiacchieriamo di questi
ricordi di infanzia monta sul palco un gruppo di cui ho già sentito parlare ma
ancora non ho mai visto: Radical Kitten.
L’inizio della loro performance detta subito la linea editoriale di questo
mio articolo, infatti eviterò le diciture di genere. “Questa canzone parla di
tutte quelle domande del cazzo tipo… ma sei un maschio o una femmina?”, dicono
prima di attaccare con Shitty Questions, uno spigolosissimo ballo di San
Vito noise rock dove anche se non si capiscono le parole è la saturazione
“gender-fluid” delle voci a spingere il messaggio. Da questo momento in poi, lo
show e l’intera serata assumono un carattere politico che gli darà un valore
speciale. La performance del trio tolosano è divertente e spensierata quanto
potente e abrasiva. Il loro è un post-punk dalle declinazioni noise spiccate e
una ricetta semplice ma efficace: la batteria e il basso si spingono in
ostinati ossessivi, al contempo groovy ed esotici, che hanno quasi un ricordo
dub (come nei vecchi dischi dei primi gruppi dark inglesi); la chitarra naviga
in quel mare sconosciuto dove si oscilla tra il riffing e le derive del
feedback; infine, le voci distorte vanno a sublimare questo tappeto di rumore tagliando
l’atmosfera come un coltello. Il concerto non è tecnicamente perfetto (da
batterista, trovo la ritmica originale ma molto esigente, quindi complimenti
alla batteria per aver tenuto botta nonostante un paio di incespichi). In
compenso la sberla sul viso arriva per restare e Radical Kitten confermano di
essere decisamente radicali. Di gattino qualcosina ce lo si intuisce, in mezzo a tutta questa
gioiosa e costruttiva violenza: si vedano per esempio gli urletti festosi di I Can’t Deal, efficacissima canzone di odio. Certo è che è un gattino che
graffia parecchio.
Le danze sono lanciate e il pubblico è sempre più numeroso, mascherato e
queer (per quanto poco legittimo io possa essere nell’usare quest’aggettivo per
descrivere la gente, diciamo che l’ha detto Sophie). Avvistiamo in ordine
sparso Mercoledì Addams, un Sims, Neo di Matrix, un poliziotto (come nei
Village People!), Velma di Scooby Doo (con la barba) oltre che varie streghe,
zombie e fantasmi più o meno convenzionali e/o eteronormati. Il mio amico Paul,
con addosso la divisa completa da Babbo Natale, è sicuramente il personaggio
con più strati di ironia. Io e Sophie in pieno delirio di onnipotenza “gotta
catch ‘em all” ci esaltiamo nello scoprire che Mary Bell starebbero imbastendo
un concorso per il miglior costume e ci sentiamo la vittoria in tasca. Questo
trambusto festivo fa passare in sordina quel che sta succedendo nell’oscurità
del palco, ma è il fine orecchio di Paul ad accorgersi per primo di uno
svolazzio di chitarrine ambient che comincia ad insinuarsi nel chiacchiericcio
allegro.
Di Ellah A. Thaun, prima di stasera, non sapevo niente di niente. Dopo aver
visto un’intera performance ed esserne rimasto affascinato ho fatto un po’ di
ricerche su internet che mi hanno ancora più coinvolto. Moniker perlopiù
solista di Nathanaëlle Eléonore Hauguel, Ellah A. Thaun ha composto, suonato,
cantato e pubblicato su Bandcamp una quantità di album lo-fi indie
assolutamente strabordante. Non li ho ancora ascoltati tutti e non so nemmeno
se ci riuscirò, ma bastano titoli e copertine per intravedere un universo poetico
al contempo esoterico e intimista, dove oracoli, tarocchi e crocifissi
incontrano l’immaginario della melancolia della vita quotidiana dell’artista,
tra foto polaroid casalinghe, passeggiate nei boschi e momenti di messa a nudo
(penso alla copertina di Sister o ancora al titolo celebrativo dell’identità
trans di Thank God for Gender Disphoria, due dei suoi numerosi EP acustici
allucinati). In una bellissima parabola bandcampistica che ricorda anche la
favola di Will Toledo (ma con una prolificità più da Robert Pollard) Ellah A.
