venerdì 9 febbraio 2024

Il fattore H - Il ritorno a Parigi di Pogo Car Crash Control e la semantica dell’hardcore punk (Special guest: Cheap Teen)

Pogo Car Crash Control live @Supersonic, Parigi, 31/01/2024
Ok, un attimo di serietà. Parliamo di hardcore punk.

È da più di 4 mesi che scrivo su questo blog abbastanza regolarmente e ancora non ho avuto l'occasione di toccare l'argomento come si deve. I miei quaranta lettori (di manzoniana memoria) devono averlo capito che si tratta forse del mio genere preferito, visti i continui e irritanti riferimenti al mio tatuaggio dei Descendents. È proprio così: la musica hardcore punk non poteva non incarnare il punto più puro del mio gusto musicale, per me che amo le sensazioni forti, le composizioni immediate, i sentimenti crudi, i testi coraggiosi, la celebrazione della velocità e della potenza, i suoni rustici. Che sia negli ascolti entusiasmanti di album tutti così diversi ma sempre così intensi, oppure nell’oblio dei mosh-pit sotto a palchi popolati da musicisti in cui mi rivedo sempre un po’, l’hardcore punk avrà sempre la capacità di emozionarmi come poca altra musica sa fare e avrà sempre un posto speciale nel mio cuore. Eppure, lo ammetto, negli ultimi tempi ho avuto sempre meno voglia di andare a dei concerti HC puri e duri.

Forse è complice una delle mie ultime avventure musicali. Per l’ultimo annetto della mia vita parigina ho ricominciato a suonare in dei gruppi musicali. Le mie velleità da batterista, purtroppo, erano state sopite per tanto tempo: dopo gli ultimi spumeggianti anni del liceo, dopo qualche memorabile data a livello locale con un gruppo alternative rock e a livello nazionale con un gruppo speed metal, andare a fare l’università in una cittadina francese ha purtroppo interrotto le mie inerzie di musicante. Per due anni ho comunque rivestito un po’ il ruolo di batterista ufficiale del piccolo campus, accettando praticamente tutti i “gig” che richiedessero la presenza di un po’ di tamburame: perlopiù le innumerevoli e col senno di poi fastidiosissime giornate/serate a tema dell’associazione artistica (l’unica performance che ricordo con estremo piacere è quella prima della festa “Tropicalia”, in cui suonai Ando Meio Desligado di Os Mutantes e feci talmente tanto casino che alla fine del pezzo scagliai a terra due aste dei piatti). Da lì in poi, quasi il nulla assoluto. Il mio breve periodo di vita nel Midwest americano stava prendendo una piega interessante con qualche jam math-emo promettente ma il coronavirus interruppe anche quella piccola, onirica, suggestione.

Quando la vita impiegatizia è diventata realtà, però, lo slancio è ripartito e con Théo, conosciuto attorno a un concerto di cover punk rock di Joe Dassin (Joe & The Dassinettes, chi c’era sa), ho finalmente coronato il mio più vecchio sogno: formare un gruppo hardcore punk. La vita era facile allora: assieme al bassista Maxime, l’uomo più dolce del mondo, avevamo un trio forse un po’ inconcludente ma le cui sessioni, piene di cover disparate di grandi classici di ogni epoca, erano un balsamo per l’anima. Su di noi incombeva tuttavia una nuvola scura. Se i primi mesi di sala prove avevano la leggerezza del prenderci la mano (Getting in Tune), il passaggio al rituale compositivo mi fece cominciare a vacillare. Sentivo parlare di breakdown, di drop D, di two-step e di altre cose che o non avevo mai nemmeno sentito nominare o avevo accantonato in uno scompartimento della mente di nome: “Quelle cose che vengono chiamate hardcore punk ma che non hanno niente a che vedere con i miei gusti”.

Giusto a titolo esplicativo, una lista di cose che appartengono a quella categoria:

  • Quell’Oi! quasi sempre di estrema sinistra e talvolta di estrema destra che gli antagonisti italiani chiamano “punk hardcore”; fateci caso, a questi concerti hanno sempre tutti le braccia tese.
  • Tutti i filoni contemporanei che per partito preso da ex-metallaro definisco “metalcore” o “core” (“no core, no mosh, no fun”, dicevano i Mayhem), contenenti uno o più dei seguenti: doppio pedale, chitarre da più di sei corde (o accordate strane), batteristi che usano il china sui quarti per dare il tempo; fateci caso, a questi concerti la gente non sa pogare senza fare del male agli altri.

Purtroppo, viene fuori che i ragazzi apprezzano abbastanza quest'ultimo filone, e infatti lo infiltrano sempre di più nei nostri inediti. Io, pur dubbioso, continuo a divertirmi: del resto mica devo ascoltarla, la musica che suono.

Due eventi concertistici, però, mi portano a farmi due domande. Il primo è il concerto degli Zulu e degli Speed nel giugno del 2023 al Glazart di Parigi. Maxime e Théo mi ci trascinano senza raccontarmene più di tanto e mi trovo davanti scene abbastanza stupefacenti: da ogni parte vedo mulinelli di mani serrate e calci volanti (il cosiddetto crowdkilling), e con loro un costante pericolo di prendere pugni sul viso. Non seppi come reagire davanti a tutte quelle persone (anzi no, a tutti quegli uomini) indemoniati e spaventosi che talvolta non sembravano nemmeno starsi divertendo ma solo presi da una foga malvagia. I set dei due gruppi, detto ciò, mi piacquero: gli Zulu li trovai molto toccanti nella loro maniera estrema di trasmettere il messaggio della lotta per l’emancipazione dei neri americani e gli Speed furono talmente veloci (beh), potenti e carismatici che il timbro del famoso Forget Who We Are sound non potei esimermi dall’apporglielo. In compenso, un primo germe mi si era insediato nella testa: ma che cazzo gli prende a sta gente nel mosh-pit?, è violenza gratuita?, è machismo?, e tutta un’altra serie di quesiti senza facile risposta.

Le sessioni di composizione si facevano sempre più frustranti e mi sembrava sempre di più che le canzoni che scrivevamo con crescente naturalezza altro non erano che accumulazioni sempre diverse della triade breakdown/twostep/tupatupa, legate tra loro magari con un filo di criterio ma senza grande emozione. Per schiarirmi le idee decido di andare all’Xtreme Fest nel Sud della Francia a vedere i Descendents, ma purtroppo Milo ha un infarto tre giorni prima del concerto. Finisco a farmi una giornata di concerti quasi a scatola chiusa ma siccome è l’ultimo giorno dell’edizione, è presto e sono da solo (volevo godermi la spiaggetta, un lago artificiale dentro a un cratere profondissimo scavato da anni di miniere di ferro), chiedo un po’ a giro come funziona. Un tizio mi dice: “In sostanza ci sono due zone, una per il punk e una per l’hardcore”. La frase mi stordisce: ma come, non sono la stessa cosa? Finisce che scoprirò che in certo slang popolare francese, “l’hardcore” altro non è che ‘sta cazzo di musica dalla brutalità così prevedibile e dalla ritualistica così rissosa. Oh, io ci provo anche a godermi roba tipo Walls of Jericho e Scowl, ma cazzo se mi dà fastidio questo songwriting di mera demolizione e inutilmente intricato. Non ci posso fare granché, perciò mi consolo con dello skate punk di qualità (Snuff, Good Riddance, Cigar… ci fu comunque di che godere) e mi decido che, una volta suonato il nostro primo concerto, dirò ai miei due compagni di vita: “Mi dispiace, non siete voi, sono io”.

È finita nel migliore e peggiore dei modi allo stesso tempo. La ricerca di un cantante ci ha portati a essere cooptati da un giovane deftonaro strapieno di materiale pre-esistente, e alla fine suonare un concerto nu-metal in cui di HC (in tutti i sensi) c’era poco o nulla. Dopo un disbanding quasi silenzioso l’”OG Trio” è comunque rimasto un nucleo di amicizia solido, forse anche un saltuario side-project. La fine dei nostri progetti compositivi comuni ha anche spianato le nostre piccole divergenze musicali e abbiamo riscoperto la moltiplicità dei nostri comuni denominatori: non solo l’hardcore punk americano degli anni ’80, ma anche il pop-punk in purezza, il più spinto tra il garage rock odierno, il beatdown HC nelle sue manifestazioni meno “core” e le frange del metal anni ‘90 che invece osarono incorporare quest’elemento. Ci sono, perciò, gruppi locali e non, moderni e non, che ci accomuneranno per sempre. In ordine sparso: Minor Threat, MSS FRNCE, Blink-182, Pantera, Turnstile, Johnny Mafia, Sepultura, Soul Glo, Johnnie Carwash, gli stessi Descendents.

Ma l’hardcore punk, chi lo ama, sa che non è soltanto qualcosa che si commemora. L’hardcore punk, anzitutto, lo si vive. E perciò, c’è un gruppo che più di tutti rimarrà di culto per noi. Cosa sarebbe l’hardcore punk senza le “local bands”? Probabilmente nulla. E il gruppo per eccellenza della regione di Parigi, la band che col suo sound riesce a metterci tutti d’accordo, possono essere solo loro, gli unici e inimitabili Pogo Car Crash Control.

***

Ho scoperto Pogo Car Crash Control (o PCCC, o P3C; viva le sigle nell’HC!) nel lontano 2021. Ad essere onesto, sono quasi sicuro di essere stato al corrente della loro esistenza anche un po’ prima. Ho già parlato della mia amica Sophie, che viene (ed è fiera di venire) dal dipartimento 77, la Seine-et-Marne, il più rurale dei distretti che circondano Parigi. Il povero 77, terra di cereali e di piccoli capolavori medievali, la cui immagine è stata infangata anni or sono dalla Walt Disney Company. Il povero 77, popolato da gente onesta che a Parigi avrà sempre la stimmate di vivere in culo ai lupi.