Thaun un giorno diventa una band e pubblica, in particolare, i due volumi di
Arcane Majeur, il primo nel 2018 e il secondo nel 2022: due album dove il
cantautorato si sublima in un post-rock rumoroso e pieno di sorprese.
Ovviamente questa bella storia non la conosco mentre vedo il quartetto
normanno che si impone timidamente, a suon di arpeggi, sulla folla in maschera.
La magia, nonostante ciò, la subisco comunque: Ellah A. Thaun durante il loro
concerto mi stregheranno, in una delle performance più toccanti che ho visto
negli ultimi tempi. Se per Radical Kitten è relativamente facile descrivere una
“formula”, questa band mi fa rinunciare subito all’idea di sottopormi a questo esercizio
di stile che troppi critici a volte prendono come un dovere inderogabile. Il
concerto è un fiume impetuoso, tanto di influenze e contaminazioni diverse
quanto di emozioni commoventi (che è più importante). Le due chitarre e i
sintetizzatori, effettatissimi senza mai essere autocompiacenti, svariano tra
sfuriate emocore e momenti di dolcezza tragica (il pezzo che porta questo
dualismo all’estremo è Pisces Moon Neuromantics, che mi ha letteralmente
fatto cadere la mascella). Queste sonorità melancoliche e inquiete mi riportano
indietro ad amori adolescenziali come Spiderland, ampliando tuttavia il
discorso iniziato da Slint e altri gruppi simili con strati di rumore atmosferici
e una solennità quasi gotica. Anche la tremula voce di Hauguel (che brividi
quando rimane da sola in Signs & Wanders) è davvero degna di nota
nella sua fissità ipnagogica, che a volte si risveglia e sfocia nel lacerante. Ammetto
però che, per una deformazione professionale ormai appurata, è la batteria lo
strumento che più desta la mia attenzione: la ricerca del suono è estremamente curata
(addirittura con un piatto ibrido tra ride e china sicuramente “custom” che non
avevo mai visto prima), ma anche la varietà e l’espressività della ritmica sono
eccezionali. Un pezzo come The Flesh Fortress (uno dei momenti salienti
del set) per esempio ha tutto per sconvolgermi: un arrangiamento inaspettato
(sentite Flesh Fortress in acustico e ditemi se ci avreste mai inserito un
groove del genere), anche certi piccoli virtuosismi ma, appena serve,
un’immediatezza da grande indie rock, e una decelerazione strappalacrime sul
finale (ma Ellah A. Thaun “can do it both”, come nell’esaltante accelerazione
di Plasticflower). La chiusura del concerto è inaspettata quanto
estatica: un omaggio al grande krautrock, con una cavalcata trascendentale che
mi conquista definitivamente. Riascoltando gli album mi sembra di riconoscere Nuclear Kiss, ma sono passati vari giorni e potrei sbagliarmi; nel dubbio sentitevi
anche Globelamp, la seconda candidata, e capirete di che cosa parlo. Psichedelia,
rumore, pura emozione.
Se questo fosse l’ultimo concerto della serata probabilmente ce ne andremmo
da qui con i lucciconi. Per fortuna, ci sono ancora Mary Bell, che senza fare
complimenti montano sul palco con un look ancora più macabro del solito e
cominciano a bombardare il pubblico con una scarica di punk a dir poco sulfureo.
È una grande festa: i pezzi si susseguono uno dietro l’altro in un vortice
oscuro che ci fa ogni tanto pogare e saltare da ogni parte, ogni tanto
rifiatare osservando i membri della band in tutta la loro tenebrosità con la
bocca spalancata. Le canzoni sono brevi, efficaci e accomunate tutte da una
tonalità spettrale, in cui riff originali e inquietanti si accompagnano di
ritmi nervosi e della fantastica voce di Alice Carlier, che sa spaziare da
registri austeri e minacciosi (Beautiful Sky) ai classici acuti
scattosi, rabbiosi ma anche scherzosi da classico riot grrrl anni ’90 (Minimoi).