Il 77 non sarà Manchester, ok, ma ha anche lui il suo orgoglio musicale: la Ferme Electrique, per esempio, è uno dei più bei festival della regione e ogni anno anticipa i successi futuri e celebra quelli passati. E, tra i (non tantissimi) artisti che rendono fiera la Seine-et-Marne, Sophie mi cita fin dagli anni dell’università Pogo Car Crash Control, che fanno “hardcore punk moderno, ma ti giuro, ganzissimo”. Non le faccio un granché caso. Sarà che, forse per colpa del nome un po’ kitsch, me li raffiguro per anni come una piccola gimmick-band della zona che suona alle serate dei liceali per fargli provare il brivido dei primi, timidi e teneri mosh-pit (immaginatevi la scena della festa de Il Tempo delle Mele ma con una band che suona Tornado of Souls dei Megadeth in sottofondo).

Flash-forward a ottobre 2021. Una pandemia mondiale ci ha privati del calore della folla ammucchiata per veramente troppo tempo, la variante omicron fa ancora paura ma sembrerebbe che ce la stiamo levando dalle palle. Ai concerti si scannerizza ancora un QR code vaccinale prima di entrare, e spesso la gente viene obbligata a portare mascheracce o a stare seduta a distanza. Ma stasera, forse, è il momento buono per provare sensazioni quasi remote: Sophie, che è da qualche tempo che scruta con cupidigia un concerto dei suoi beniamini P3C in prossima banlieue, è convinta che sarà una serata “totalement badass”, e chi meglio di me per accompagnarla.

Qualche giorno prima del concerto mi ritrovo ad ascoltare i due album di Pogo a ripetizione. Contro le mie aspettative, il sound del quartetto di Lésigny è estremamente maturo. I primi ascolti di Déprime Hostile del 2018 mi spazzano via: è suonato con una precisione spaventosa ma la produzione si mantiene volutamente (e piacevolmente) sporca, specie nelle distorsioni e negli scream laceranti del cantante Olivier. La cosa più originale, però, è il songwriting: i riff nichilisti, che si rifanno un po’ a quel “metalpunk” che tanto andava di moda per la prima metà degli anni 2010 (penso a band come Toxic Holocaust o Midnight), sono numerosi, dritti al punto e soprattutto sparati a raffica; le sezioni sono numerose e variegate ma, a differenza dei tanti gruppi contemporanei che non amo, non sono un pastiche di rallentamenti e soluzioni aggressive banalotte, bensì un’impalcatura di canzoni punk ben ragionate che riescono nell’ambizioso compito di coniugare la foga di una quantità smisurata di correnti hardcore (crossover, beatdown, crust, death’n’roll…) alla pesantezza angosciante che caratterizza certi metalli (tanto il thrash che lo sludge), il tutto a servizio di un songwriting depressivo ma sorprendentemente “chanson française”: impossibile non accorgersi che quando non gratta, la voce di Olivier non è ”clean” ma ha una solennità emotiva più propria dei cantautori francesi che dei gruppi metalcore e affini. Il secondo album, Tête Blême del 2020, riesce a prendere quest’amalgama apparentemente impossibile e farla funzionare ancora meglio, in un contesto un po’ più hi-fi che non la snatura ma anzi la rende ancora più violenta, e soprattutto con il raggiungimento di un’orecchiabilità e di una maestria negli intrecci chitarristici degni di una grande band.

Del concerto che si consumò all’Hangar di Ivry-sur-Seine in quella serata uggiosa ho il ricordo che potrei avere di una frattura nello spazio-tempo. Pogo Car Crash Control, quando attaccano a suonare, hanno il potere di trasformare la venue in una bolgia insensata e, tra chop di batteria elettrizzanti, riff vorticosi, ritornelli contagiosi e una presenza scenica indemoniata, riescono a trasmettere al pubblico il vero significato del loro nome: dentro al pit incontenibile dei loro concerti ci si sente davvero come il pupazzo giallo e nero dei crash test automobilistici, costretti a subire impatti disumani per conto di una volontà superiore e ineluttabile.

Su quel che è capitato dopo quel concerto fotonico non mi sento di dilungarmi troppo. Ho avuto la fortuna di rivederli live all’indimenticabile Pogo Fest, in cui si sono rivelati anche ottimi curatori e a cui eravamo presenti, a nostra insaputa, sia io che Théo. Doppia fortuna, ho anche avuto occasione di scambiare qualche parola con molti di loro: con la bassista Lola che quella sera mi ha venduto la maglietta del gruppo e mi ha raccontato rapidamente il movimento che c'è dietro al logo “More Women on Stage” che brandisce sempre sul palco; con il cantante Olivier che era alla Ferme Electrique a far festa grossa; con il chitarrista Simon, beccato davanti alla stazione dei treni di Tolosa per quel viaggio della speranza che fu il ritorno dall'Xtreme Fest (facevamo veramente a gara a chi era più rincoglionito). In seguito ho conosciuto Théo e Maxime e abbiamo scoperto immediatamente la nostra passione comune per i P3C. La band ha inoltre pubblicato un terzo album nel 2022, Fréquence Violence, dove il loro stile si è accostato molto di più alle sonorità che ho disdegnato a inizio articolo: più melodico, a tratti più radiofonico e soprattutto tanto, tanto più “core”. Lo ammetto, a me non ha mai convinto appieno, a Théo è abbastanza indifferente, mentre Maxime lo ha adorato. Il nostro disaccordo su quest’opera controversa non ha però intaccato il piccolo status di culto che il gruppo ha per noi tre, anche perché si sa: solo le grandi band pubblicano album divisivi.

A fine 2023 Pogo Car Crash Control tornano nelle nostre vite con un annuncio anch’esso divisivo: tra gennaio e febbraio 2024 organizzano tre date a Parigi (non a Savigny-le-Temple, a Ivry-sur-Seine o a Issy-les-Moulineaux, no, proprio a Parigi). A parte le date, non si sa quasi nulla di questa micro-tournée nella capitale: né le sale, né i prezzi, né il formato dei concerti. Soprattutto, non se ne conosce bene la ragione.

Da un po’ di tempo, mi arrivavano voci di corridoio a cui non davo troppo credito. “Si stanno per sciogliere”, dice qualcuno una sera al Trianon mentre ci godiamo lo splendido concerto post-rock dei Cosse (in cui suonava la bassista dei P3C), “Si vogliono prendere una pausa di riflessione”, afferma Sophie, che dopo il suo trasferimento in Borgogna è riuscita a vederli suonare nelle più profonde campagne del Giura (Franca Contea). Che questo ritorno alle origini in tre venues “importanti per la loro storia” (cito) sia un presagio di fine delle trasmissioni?

Questo alone di mistero a me, Maxime e Théo un po’ ci fa incazzare. Soprattutto, quello che risveglia i miei ancestrali polemismi da fiorentinaccio è un sistema di progressiva fuoriuscita delle informazioni decisamente contorto. Prima ci dicono che saranno tre setlist diverse incentrate su “tre periodi diversi della loro storia” (cito). Presumibilmente prima data primo album, seconda data secondo album, terza data terzo album, ma non si sa e ci rode. Viene annunciata per prima la terza data alla Maroquinerie, e non la compro perché presumo che suoneranno Fréquence Violence. Viene annunciata per seconda la prima data alla Mécanique Ondulatoire (piccolissima) e va sold-out senza che possiamo nemmeno accorgercene. Siamo lì a incrociare le dita per la seconda data e viene fuori che è al Supersonic Club. Un po’ godiamo, perché vorrà dire che è una data gratuita (non si paga mai il biglietto al Supersonic!), ma vista l’affluenza ci chiediamo lecitamente come diavolo riusciremo a entrare. Per fortuna spunta fuori un biglietto salta-fila gratuito (da utilizzare tra le 19 e le 20) che riusciamo ad accaparrarci tutti e tre.

L’intricata faccenda è durata circa un mesetto, durante il quale si sono dette le peggiori cattiverie possibili: “Ma che cazzo di maniere sono?” “Oh, un po’ se la tirano eh!” “Ma vedi te se devo stare dietro a ‘sti quattro e ai loro giochetti”. Fatto sta che alla fine ci viene data la conferma di avere tre biglietti per vedere Tête Blême suonato per intero, gratis, in una sala spettacolare e stiamo godendo talmente tanto che ci vergogniamo delle infamie gratuite degli ultimi giorni. Fatto sta che alla fine Pogo Car Crash Control sono riusciti a fare tre sold-out a Parigi in pochi giorni. Forse le scelte divisive sono quelle che pagano di più.

***

Arriviamo al Supersonic per tempo e ci rendiamo conto che questo mercoledì sera il sold-out è di quelli che provocano un paio di svenimenti impreventivati. Uno potrebbe essere quello di Théo, che ieri ha fatto notte brava con le alte sfere del musicbiz ed ha la sua classica esilarante espressione tramortita. Il Supersonic, per chi non ci fosse mai stato, è una saletta a due piani medio-piccola specializzata nella disciplina dello scouting estremo: ogni sera (dell’anno!) vi suonano gruppi semi-sconosciuti, molto spesso internazionali, molto spesso con uno o più album ben prodotti all’attivo e che portano sempre musica interessante. Io non so come venga fatta la programmazione di questo posto, forse tramite i famosi algoritmi usati dalla dirigenza del Brighton FC; resta il fatto che, tranne per l’iconico pilastro che copre la vista a metà dei presenti, il Supersonic è una sala concerti quasi iperuranica, che sfugge alla comprensione. E forse, proprio per questo, non ci vado poi così spesso. Una cosa è certa, nessuno (al mondo?) l’ha mai visto pieno zeppo come nella serata di oggi, in cui suona un gruppo che a Parigi è parecchio conosciuto. In effetti, mentre ci beviamo un bicchiere tutti insieme (di Club Mate per Théo, straight-edge suo malgrado), ci rendiamo conto che per vedere il concerto come si deve bisogna agire di strategia, ed elaboriamo calcoli geografici paragonabili a quelli dei generali tedeschi nella scena-meme de La Caduta.

Con la superbia di chi si sente la volpe del deserto di ‘sta ceppa annuncio: “Non vi preoccupate ragazzi, voi seguitemi e vedrete che anche la prima band la vediamo da vicino” ma dopo aver incespicato su una scalinata satura di gente (!) ci disperdiamo quasi subito. La mia sfrontatezza in compenso mi ha portato in un punto un po’ defilato niente male per vedere l’opening act.

I Cheap Teen hanno all’incirca la nostra età e non so assolutamente nulla di loro tranne che Pogo Car Crash Control li hanno voluti ad aprire la data. Conoscendo la selecta P3C, so che non devo aspettarmi un gruppo banale, e così è. Il loro noise-rock dalle tinte punk, che oscilla tra il sofisticato e il rude, è perfetto per scaldare il pubblico. Una musica intelligente ma che ti prende allo stomaco, un po’ come l’outfit del bassista: maglietta dei Sonic Youth e giacca dell’abito (mesi fa avevo fatto una battuta su quelli che fanno la stessa cosa con la maglia di Unknown Pleasures, paragonandoli all’anticristo). Il drumming tecnico, il canto nervoso, le chitarre graffianti: tutto urla post-modernismo, ma le sfuriate HC spezzano le ipnotiche nenie post-punkare del quartetto parigino (no, anzi, di Maisons-Alfort). Un pezzo come Down by the Castle, che riesce a coniugare in chiave contemporanea l’ethos sabbatico dei migliori The Jesus Lizard alla spinta un po’ rock’n’roll dell’hardcore punk d’antan (il riff alla fine mi fa pensare ai Germs per qualche motivo), non è solo una gioia per le orecchie ma anche il modo perfetto per prepararsi all’aggressione sonora senza compromessi che sta per arrivare, godendoci le prime scariche elettriche con un po’ di eccentrica ricercatezza. E così, tra i Don Caballerismi nevrotici della fantastica Gnome, il dance-punk efferato di 4 Boys in a Lake (un omaggio agli Slint forse, ma mi viene più da pensare al paraurti di un’automobile che a una gita al lago), o ancora pezzi punk-rock più puri e duri ma sempre con un paio di idee arzigogolate come Sorry e i suoi soli di batteria, la mezz’ora dei Cheap Teen al Supersonic convince tutti i presenti, compresi i miei amici che, al primo accenno del diradarsi della folla, spuntano magicamente, entusiasti, nella seconda fila che gli ho tenuto calda.

L’atmosfera è elettrica, tra fotografi e video-maker (lo sapevate che sul canale ufficiale dei Metallica c’è un video di una performance di Pogo Car Crash Control?) che provano a ritagliarsi il loro spazio e gente che trasporta birre (da bere rigorosamente in tre sorsi) in mezzo a una calca di una densità umana quasi insensata. Quindici minuti passano in frettissima, tanti sono gli stimoli che ci accerchiano. Poi, finalmente, il gruppo che tutti aspettavamo sale sul palco nell’acclamazione generale. Siamo tutti felicissimi, al punto di perdonare anche la maglietta della Juve (merda) a Olivier, e la cosa più bella è notare che i quattro di Lésigny sono felici quanto noi di essere lì. Cominciano a suonare una versione metal dell'Halloween Theme di John Carpenter e l’aria si sospende. Poi tutto si ferma. È il momento.

Le prime quattro battute del riff di L’Odoeur de la Mort fanno officio del famoso “segnale” del Gladiatore. È l’intro perfetta: appena entrano il basso e la batteria l’inferno si scatena sul serio. “Ça craint!”, canta in coro il pubblico. Un’espressione intraducibile, tra lo schifato e il preoccupato. Tradotta letteralmente: “Fa paura”. Ed effettivamente, il terremoto magnitudo diecimila che sta avvenendo sotto al palco un po’ spaventoso lo è. In compenso, nel pubblico non c’è traccia di quella prepotenza rissosa (via, diciamocelo: mascolinità tossica) che si può vedere ai concerti a cui va Théo. Forse complice la bellissima maglietta della bassista Lola che recita: “England didn’t invent punk rock. Women did.”, o forse soprattutto il fatto che la musica ha comunque un’anima sentimentale al di là della sua violenza. Per esempio, un pezzo come Déprime Hostile (che parte per seconda a sorpresa, che regalo!) è sicuramente distruttivo ma non è un annientamento fine a sé stesso: lo sfogo che la ispira è reale, sincero, “relatable”. Che mi faccia venire voglia di spingere da tutte le parti, quello è un altro discorso, che vale anche per tutto il resto della setlist, lunga, perfetta e piena di sorprese.

L’inizio del concerto non va solo a trecento chilometri all’ora, ma anche a occhi chiusi e sul cavalcavia. Pourquoi tu Pleures fracassa la sala, e ogni colpo di crash del batterista Louis è come se spaccasse i vetri del Supersonic. In balia degli eventi, sballottolato da ogni parte, vedo ogni tanto la pelata di mio fratello Maxime che rispunta dal marasma e, appena parte un omaggio al breakdown di Domination dei Pantera, ci abbracciamo quasi commossi da questo ritorno a sensazioni ancestrali (in terza media guardavo Live in Moscow 1990 una volta al giorno).

Di recente, a Berlino, sono andato a visitare un bunker nazista adibito ad oggi a galleria d’arte (Boros Collection) ma che, negli anni ’90, era solita ospitare rave BDSM. La guida ci raccontava che, in mezzo alla struttura, quando c’erano centinaia di persone che ballavano (ed altro), l’ossigeno cominciava a scarseggiare, ragion per cui in certi punti venivano messe delle candele che, col loro spegnimento, indicavano alla gente che era tempo di rifluire. Ho trovato l’immagine molto suggestiva e adesso eccomi qua, in seconda fila dietro a una diga di fotografi tenaci, a ritrovarmi anch’io senza ossigeno. In qualche modo è una bella sensazione, ma ho bisogno di una boccata d’aria, quindi mi arrampico con le forze che mi restano, salgo sul palco, scuoto la testa e salto giù. Solo chi ama l’hardcore punk sa quanto questi siano i veri piaceri della vita.

Il concerto va avanti per una buona ora e un quarto, con pochissime interruzioni. Non ho mai visto Pogo Car Crash Control suonare così tanto, ed è una goduria. Per fortuna, dopo un inizio veramente estremo, la band ci offre qualche momento di ristoro in mezzo al bombardamento continuo: con la solenne, disperata e quasi gotica L’Histoire se Répète, oppure Comment lui en Vouloir da Déprime Hostile, un heavy rock dallo swing malefico che strizza l’occhio anche agli anni ‘80, o ancora la balladona Cristaux Liquides da Fréquence Violence. Nella generosa setlist di stasera in effetti c’è spazio anche per tanti pezzi di quest’ultimo album, e non posso fare a meno di pogarli tutti perché dal vivo sono devastanti e in piena coerenza con l’anima P3C. Devo ammetterlo: non stonano in nulla col resto della setlist, nonostante un approccio tanto più “moderno” dei brani degli anni precedenti (vedasi Ville Prison dove, in mezzo al beatdown più smaccato della loro carriera, a un certo punto parte un rap insperato).

Come al solito, però, oltre alla qualità della musica e all’abilità dei musicisti, è la loro presenza carismatica a rendere il concerto superlativo. Sarà anche un cliché, ma vedere la convinzione con cui Pogo suonano le loro canzoni è sempre qualcosa di emozionante: si agitano dappertutto, quando si guardano ti accorgi subito che si vogliono bene, e cantano tutti le canzoni con foga anche senza microfono. Lola e Olivier prima delle battute finali battono il cinque al pubblico e non parlo di mani che si sfiorano: con entrambi il “clac!” è secco e sonoro. Pura potenza.

La chiusa del concerto fa onore al caos che si è scatenato al Supersonic. Passano tre veri anthem: Qu’est-ce qui va pas ?, il sing-along più atteso: da cantare col tono di voce di chi sta vomitando mentre parla; l’instant classic Tête Blême: da cantare tutta saltando fino al soffitto (un tizio è veramente salito sul balcone del piano di sopra mentre faceva crowd surfing); Crève (2016), il primo singolo della carriera di Pogo Car Crash Control, il cui sound spietato è così fedele al loro nome: il wall of death è catartico e inevitabile. Non c’è nemmeno bisogno di chiedere l’encore: il gruppo, lo si vede, ha dato tutto e forse qualcosa di più. Noi anche.

***

All’uscita siamo abbastanza su di giri. Bazzichiamo ancora un po’ per la sala (in cerca di un dolcevita da due soldi che ho perso quando lo zaino mi si è aperto nel pogo) e becchiamo un sorridentissimo Olivier, a cui Maxime dice amichevolmente: “Eri più chiacchierone del solito stasera”. Nonostante i suoi testi ultra-apatici si vede che è un buontempone. All’uscita parlo con Simon, che mi racconta della sua passione per i dipinti di Caravaggio, mi conferma che i P3C sono solo in pausa dai concerti per finire un nuovo album (che sollievo!) e alla fine mi insegna un importantissimo gesto gangsta territoriale da dedicare alla mia famiglia della Seine-et-Marne: il “77 mitraillette” (leggasi “sett sett mitraiétt”).

Mentre con Max cazzeggiamo ancora un attimo per sbollire, Théo si dichiara distrutto e alza bandiera bianca abbastanza presto. Dietro alle occhiaie e l’aria spaesata, si vede che anche lui è comunque impressionato dalla scarica di punk appena ricevuta. “Sono stato un po’ indietro ma ti ho visto quando sei montato sul palco e hai fatto il tuo ‘slam’, forte!”, mi dice. Che cazzo vuol dire “slam”, precisamente, io non lo so, ed è proprio dalle nostre differenze di linguaggio che comincia una riflessione sulla vera essenza dell’hardcore punk.