Il set di Mary Bell è decisamente sopra la media: siamo davanti a una band
matura, con un sound proprio, definito e potentissimo. Ovviamente le mie
personali highlights del concerto saranno le canzoni di Bellatrix Boadicea, come
Consent con i suoi toni ipnotici da incantatore di serpenti, oppure la prorompente
Sacrificed che coi suoi tempi dispari e il suo effluvio di urla
inarrestabili mi ha lasciato completamente privo di fiato. Essendo però il
release party di Cerbero, le nuove canzoni di Mary Bell trovano un nuovo spazio
per brillare e funzionano tutte alla perfezione: Hairless, l’opener
dell’album, è un instant classic adrenalinico che fa perdere la testa ma la mia
preferita resta Viaggio, una piccola perla di frenesia che col suo
maelstrom di voci e chitarre taglienti e coi toni epici del suo ritornello
incapsula alla perfezione l’essenza di questo astro del punk femminista, che
nascente non è (nove anni di attività ormai) ma in rampa di lancio per
diventare grande potrebbe esserlo di sicuro.
Non c’è nessun modo migliore per definire la musica di Mary Bell che con lo
straniero “empowering”, nonostante la parola risulti per molti irritante poiché
troppe volte cooptata dal grande capitale per vendere prodotti di dubbia
utilità sociale spacciandoli per emancipatori e progressisti. Le liriche della
band evocano la rabbia davanti all’impunità del potere maschile, o ancora la
volontà di riscatto delle donne in ruoli di genere “non convenzionali” (quello
di punk rocker, ahimé, lo è ancora): rivendicazioni genuine, trascinanti e
ispiranti. Ricamandosi attorno un immaginario da film dell’orrore, Mary Bell
riportano sulle scene del mio amato garage punk contemporaneo l’emblematica figura
delle streghe, caricandola di significato politico. Infine, il loro tetro universo
sonico rinforza il messaggio politico della band dandogli un carattere
intimidante e quasi spaventoso ma che sa anche essere, alla bisogna,
scanzonato. La musica più rivoluzionaria è sempre stata la più divertente, ed è
per questo che, appena finito il concerto tra gli applausi scroscianti, mentre
vado a rifocillarmi boccheggiando e schivando mostri e maschere paurose in
una Boule Noire che odora di zolfo, mi viene una bella intuizione.
È innegabile che halloween non sia una festività propriamente europea: in
tutti i paesi da cui provengo e in cui ho vissuto non è affatto sentita e viene
catalogata come un’usanza anglo-sassone, anche se sempre più festeggiata in vari
paesi del mondo, perlopiù ricchi (basti pensare alla Corea del Sud e
all’affluenza tragica dell’halloween 2022 di Seoul). Spingendo verso lidi
marxisti un po’ dubbiosi la mia riflessione, si può dire che halloween sia
essenzialmente una festa capitalista: non solo è stata largamente popolarizzata
da protestanti (che secondo il buon Max Weber il capitalismo l’hanno inventato),
ma è anche la festa che senza basi religiose e tradizionali particolarmente
solide spinge di più al consumo di massa. L’emblema di questa deriva sono
indubbiamente le caramelle, icona di halloween: sostanzialmente, un prodotto
industriale ultra-raffinato e la cui componente di marketing (forma,
imballaggio, coloranti…) è spesso più importante del sapore.