Mi è chiaro ormai da tempo che esistono delle fratture all’interno del gruppo di persone che si rivendicano amanti di quello che tutti noi definiamo con l’aggettivo “hardcore”. Chi usa un certo gergo, chi ne usa un altro. Chi si fomenta col crowdkilling, chi se ne disgusta. Chi ama i breakdown col doppio pedale, chi li odia. Eppure, davanti a un gruppo come Pogo Car Crash Control tutte queste divergenze si appiattiscono, al punto che Théo si sbigottisce dalla potenza del mosh-pit di stasera pure se non sono volati pugni roteanti, o al punto che io mi scateno con i riff stoppati di Tourne pas Rond pure se sono “core” all’inverosimile.

Mio padre ama citare spesso un aforisma di Keith Richards che afferma che: “C’è il rock, ma c’è anche il roll”. Al giorno d’oggi, in cui navighiamo in un oceano di categorie, generi e sottogeneri, forse bisognerebbe tornare a pensare a quelle parole che, nella storia della musica, hanno avuto come primo scopo quello di descrivere le intenzioni degli artisti. Tanti sottogeneri sono nati proprio da quei termini poco ortodossi usati da un pubblico inconscio della sua influenza sulla critica futura: “cool” o “funky” per il jazz, “freak” per il folk, “dream” per il pop, etc. Ci sono tanti altri aggettivi simili che, pur non riuscendo ad entrare nei libri di storia (o anche solo su rateyourmusic) hanno ormai una valenza evocativa immensa per definire un genere di musica: penso a “stadium” per il rock oppure “trve” per il black metal che, per quanto sia nato quasi come un meme, spiega più concetti di tante teoretiche arrampicate sugli specchi.

Ecco, l’aggettivo “hardcore” è un po’ a metà strada tra queste due funzioni semantiche. Oramai assorbito dalla critica musicale di tutto il mondo, il termine distingue certo alcune tipologie di punk da altre, ma alla fine della fiera quello che fa sopra a tutto è definire un set, anche piuttosto ampio, di attitudini e modi di essere e di fare sulle quali siamo già passati varie volte nell'articolo di oggi.

Forse se scindiamo il termine nelle sue due componenti principali riusciamo a risolvere la nostra complessa missione: trovare il ponte tra quello che amo e quello che odio dell’universo “hardcore”. Senza avere la presunzione di battezzarmi novello Keith Richards, mi permetto perciò di dire che c’è l’“hard” e che c’è il “core”. Il “core” è quella tendenza, un po’ protagonistica, di mettersi al centro dell’attenzione, esaltare le appartenenze, l’eccesso, persino la violenza. Dall’altra parte l’“hard”, o “fattore H” come amerò definirlo da ora in poi, può essere visto come quella pulsione che spinge un artista punk a dire quello che ha da dire nella maniera più sincera, diretta, spinta e viscerale possibile. Inutile a dirsi, è per il fattore H che amo questa musica.

Ecco, in un gruppo come Pogo Car Crash Control una cosa salta all’occhio: la barra del fattore H è straripante. Talmente alta che mi fa soprassedere pure alle loro scelte più “core”. Ovviamente l’equilibrio perfetto tra i due elementi non esiste davvero ma dipende e dipenderà, da sempre e per sempre, dai gusti di ciascuno. Théo ama quando il “core” la fa da padrona, e non ho niente di cui biasimarlo. Maxime, finché c’è un minimo di fattore H, apprezza tutti i livelli di “core”. Come funzioniamo, invece, io e la mia intolleranza per il “core”, a volte fatico a capirlo. So però di per certo che, finché avrò la mia dose di fattore H, l’hardcore punk mi farà sempre sentire soddisfatto, commosso, estasiato. E finché io e miei amici, per quanto siano diversi i nostri gusti, potremo vivere insieme il fattore H, ci vorremo sempre un mondo di bene. E ci sentiremo allegri, uniti, speciali.

E così, sentendomi un po’ speciale, torno a casa fradicio di mosh-pit. La mattina dopo mi metto immediatamente sotto la doccia per espiare i miei peccati di ieri sera senza sensi di colpa. Mi preparo ad andare a lavoro e, con noncuranza, mi rimetto la giacchetta che ho portato ieri sera sopra alla maglietta all'uscita del concerto in assenza di dolcevita. Il mio naso sente qualcosa e la mia mente ritorna subito lì, in mezzo al cerchio della morte del Supersonic. La giacca odora di pogo. Un misto tra sudore, detergente per bagni, birra, acqua di colonia, sigarette, deodorante, saliva, bibite gassate. Mi sorprende: non è spiacevole.

Grazie, P3C.

lunedì 5 febbraio 2024

Life Lately (Gennaio 2024) - Les Baltrink', The Vaccines, Soulwax (Bonus: riflessioni sulla FOMO, locali che vi consiglio)

Il mio gennaio di musica comincia con il consueto volo Firenze-Parigi di inizio anno. Non so voi, ma per me i viaggi in aereo sono frammenti di tempo in cui l’anima è in completa anestesia e in cui non provo nulla. Le mie sensazioni sul rientro a Parigi mi sono perciò sconosciute. Non tanto a livello emozionale: ormai lo so che tornare dopo le vacanze mi fa, tutto sommato, piacere.

Il dilemma, a questo giro, è di natura energetica. Come sto? I bagordi natalizi e tutte queste serate fuori di casa con quei matti dei miei amici mi hanno prosciugato delle mie forze ancor più che la vita da impiegato? O al contrario stare lontano dagli stress metropolitani mi ha rigenerato e sono pronto a spaccare il mondo? La domenica 7 gennaio il dubbio persiste, mentre mi ri-familiarizzo col mio habitat francese e col ritorno alla vita domestica in solitaria. L’8 di gennaio mi sveglio, lascio entrare Ascanio, mi alzo e appena mi ritrovo in piedi mi rendo conto che ho una voglia quasi incontenibile di tornare ad abbuffarmi di concerti. La mia foga, però, si urta quasi subito con la triste realtà: molte delle serate che a dicembre mi avevano fatto dire “magari mi interessano, poi vediamo come mi piglia dai”, adesso sono sold-outtissime. È in questo momento che scopro che la mia energia straripante non deriva da una fonte rinnovabile e pulita ma da un combustibile fossile altamente inquinante: la FOMO.

Per chi, tra i miei lettori, non conoscesse il termine (i miei genitori e basta, penso), il demone chiamato FOMO altro non è che la sigla di “Fear Of Missing Out”, la “paura di starsi perdendo qualcosa”. Fenomeno preponderante nelle grandi capitali europee, questa sensazione di frustrazione derivata dall’incapacità di andare a (tutti gli) eventi che potrebbero procurarci piacere è un pericolosissimo vettore di umori neri che può portare anche a conseguenze gravi come depressione, ansia o, la peggiore di tutte, andare a chiedere a quel tuo amico un po’ ammanicato se riesce a procurarsi un paio di biglietti per il concerto di domani sera con qualche loscata di lavoro.

Il primo attacco della FOMO lo subisco quando scopro che The Psychotic Monks alla Gaîté Lyrique non c’è proprio verso di riuscire a vederli. Ora, non mi strappo le vesti: li ascolto pochissimo, li ho già visti fare un set lunghissimo a Dour l’anno scorso da molto vicino e, anche se ormai sono conosciuti a livello internazionale, non si smette mica da un giorno all’altro di suonare ai festival alternativi in banlieue parigina. Questa rosicata che col senno di poi non ha ragione di esistere mi spinge a un’autoanalisi che si rivelerà in seguito molto utile: ad essere del tutto sincero con me stesso, volevo andare a vedere questo concerto “di consacrazione” (un po’ come quello dei Grand Blanc) più per scriverne a riguardo che per una vera e sincera voglia di godermelo. Via, un po’ tutte e due le cose, un cinquanta e cinquanta. Ma non va bene lo stesso: sono pubblico pagante e la passione della scrittura è solo un accessorio. L’amore per la musica dev’essere lo stimolo prevalente (novanta percento, toh) per le scelte dei concerti che ho voglia di andare a vedere. Che è anche la ragione per cui non faccio il giornalista e per cui ai concerti punk, pure se finirò per scrivere un mattone di sei pagine a riguardo, pogo e ballo invece di stare sul balconcino calmo, fermo e con un taccuino in mano.

Un secondo episodio di FOMO devastante riguarda un altro gruppo che non ascolto quasi mai: gli Slowdive. Chi conosce il mio amico Paolo e magari ha letto anche le sue pontatine per il Primavera Sound 2024 sa quanto per anni abbiamo trattato questa band, da molti considerata come il più grande gruppo shoegaze della storia, un po’ alla stregua di come i fan dei Beatles trattano i Rolling Stones. Noi c’abbiamo i My Bloody Valentine, ma di che si ragiona su, paragoni che non hanno nemmeno luogo di essere. Poi un giorno del 2022 Paolo va a vedere Rachel Goswell e soci a Barcellona mentre io ero già tornato a Parigi e mi scrive un messaggio che non scorderò mai. Recitava, col suo classico stile da vecchio telegramma, qualcosa del genere: “Fra [stop] Slowdive incredibili. Suono potentissimo, ti arrivava da tutte le parti, e poi la voce eterea sopra. Alla fine hanno fatto una coda di chitarre lunghissima ed erano lì con la testa bassa ad aggiungere strati coi pedali. Lì ho visto lo shoegaze”. Dopo una descrizione del genere ho saputo subito che nella vita devo vedere gli Slowdive, se non per “vedere lo shoegaze” quantomeno per poter pareggiare con Paolone. Perché sì, a volte la FOMO sfocia anche in un primitivo e inappropriato istinto di competizione.

Finisce che quasi mi snervo a cercare un biglietto in rivendita (di concreto non c’è nulla tranne quel matto che lo vende su Viagogo a 1124€). Al mezzogiorno del giorno del concerto, mi rendo conto che questo accanimento per riuscire a trovare un modo entrare alla Cigale sta nuocendo alla mia salute. Col senno di poi, poco male: da questa esperienza mi tengo le tecniche commerciali che ho imparato e l'essermi evitato di vedere Rachel Goswell coi capelli da Crudelia Demon (ti prego, torna castana) ma soprattutto riesco a trovare un po’ di felicità nell’arte del ripiego. L’odioso Vasco Brondi cantava Per Combattere l’Acne e io, per combattere la FOMO, ho scovato la soluzione perfetta. Dopo aver quasi ceduto all’idea di andare a concerti che non mi interessano (Four Tet per cinque ore in formato pseudo-Boiler Room a cui per giunta va anche la mia ex? Eh, ma costa sette euro l’ora se fai il calcolo, mica male), ho scoperto che ci sono altre sane attività anti-FOMO, musicali ma non per forza concertistiche: girare per barretti alternativi, suonicchiare ed esplorare nuove nicchie, forse nuovi ovili. E onestamente, è stato bello.

Le serate al già citato Le Motel, per esempio, non solo hanno un che di estremamente accogliente, ma regalano anche perle di estemporaneità fuori dal tempo. Mitiche, ad esempio, le performance inaspettate sul palchetto, tipo quella ragazza che canta cover di J-Pop che ci ha fatti volare. Splendide anche, sul sottofondo della musica indie diffusa da DJ o concentratissimi o distrattissimi, le conversazioni nostalgiche sulla vita musicale parigina e non solo. Mi è bastato dire, una sera: “But I was there…” alla maniera di James Murphy in I’m Losing My Edge per far partire la bambola delle storie su grandi artisti e tempi non sospetti. Vince il mio premio personale quella dello showcase al Motel degli allora sconosciutissimi The XX che chiedono al barista di accompagnarli a fare da fonico nella prima minuscola tournée in Francia. La sua risposta: “Questi non vanno da nessuna parte, dai”.

La fantastica Mécanique Ondulatoire è stata anche una scoperta tardiva micidiale. Più sullo stile punkettone, quest’altro bar dell’undicesimo arrondissement ha tra le sue qualità principali un’ottima varietà di birre, una sala concerti dalla programmazione notevole e, soprattutto, una convivialità sopra la media che si sposa appieno con la selezione musicale praticamente perfetta. Una sera ci ho passato quattro ore di fila e sono passate come se fossero dieci minuti, tanto sembra di giocare al Sarabanda dei sogni. L’approvazione arrivata dal bancone quando ho chiappato il battito di mani giusto durante Deceptacon potrebbe essere uno dei riconoscimenti più soddisfacenti della mia carriera.

Chiudo il trafiletto con due altri locali che mi sento di consigliare. Affinché non mi si dica che sono un ubriacone e che l’unica cosa che faccio quando non sono ai concerti è andare a sbevazzare, vi racconto di due bar in cui sono andato per un’altra ragione, ovvero suonare la batteria. Con un gruppo grunge un po’ improbabile che ho anche mollato subito dopo (drama queen vera) abbiamo acchiappato un set di mezz’ora un po’ fuori luogo a una serata universitaria. Il rischio che il risultato fosse imbarazzante c’era, ma grazie al posto davvero speciale è venuto fuori un concertino di tutto rispetto. Il Bar Les Disquaires, sempre nella stessa zona dei due precedenti, è veramente bello e soprattutto ha una saletta per la musica dove il Sound and Vision merita un dieci e lode. La programmazione è completamente esoterica ma il layout del locale è talmente rilassante e ben studiato, e il fonico e l’acustica talmente buoni, che non dubito che tornerò presto a bere un bicchiere e farmi un concerto a scatola chiusa, che poi è un’abitudine sana.

(P.s.: Del concerto ai Disquaires in questione ci sarebbe anche un video piuttosto qualitativo su Youtube, ma non amo farmi pubblicità da solo, quindi spulciate e lo troverete. Sul finale parte una cover di Holiday dei Turnstile dove oso un paio di soluzioni davvero stupide.)

L’ultimo ma non ultimo locale è La Mazane, che la sera del mercoledì (il miglior giorno della settimana) organizza delle gigantesche jam session funk e soul. Il livello è altissimo e i conservatoristi numerosi, lo si nota da subito. Quella matta della Lauren però se n’è fregata e si è iscritta includendo me e un altro amico bassista quasi contro la nostra volontà. Io mi sono fatto odiare in egual modo da tastierista e sassofonista per la mia gestione dei volumi irresponsabile (ma il pubblico non l’ha vissuta così male, credo), Taha si è trovato piuttosto a suo agio con la griglia di accordi un po’ berbera che gli è capitata (bella botta di culo per lui che è marocchino) e Lauren ha tirato fuori dal cilindro delle melodie flamenche assolutamente inaspettate. È stato solo un pezzo, sfangato anche per il rotto della cuffia, ma resta ad oggi uno degli highlights del mese.

Detto ciò, di concerti qualcheduno alla fine ce n’è stato. Il principio di Life Lately forse già lo conoscete: si tratta di una raccolta di live-report sui concerti del mese sui quali ho troppo poco materiale per farne un articolo “monografico”. Ciò non toglie valore ai concerti in sé, anzi: spesso sono tra i migliori a cui assisto.

Ho già parlato troppo. Cominciamo.

 

Les Baltrink’ – Perché amiamo (o odiamo) i dive bar?

Les Baltrink' live @Le Zorba, Parigi, 12/01/2024

Il primo concerto dell’anno capita un po’ per caso. Stiamo preparando il concerto grunge sopracitato e il cantante/chitarrista/one-man-bandista scova una serata punk di suoi amici di non so dove quando né perché. Se non si fosse capito il ragazzo è abbastanza giovane, per fortuna o purtroppo, e sento che sta volenterosamente accettando di aprirmi la porta a circoli che sono canonici per gli studenti ed oscuri per uno come me, che sono un impiegato già pronto alla trentina. Grazie Arthur, è un pensiero gentile.

Siccome l’uomo è una creatura meschina abbiamo ovviamente entrambi dei secondi fini: lui vedere un po’ di colleghi e fare una micro-promozione del suo gruppo, io scoprire la sala di stasera, Le Zorba, forse il bar di Belleville che meglio incarna la categoria talmente-squallido-da-fare-il-giro-e-diventare-quasi-cool. È da tempo che le persone più disparate mi vantano di quanto sia intrattenente passare una serata nello sgabuzzino di sotto. Addirittura, penso che il mio compare Théo abbia mandato ai gestori dei repellenti video in cui, a torso nudo, suono malissimo del beatdown hardcore. Ovviamente non ci è valso un ingaggio.

Arrivo parecchio prima di Arthur e si respira già l’aria del pienone. Per cosa, precisamente, non lo so, perché non ho ascoltato nemmeno un nanosecondo delle band della serata. Ma del resto sono qui più per la venue che per altro. Mi guardo intorno: la parte di sopra, che già conoscevo, è il tipico PMU un po’ zozzo che col buio serale diventa da bosco e da riviera, e infatti mi si è popolato di simpatici gen-z alternativi, stilosi, molto diversi tra loro e molto diversi da me. Una scalinata inutilmente angusta porta al piano di sotto dove si trovano la stanza degli adesivi e dei graffiti con l’uniposca (che ospita casualmente anche dei sanitari) e una vera cantina d’antan, capolavoro di umidità e di insospettabile eleganza. Devo dire che sono da solo ma ben lontano dall’essere a disagio, anzi, mi sto divertendo un sacco ad esplorare il locale, leggere le reference oscure sui muri, scoprire vecchi manifesti e osservare i guasconi più stagionati su al bar che discutono tra loro, incuranti del viavai di abiti neogotici e Y2K che gli passano davanti, o ancora ammirare i gestori che barcamenano birre con estrema professionalità ma riescono anche a essere concilianti con gli avventori più esuberanti tipo la “post-punk mom” che si impadronisce della playlist e toglie il reggaeton per mettere Nina Hagen. Io sorseggio lentamente la birra, faccio svariati e silenziosi viaggi da sopra a sotto, da dentro a fuori, mi sento appagato e questa sensazione mi ispira il titolo di un ipotetico saggio breve: “Perché amiamo i dive bar?”.

La risposta è semplice: perché tutto, qua, è amplificato. Le ragazze carine sembrano molto più carine, le persone strane molto più strane, i giovani molto più giovani. A cosa sia dovuto questo fenomeno non mi è dato saperlo: sicuramente per spiegarlo scientificamente dovremmo conciliare i principi fisici newtoniani e le conclusioni sulle monadi dei neoplatonici, ma siccome non sono Borges non mi perdo in elucubrazioni. Resta il fatto che per noi amanti del punk l’amplificazione è tutto, e quindi sono contento che il mio anno di concerti cominci così, dive-bareando, Vampireando.

Purtroppo questo venerdì sera sono un po’ vincolato: vengo direttamente dall’ufficio e ho dietro lo zaino con il computer aziendale. La cantina straborda di gente fino al soffitto e, appena la prima band comincia a suonare, mi accorgo che l’unica opzione che mi resta per salvaguardare il mio prezioso hard-drive (contenente cartelle dal valore inestimabile piene di foto di pale eoliche) è quella di mettermi nell’angolino contro il muro alla maniera del wojak col cappello di carta alla festa di compleanno. Del resto, lo diceva anche Mao, il pogo non è un pranzo di gala, e i giovinastri di stasera sono giustamente in cerca di emozioni forti.

La festa è abbastanza epocale: gente eccentrica che vola da tutte le parti, battutacce, schiamazzi, anche un paio di simpatiche volgarità (le due opening bands, che poi sono quelle che hanno portato tutti i loro amici, si chiamano Cold Cum e Spaghetti Sluts). Io però non vedo una mazza, e il suono (a tratti anche la musica) sono tanto, ma tanto scrausi. Parte una cover quasi offensiva di Well Done degli Idles, e comincio ad avvertire i primi malesseri, un po’ come Max Collini che ascolta Albano e Romina a Praga in Tatranky. Con loro, un secondo incubo editoriale ad occhi aperti: “Perché odiamo i dive bar?” (magari con prefazione del generale Vannacci).