Seconda parte della riflessione: la mia generazione è portatrice di un
progresso morale dirompente come non mai per quanto riguarda l’identità di genere
e la sessualità. È impressionante quanto millennials e generazione Z stiano
contribuendo al superamento di una visione binaria dominante, per non parlare
della lotta contro discriminazioni che fino a qualche anno fa erano la norma
indiscutibile e che finalmente stanno cominciando a essere riconosciute e,
voglio ben sperare, a diminuire. Per tutti questi passi in avanti verso una
società più giusta bisogna ringraziare una fetta della popolazione che, sempre
più spesso, decide di sua spontanea volontà di definirsi “queer”. Col tempo ho
imparato la potenza straordinaria di questa parola, che riesce a radunare una
miriade di identità e aspirazioni sotto a un termine unico che in passato era
offensivo e sottintendeva un concetto generale, quello della “non conformità”.
Ciò che era considerato non conforme, quindi sminuito e osteggiato, sotto al
termine queer viene innalzato e celebrato. Tutto quel che viene catalogato come
queer, perciò, mi evoca innanzitutto la fierezza e la consapevolezza del non
rispettare i dettami di una società che impone ancora una visione troppo limitante
di sesso e genere, ed è qualcosa che ammiro e rispetto infinitamente.
Guardandomi intorno stasera alla Boule Noire vedo sì tanti bellissimi
travestimenti, ma soprattutto tante bellissime persone queer allegre, in un
ambiente festivo, sano, sicuro e, oltretutto, punk. E perciò mi dico: perché
tutti gli halloween non sono così? E poi l’illuminazione: tutti gli halloween
dovrebbero essere così! Al diavolo i dolcetti o scherzetti, al diavolo le feste
in maschera dove troneggiano costumi associati ai ruoli di genere, il supereroe
per i maschietti e la diavoletta per le femminucce. Al contrario, trasformiamo
halloween in una festa queer-punk come quella di stasera, dove la musica
rumorosa e i travestimenti gridino ai quattro venti l’orgoglio delle identità
non conformi. E se questo fa paura al pensiero dominante, magari ancor più delle
manifestazioni “pride” più classiche, allora tanto meglio: alla fine quello di
fare paura è lo scopo stesso di halloween.
La bisboccia, alla Boule Noire, continua fino a tarda notte mentre immagino questa piccola utopia in cui ogni 31 ottobre tutta la
popolazione va a concerti di gruppi punk queer e femministi, possibilmente travestita
da personaggi non binari come questo Team Rocket che stiamo incarnando adesso
io e Sophie. Finisce che il
premio di miglior travestimento lo vinciamo davvero, senza accorgercene: mentre
cazzeggiamo al merch Mary Bell ci offrono un’affiche della serata che solo più
tardi scopriremo essere una serigrafia in edizione limitata numerata a mano e,
a riguardarla con sguardo lucido, di pregevole fattura, tutt’altro che
gratuita. Finisce che scambio due parole caciarone con tutte le protagoniste
di questa serata di musica: alla chitarra di Radical Kitten, miglior
distorsione della serata, faccio notare un’inedita somiglianza con Maxime
Lopez, centrocampista della mia amata Fiorentina; alla batteria di Ellah A.
Thaun racconto che la loro musica mi ha trasportato all’inizio della mia
adolescenza, come nella scena di Ratatouille in cui Anton Ego torna bambino con
un boccone; con Mary Bell rievochiamo la mitica Ferme Electrique, vero e
proprio fil rouge della mia ultima serie di concerti (Trotski Nautique, Johnny
Mafia, Marcel). Finisce che balliamo fino a chiusura con un DJ set memorabile
che passa da Madonna a Bikini Kill con una naturalezza encomiabile.
Torniamo a casa col bus notturno passando davanti a discoteche deplorevoli
dove il pubblico pagante è sicuramente lontano dallo spirito queer-punk che
vorrei dare a questa nuova festività di cui il mondo ha bisogno. Questo mi dà
ancora più slancio: “Sophie,” dico mentre, finalmente a casa, azzanno un pezzo
di pane e brie con voracità, “l’anno prossimo rifacciamo halloween esattamente
allo stesso modo”. Ormai è scritto, nero su bianco: da ora in poi il 31 ottobre lo si festeggia così. Per me è un impegno. Forse, addirittura, potrei chiamarlo un
impegno politico. Non sarà granché, ma è già qualcosa.
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