Come la forza centrifuga e la forza centripeta, anche il principio di amplificazione del dive bar ha il suo rovescio della medaglia: durante i primi due concerti mi sento più vecchio, più snob e persino più straniero di quanto io lo sia veramente, e non posso farci niente. Sarà che tra cavi che si staccano a destra e manca e feedback incontrollabili le performance sono, perlomeno fonicamente, al limite dell’aberrante; sarà che sono volontariamente fuori dal fulcro dell’azione, non solo per proteggere l’avvenire dell’energia eolica, ma anche perché pogare giusto per il gusto di pogare non è che mi sconfinferi più di tanto; sarà che i riferimenti di questa party music per giovani francesi o non li ho (Spaghetti Sluts suonano una cover di Les Filles Adorent e la cantano tutti, dev’essere tipo un equivalente di Le Donne di Fabri Fibra), o non mi fanno tanto ridere (Parapet è una canzone dedicata a un video storico di un belga che cade dalla bici al Tour de France, sarà di culto ma a me pare una clip di Paperissima Sprint); sarà che leggo in certi sguardi, in certo stage banter e in certe canzoni (chi cazzo è Louison Colère?) quel sentimento giovanile di appartenenza a una “scena” che tanto rifuggo e quasi osteggio, dopo alcune brutte delusioni adolescenziali. Sarà. Fatto sta che ho “visto” un’ora abbondante di musica e sono qui fuori a farneticare che ancora i 5€ del biglietto non me li sento propriamente ripagati, davanti al povero Arthur che è lì a pregare perché i suoi amici non mi sentano.

Scendo per l’ultima band senza grande convinzione. C’è moltissima meno gente di prima e riesco a vedere il palco, su cui si appresta ad attaccare un quartetto punk dall’aspetto simpatico, specialmente il cantante (Lou) che con il “dad bod” messo bene in vista dal crop-top risponde già alla definizione di “nostrismo”. Attaccano a suonare e spalanco gli occhi. L’unico commento che vorrei fare me lo tengo per me, perché è intraducibile in francese: concertone della madonna!

Les Baltrink’ convincono, e con loro questo hardcore punk senza fronzoli, che omaggia ovviamente gli anni ’80, insaporendolo però con le vene di modernità giuste (poco breakdown, tanta dissonanza). Complice la minore affluenza, ma anche il fatto che sono musicisti decisamente abili, i loro suoni sono sporchi ma finalmente nitidi, e la loro stage presence (quasi più “floor presence”) e testi sono ancora ironici, ma più feroci che festaioli. Quando parte À Moitié (che oltretutto appartiene allo stesso universo lirico di I’m not a Punk dei Descendents) finalmente posso appoggiare lo zaino computerizzato in un angolino e, con molta calma, impazzire. Adesso no, non mi sento affatto a disagio all’idea di fare un po’ di sano casino.

Il pregio della musica dei Baltrink’ è che è originale senza essere elaborata e divertente senza essere stupida. Un pezzo scritto con maestria come Le Contrôleur : La Genèse, dove il punk abbraccia anche frange di noise-rock più radicali, riesce a illustrare perfettamente il giusto mezzo che sono riusciti a trovare nelle loro composizioni. Ma questə pariginə (hanno un inedito molto spassoso a tema scrittura inclusiva), al di là dei soli due singoli che sono usciti sulle piattaforme, hanno ancora tantissimo da dire: ora vanno a mescolare del post-punk darkettone con un buon D-beat di quelli che fanno bene all’anima, subito dopo regalano dadaismi quasi grindcore, poi sorprendenti armonie e disarmonie vocali che si incastrano alla perfezione… Insomma, non ci si annoia mai.

Il concerto dura quanto deve durare un concerto HC DIY tradizionale: poco ma giusto. Tra il cantante Lou che sembrava davvero stare per morire di asfissia, “stage antics” abbastanza spinti e un pubblico caldissimo ma concentrato, ho l’impressione di aver passato gli ultimi trenta minuti in un tornado ma, soprattutto, di aver visto dei giovani talenti dall’energia straripante che, se incanalata col giusto voltaggio, può davvero generare qualcosa di potente.

(La mia foto, e di questo mi scuso, fa sembrare il reattore di 100MW che si è acceso quella sera come una misera lampadina a Led. In compenso, @crade_, fotografo di punk parigino, lo seguo da un po’ su Instagram e ho scoperto a posteriori che era alla serata. Andate a vedere le sue, di foto, che sono bellissime.)

Soprattutto, nel dibattito interiore hegeliano che mi ha accompagnato per tutta la sera, dopo la tesi e l’antitesi Les Baltrink’ mi hanno finalmente portato una sintesi. Perciò, in conclusione: “Perché andiamo nei dive bar?”.

È semplice: perché odiamo essere anonimi in mezzo a persone speciali, ma amiamo sentirci speciali nel nostro anonimato; perché odiamo quando troppa pulizia mette in luce la bruttezza, e amiamo quando un po’ di sporcizia fa risaltare la bellezza; perché odiamo i posti in cui non viene data nessuna serietà alla musica, ma amiamo i posti in cui è la musica a non dare troppa serietà a sé stessa; perché odiamo quando i gruppi che dovrebbero suonare bene suonano male, e amiamo quando i gruppi che dovrebbero suonare male suonano bene; perché odiamo vedere un concerto noioso in un palazzo reale, e amiamo vedere un concerto divertente in uno scantinato.

Perché odiamo andare a sbattere, ma amiamo tuffarci.

 

The Vaccines – La sottile linea rock

The Vaccines live @Festsaal Kreuzberg, Berlino, 22/01/2024 (foto di mio babbo)

Tra le varie comparse speciali dei miei articoli a volte rispunta nientepopodimeno che la persona con cui ho condiviso i miei primissimi ricordi musicali e con cui, per tutta una vita, ho condiviso e continuo a condividere musica: i’ mi’ babbo (che sarebbe mio padre). Oltre ad essere una persona fondamentale per me, lo è anche per il mio trapianto francese. Ne è un predecessore, perché ha fatto il grande salto diversi anni prima di me. Ne è un promotore, perché mi ha convinto, e anche con argomenti che hanno retto la prova del tempo, che migrare era una buona idea. Ne è un mediatore, perché mi ha aiutato tantissimo a prepararlo e ad eseguirlo.

Dopo dieci anni suonati in quel di Parigi, di cui uno di coinquilinaggio col sottoscritto e due di costanti appuntamenti per soffrire insieme con la Fiorentina o mangiare il risotto o il cinese raccontandoci gioie e dolori, i' mi' babbo parte a farsi un meritato anno sabbatico e se ne va per qualche mese a Berlino. Io a Berlino non ci passo dall'epoca del viaggio della maturità, voglio tornarci e se posso trovare la scusa di un concerto in terra teutonica ancora meglio. Oltretutto il Natale si avvicina e regalare un concerto mi sembra l'opzione perfetta: sforzo minimo, risultato massimo. Ne ho adocchiato uno perfetto per lui, che è cresciuto con la new-wave degli anni '80: Echo & The Bunnymen, il 7 aprile. Il giorno di Natale gli allungo una busta col fare tronfio di chi anche quest'anno l'ha sfangata con gran classe. Lui la apre e, un po' desolato, mi fa: "Il problema è che io parto da Berlino il 4"...

Meno male che avevo messo l'opzione: "O un altro concerto a scelta da te" a pié di pagina. Che risolve solo parzialmente il problema, però: ora che cazzo lo porto a vedere? Le opzioni sembrano tutte scomode, non di suo gradimento o entrambe. Un po' procrastino, un po' mi dispero, ma a inizio gennaio, appena sono tornato a Parigi, è mio babbo a venire a togliermi le castagne dal fuoco: "Ci sarebbero i Vaccines tra due fine settimana. Mi ricordo che quando siamo andati in montagna prima di Capodanno li ascoltavi sempre. Io ci vado volentieri". Non ci penso su nemmeno un minuto e prendo i biglietti. Grazie papà.

In effetti, i Vaccines sono stati la mia piccola rivelazione del mese di dicembre. Un po' per caso mi sono imbattuto in Norgaard, canzone che ha destato subito il mio interesse per l'omonimia con un centrocampista che ha fatto 6 presenze in maglia viola e poi è esploso in Premier League (tipico). La ascolto, la riascolto, la ri-riascolto e la trovo perfetta. Il conseguente ascolto del suo album, What Did You Expect From The Vaccines? del 2011, è stata un'esperienza fantastica perché, oltre a divertirmi ed emozionarmi molto, mi ha riconciliato con l'indie rock inglese di inizio anni 2010, che è sempre stata un po' la mia bestia nera, ispirandomi poi a scrivere l’articolo su I Cani.

Di questo disco mi piacciono un sacco di cose: l'immediatezza delle melodie, di cui molte sonno inni istantanei e che funzionano praticamente sempre; la vibe da film "coming of age" abbastanza inedita, che invece del pop-punk statunitense con gli skateboard e i campus universitari mi riportano a un immaginario fatto di pinte al pub e feste selvagge (ma anche un po’ deprimenti) al suono del britpop; ultima ma non ultima, l’arrapatezza (non giriamoci intorno, di quello parlavano le indie band inglesi di quegli anni) che traspare dalla musica, molto sanguigna, caciarona ma anche sensibile, a differenza di quella delle opere coeve di gruppi come gli Arctic Monkeys in cui è solo strana e un po’ rachitica.

What Did You Expect, perciò, me lo sono divorato e ho anche fatto scarpetta: la mini-raccolta di B-side è ganzissima (c’è una cover di Good Guys Don’t Wear White dei Minor Threat, pazzesco) e le demo, che sono uscite nel 2021, suonano da dio (Wrecking Bar sembra cantata dagli Unknown Mortal Orchestra dell’epoca di II). Sono poi passato a Come of Age del 2012, che mi piace ma più a sprazzi, soprattutto perché si sente da lontano un miglio che è un album concepito per essere la loro conclamazione radiofonica (l’iter industriale era assolutamente prevedibile) e quindi spinge meno sul lato punk del suo predecessore. Di quello che hanno fatto i Vaccines una volta diventati grandi, devo dire, non ho sentito niente di buono: il materiale degli ultimi dieci anni, salvo se mi sono perso qualcosa, mi pare un poppazzo facilone che va dal mediocre all’esecrabile. Qualche pezzo di quel quasi ritorno al rock che è l’ultimo album, “Pick-up Full of Pink Carnations” (gennaio 2024!), mi sento però di salvarlo.

Andare ai concerti di gruppi di cui non ti piace buona parte del materiale è una scommessa che nella mia vita ha sorprendentemente quasi sempre pagato. L’esempio principe può essere, tra tanti, l’ottimo concerto degli Helmet al Petit Bain a dicembre 2023 che, poverino, è capitato in un mese in cui Life Lately non aveva senso di esistere e non ha ricevuto nessun report. La mia teoria è che le band, quando sono meno ispirate del solito da un punto di vista compositivo, solitamente lo sanno, e perciò curano tantissimo il live show che possono offrire (spesso più delle band ispirate). La ragione è ovvia: hanno un bisogno molto maggiore delle esternalità positive che un gran concerto può portare: fidelizzazione del pubblico, mitigazione delle maldicenze sul catalogo recente, reputazione da live band.

Dopo disdicevoli disavventure con Deutsche Bahn e un lungo viaggio continentale, arrivo finalmente nel nuovo quartier generale del babbo, in una Berlino Est coperta dalla neve. Ci godiamo assieme quest’atmosfera post-punk abbastanza magica e giriamo per musei, statue memoriali, bar tedeschi e ristoranti asiatici (a ciascuno il suo). Riusciamo persino a infiltrarci in una manifestazione contro l’estrema destra, e facciamo anche un’esperienza musicale-cinematografica di cui forse vi riparlerò. Alla fine di questa bellissima vacanza di tre giorni, mio padre ammetterà che Berlino non gli piace quanto Parigi, ma che senza dubbio può fornire un bel cambiamento d’aria. “Ça dépayse”, dicono i francesi. Chissà se lo diceva anche la compianta Françoise Cactus, cantante degli Stereo Total, che alla tratta Paris <> Berlin aveva dedicato un album fenomenale.

La mia ultima serata a Berlino la passiamo nella Festsaal di Kreuzberg, che, dopo essere stata rapidamente ricostruita dopo il devastante incendio del 2013 (dicono che prima fosse molto elegante), è oggi una struttura di ferro ultra-razionalista ma che mantiene una sciccheria: i divanetti laterali dove cazzeggiare prima che la musica cominci e soprattutto dove dedicarci a un’attività di grande spessore intellettuale: guardare la gente. L'età del pubblico di stasera orbita intorno alla trentina, sembra abbastanza multi-culturale e la sorprendente ratio 2:1 delle donne rispetto agli uomini è abbastanza esplicativa del fatto che come diciamo noi fiorentini, noti per la nostra raffinatezza, i Vaccines sono un po' un gruppo "da fiche". È un complimento, dai.

Il quartetto inglese è un gruppo navigato che sa fare scelte oculate. Quella di imbarcare nel loro tour Teen Jesus and the Jean Teasers è una di queste: non poteva esserci opening act più ragionato di una band di quattro ragazze australiane che suonano in maniera punk senza essere (troppo) scandalose e in maniera pop senza essere (troppo) commerciali, fresche per giunta dell’album di debutto. L’uguaglianza di genere è ristabilita, le radici dei Vaccines ricordate, il Commonwealth rinsaldato, le nuove leve… Levate, immagino. Una mezz’oretta di “slay punk” (mi rivendico il neologismo) fa piacere a tutti di tanto in tanto. Le aussies sanno intrattenere tra gimmick simpatiche (Cayenne Pepper e i suoi venti secondi di hardcore) e canzoni genuinamente interessanti, sia le più pop (Salt potrebbe essere una collaborazione tra Beach Bunny e Thirty Seconds to Mars: incubo per alcuni, Propuesta Indecente per me), sia le più punk (I Used To Be Fun ha un riffing quasi semplicistico ma funziona bene per mettere in risalto le voci e le bassline che sono la cosa più interessante del gruppo). Ci sono anche momenti più bassi, per carità (la title-track I Love You non mi fa provare granché malgrado le promesse del titolo), ma niente di scandaloso. Alla fine Sono solo canzonette e noi, all’alba dell’attacco dei Vaccini, siamo di buon umore e in quinta fila con una birra piena in mano. Bella performance (la nostra).

I cinque inglesi finalmente salgono sul palco su Live and Let Die di Paul McCartney: aroganza vera (con una sola R). La cosa che ci più sorprende è che, a vari livelli, sono tutti piuttosto bellocci nelle loro camicie stiratissime. “Ma è una boy band invecchiata!” esclama mio babbo. Si, è vero, la prima impressione che fanno è quella, ma quando Justin Young comincia a dimenarsi a destra e a manca col microfono in mano e con un fare istrionico e quasi spiritato, i Vaccines cominciano ad apparire sempre di più come ragazzi della Londra bene, dalla faccia pulita ma con una simpatia malcelata nei confronti della polverina bianca. La presenza scenica del frontman è fenomenale ma è veramente sul filo del rasoio tra l’iconico e l’antipatico: è un attimo a passare da Brett Anderson a Robbie Williams, da Morrissey a Harry Styles. Eppure l’equilibrio è quasi miracoloso e ci tiene incollati a vedere quel che succede. La setlist, pure lei, brilla dei suoi equilibri precari: l’alternanza di canzoni un filino troppo “cheesy” ad altri momenti decisamente emozionanti, in cui il sing-along è incontrollabile, è studiata nei minimi dettagli, anche per far rifiatare il pubblico o colpirlo a sorpresa nei momenti più dubbiosi (Wrecking Bar (Ra Ra Ra) come seconda canzone dopo un singolaccio dell’ultimo disco fa esplodere la sala).

Quello che più causerà dibattito tra me e mio babbo, però, è la gestione del suono. La band suona in una maniera precisa all’inverosimile e ha un volume tanto tanto alto, da ippodromo, con la voce di Young che annega letteralmente nel riverbero e tutta un’altra serie di effetti che ce lo fanno sì sentire bello pieno, ma snaturano un po’ l’umanità della voce. L’equilibrio tra la volontà stadiůůům rock” (impossibile non citare Fenriz stasera) e il senso di intimità che certe canzoni possono trasmettere è anche lui precario ma, a mio avviso, sorprendentemente funzionante. Del resto pure i primissimi Vaccines vivono di questa dicotomia, basta pensare alle ballad di What Did You Expect (Wetsuit tra un po’ la cantava pure la sicurezza): senza messa a nudo non sarebbero interessanti, senza coro da stadio non sarebbero memorabili. Il concerto, perciò, malgrado i suoi previsibili alti e bassi, funziona, e funziona proprio grazie alla maestria che hanno i Vaccines di restare in equilibrio sulla sottile linea che divide il miglior rock e il peggior pop (un altro gruppo che ho visto, sempre con mio padre, operare gli stessi funambolismi? Gli U2 nel 2015!).

Che dire perciò: la serata finisce in fretta e in simpatia, e ha come condimento un bella dose di fanservice. Segnalo in particolare il wall of death più rispettoso della storia che è partito con Teenage Icon e l’accoppiata finale esageratamente ruffiana di If You Wanna e All In White con tanto di luci che si spengono all’ultimo ritornello: una combo di canzoni che chiuderebbe felicemente e con soddisfazione pure un concerto dei Napalm Death. Nell’encore la speranza Norgaard (sempre stata bassa) non si rinnova ma in compenso voglio fare un plauso particolare a Sometimes, I Swear che oltre ad essere una canzone dei Vaccines attuali che ci ricorda quanto i ragazzi, synth o non synth, la musica rock la saprebbero scrivere bene, è anche l’unica canzone della serata a contenere quel “forbidden beat” (ovvero i sedicesimi sul charleston) abusatissimo nell’indie rock inglese. Io lo tollero solo una volta a concerto, ed evidentemente anche loro sono d’accordo con me. Fa piacere.

La mattina dopo mi alzo di buon mattino e passo un’ottima giornata di treno. Non penso che mio babbo sia rimasto estasiato dal concerto, per carità. Ma alla fine, se un regalo è una scusa per passare tre belle giornate insieme, chi se ne frega. È questo il bello del regalare concerti: nel peggiore dei casi si è passato un buon momento in compagnia. Anche qui, si tratta di un equilibrio su una sottile linea, tra la generosità estrema e la pigrizia da scanfatiche.

Ci vuole una certa classe per stare in equilibrio su una sottile linea. I Vaccines ce l’hanno. Io non lo so, ma va bene lo stesso.

 

Soulwax – La febbre della domenica sera

Soulwax live @Elysée Montmartre, Parigi, 28/01/2024

Il karma della FOMO, a fine mese, mi ha ricompensato. Quei Soulwax in doppia serata soldout pure loro mi avevano fatto rosicare un bel po’, ma trovare dei biglietti è stato talmente facile che non c‘è nemmeno stato troppo gusto. Addirittura, due giorni prima mi si sblocca pure la fila d’attesa di Dice (pensavo che fosse una leggenda metropolitana). Dico a Lauren che l’opportunità è ghiotta e riesco pure a cooptare la mia accompagnatrice di concerti preferita. Grazie, karma della FOMO!

Ora, la rosicata se non fossi riuscito a vedere i Soulwax non è tanto dovuta a una mia profonda passione per loro. Anzi, sarò onesto al 100%: come per gli Psychotic Monks o gli Slowdive, io i Soulwax li ascoltavo davvero poco. In compenso, è da quasi un anno che sono ossessionato con i mix del loro side-project, 2 Many DJs, dove la musica house e la cultura popolare si sposano, sì, ma ubriache a Las Vegas. L’abbondante e variegato materiale dei due DJ, microcosmo anche noto come Radio Soulwax, è diventato una mia piccola oasi di benessere, lo ascolto molto spesso e ha pure parzialmente ispirato il concept della band in cui suono, nonché la nostra prima cover… Insomma, i fratelli Dewaele per me sono leggende, e sapere di perdermi un concerto in cui posso vedere dal vivo gli ideatori del mash-up No Fun / Push It (The Stooges / Salt-N-Pepa) mi avrebbe fatto male. Aggiungici il fatto che con loro suona la batteria nientepopodimeno che il mio secondo batterista thrash metal preferito (il primo è Dave Lombardo), ovvero l’esiziale Igor Cavalera dei Sepultura di cui amo sia la musica (lo skank-beat di Beneath the Remains penso che non me lo spiegherò mai) sia la persona (ma quanto è bello il video in cui spiega Refuse/Resist?). Per finire la lista di ragioni per cui mi sono sentito in dovere di andare a vederli c’è anche l’iconicità della band e il loro status di aggeggiatori sperimentatori ormai quasi mitologico: Tommaso, che i progetti “elettronici ma venati di rock” e “sperimentali ma ascoltabili” li conosce tuttissimi, penso che percepisca i Soulwax come delle leggende. E non solo lui.

Presi questi ambitissimi biglietti, me ne vado a Berlino e viste le diciotto ore di treno tra anda e rianda mi esploro meglio la discografia, che senza sorprese adorerò e per giunta in tutte le varie fasi delle loro carriera, seppur Any Minute Now del 2004 sia l’album che più rientra nelle mie corde. La club music che si insinua nel rock, a due che hanno anche solo pensato un mash-up 9 to 5 / Eple (Dolly Parton / Röyksopp), non poteva riuscire male, e infatti funziona benissimo. Ma anche le uscite più radicalmente elettroniche tipo Nite Versions del 2005 o From Deewee del 2017 hanno momenti altissimi, in cui i due fiamminghi di Gent sono veramente assimilabili a dei Daft Punk in versione Benelux, meno piacioni e più geek. E che piacere immenso perdermi in questi ascolti proprio mentre, con l’Eurostar, mi godo i paesaggi di questa terra promessa, coperta di neve e di bellezze straordinarie come la stazione di Calatrava a Liegi o ancor meglio alcune centrali eoliche che in Francia farebbero morire di crepacuore tutti i nostri prefetti retrogradi e bigotti. I concetti cripto-fascisti di “nocività”, “distanza di sicurezza” o ancora “integrazione paesaggistica” qui non esistono. Che gran popolo, i benelussi.

È domenica e i cancelli aprono alle 19 ma io e Lauren abbiamo trattato il pomeriggio come se stessimo facendo un “pre-game” per una serata in discoteca a mezzanotte. Quando arriviamo all'Elysée Montmartre (in cui per una lunga serie di sfighe non sono mai riuscito ad andare) ci troviamo davanti una sala enorme, molto più moderna e minimalista delle sue sorelle (Trianon, Cigale etc.), ma che mantiene un retrogusto Esposizione Universale 1889, con i suoi porticati di ferro battuto e l'elegante parquet. Siamo tra i primi ad arrivare, ma per me è come se lo spettacolo fosse già cominciato, perché dalle casse esce dell’esoticissimo materiale di Radio Soulwax. Mi ritrovo a ballare, da solo in mezzo a una gigantesca pista da ballo vuota, un mashup di In My Eyes dei Minor Threat e Banned in DC dei Bad Brains pieno di “chops” favolosi (l’ho anche ritrovato: il mix si chiama Hardcore or Die del 2011, ed è bellissimo). Per chi mi chiedesse ancora a cosa serve arrivare ai concerti così presto, ecco una risposta.

Abbiamo una discreta cazzonaggine addosso (“la connerie”), forse perché di rado ci capita di andare a concerti di musica iper-danzereccia. Ammazziamo il tempo con stupidità e coi classici “shenanigans” che ormai sono elemento fondante della nostra amicizia, tipo le imbarazzantissime pacche sulle spalle alle ragazze alla “my friend thinks you’re cute”, i colpi di capoeira a sorpresa e le coreografie spazialmente ingombranti, perciò gli opening act (abbastanza all’acqua di rose) passano in fretta e noi ci facciamo anche un po’ notare. Se la performance dei Natasha, duo di DJ di Gent, può anche avere un simpatico sapore di passaggio di testimone (a un certo punto hanno pure passato un pezzo che sta su As Heard on Radio Soulwax Pt. 2, Disko Kings mi pare), il duo Asa Moto, composto da una sorta di cantante/MC e una sorta di strumentista/tuttofare non convince appieno con le sue canzoni pseudo-trip-hop un po’ mosce e senza direzione apparente. La gente, come al club, arriva piuttosto tardi ed è solo quando cala il silenzio che annuncia il main act che la densità umana comincia a farsi sentire. In compenso, il sold-out non è di quelli straripanti che si vedono da altre parti. Di fatto, hanno venduto abbastanza biglietti da riempire la sala, ma permettendoci anche di stare larghi a sufficienza per poter avere un pochino di mobilità.

Il momento tanto atteso è finalmente arrivato e già dal setup si preannuncia un concerto ambiziosissimo: tre batterie sopraelevate, quattro synth con dei controller “di design” mostruosamente grandi, un paio di strumenti mai visti prima (il vibrafono elettrico verticale mi mancava), il tutto un po’ per dire: qui non si scherza mica. Roba seria, insomma, ed effettivamente quando la band monta sul palco si nota che la concentrazione è altissima, le frequenze calibrate alla perfezione, le parti di batteria composte con una cura maniacale. Una minuscola delusione di inizio concerto c’è ed è la constatazione che forse, tutta questa ricerca della perfezione va un po’ a discapito dell’energia. Va detto che però, a compensare questo deficit, ci sono un reparto sonoro penetrante e luci formidabili che riescono a mantenere l’effetto goduria.

Mi concedo un secondo appunto negativo, ovvero che certe scelte sono state forse troppo ambiziose: con tre batterie simultanee, seppur suonate alla perfezione, l’effetto “flam” è inevitabile quando le pelli non vengono colpite nello stesso millisecondo, rendendo talvolta un po’ sdrucciolevole la prestigiosa sezione ritmica. Certo è che quando Igor Cavalera dopo una decina di minuti attacca l’intro di batteria di Missing Wires è impossibile non provare cose, e a partire da quel momento mistico che risveglia i demoni ancestrali del mio metallaro interiore il concerto comincia a risalire la curva della gasazione in maniera esponenziale. Is It Always Binary ad esempio è riuscitissima, con il batterista brasiliano a capo della batucada futurista di stasera e i loro intrecci di assoli e quando subito dopo parte il capolavoro electro Krack (da Nite Versions) viene voglia di saltare fino al soffitto a ritmo del suo leggendario drop. “Filthy bass, bro”!

Perciò, tra headbanging e balli da discoteca parecchio burini, il concerto avanza a un ritmo incalzante e il divertimento è esagerato. Le pause sono pochissime e la miscele di canzoni a effetto “continuous mix” funzionano sempre bene. Del resto, i fratelli Dewaele restano DJ nati pure con il basso in mano o le dita sulla tastiera. C’è anche tanto di cui cantare, visti i tantissimi pezzi da From Deewee (splendido il wonky di Do You Want to Get Into Trouble?) e altrettanti dall’epoca Nite Versions. Le versioni di quest’ultimo album vengono spesso preferite a quelle più rock di Any Minute Now. Non ce ne si può lamentare, perché nella forma mentis da clubber ormai ci siamo dentro fino al collo: Another Excuse è ipnotica e trance come non mai, Miserable Girl nella versione di stasera è zozza all’inverosimile e E Talking ha una linea di basso che sconquassa le zone pelviche di ogni singolo membro della massa di corpi sudati che sembra muoversi a rallentatore sotto alle luci stroboscopiche dell’Elysée Montmartre.

Quando l’elegante ritmo da chill-out di Goodnight Transmission chiude la serata, la soddisfazione è palpabile. Per una buona ora e mezza, il club ultra-inclusivo dei Soulwax ha accolto con eguale accoglienza nerdoni come me e discotecari navigati e pure belli “alti” (il popper che circolava a due file da noi, in fondo, è una nota di colore: scene che non vedevo da tempo). Effettivamente, chiacchierando con la gente all’uscita, c’era di tutto: appassionati di techno delusi dall’assenza di I Love Techno e intellettuali occhialuti che rimembravano di aver visto la band quando ancora veniva considerata indie rock e a cui avrebbe fatto piacere sentire una Too Many DJs.

Una cosa la noto: sono in pochi, me compreso, a dirsi soddisfatti al cento per cento dal concerto. Sarà che forse, come Icaro, i belgi hanno volato un po’ troppo vicino al sole. In compenso, tutti si sono divertiti tantissimo e soprattutto sono contenti di aver passato la loro domenica sera a ballare fino a diventare madidi. “Sunday is the new saturday”, dice a un certo punto il buon Stephen Dewaele, e secondo me ha ragione.

Era una settimana fa, e nonostante tutto, la voglia di ascoltare i Soulwax non ha fatto che crescere. È lunedì, sono in ufficio e decido di mettere su Accidents and Compliments. Al concerto di domenica scorsa, era stata l’ultima canzone “spingiona” della serata. Appena attacca, la sensazione della testa che ondeggia a ritmo di cassa dritta mi ritorna dentro, provocandomi ancora lo stesso piacere.

È proprio vero che “part of the weekend never dies”.