Demon Lover - Rookie Technique (USA, 2019) |
Se vi chiedessero di andare a vivere un anno all'estero e vi dessero una
lista che contiene duecento delle città più importanti del mondo, ma vi
dicessero che ognuna di queste ha posti limitati e che i più meritevoli di voi
vi passeranno davanti, che città scegliereste?
All'università, quando si trattò di organizzare il mio anno di scambio all'estero, è proprio quello che successe. I fattori da tenere in conto, davanti a una decisione del genere, sono molti: qualità della vita, irripetibilità dell'esperienza e, visto che ero uno studente ok ma di certo non brillante abbastanza da riuscire a finire in una Rio de Janeiro o in una Tokyo, anche la popolarità della destinazione nei confronti della concorrenza. Ci riflettei su per mesi e mi dissi che il momento era propizio: dovevo andare negli Stati Uniti. Lo stesso Milo era andato al college e ora ne avevo anch'io l'occasione. La California la esclusi subito: troppa gente più quotata di me avrebbe voluto andarci, e non solo a Los Angeles ma anche a Oakland o simili. New York, Miami, Washington, stesso discorso. Dovevo agire di strategia e puntare a luoghi che le masse non trovassero propriamente esotici e stimolanti, ma io sì. E, siccome per anni ero stato appassionato dell’emo e dell’indie rock di quei luoghi, decisi di puntare sul Midwest.
Ci misi un bel po’ a decidermi sulla città in questione. Chicago? Troppo
ambita. Detroit? Troppo estrema. Indianapolis? Troppo rozza. Columbus? Troppo
noiosa. E non mi feci tentare nemmeno dalle più blasonate “college town”
sparpagliate nella regione, per quanto seducenti potessero essere (penso a Urbana-Champaign,
dove tra l’altro si trova la Casa Bianca degli American Football). No, le mie
velleità da urbanista e le mie passioni musicali volevano una vera grande città
americana, magari anche in declino, ma che avesse una storia gloriosa, facesse
voglia a pochi e potesse regalarmi un anno di vera immersione nel cuore della
cultura popolare che mi aveva cresciuto. E la trovai: St. Louis, Missouri.
Una lista delle numerose cose affascinanti che avrei potuto trovare in
questa città incredibile mi scorse subito davanti agli occhi, con la stessa
cadenza ritmata con cui scorrono le note di The Entertainer di Scott
Joplin, che fu scritta proprio lì. Vibrazioni da “rust belt”? Check: nel 1950
la popolazione di St. Louis era di 850.000 persone, oggi siamo sulle 300.000. Americanità
pura e coatta? Check: basti dire che è la città dove si trova la sede del
marchio Budweiser. Vita universitaria frizzante? Check: gli sceneggiatori di
Animal House sono tutti diplomati all’università che avrei frequentato, perciò venvia,
di che si ragiona. Continuiamo: un contesto politico e sociale singolare e
interessante? Check: St. Louis è una delle pochissime città della regione con
tanti bianchi quanto neri, Black Lives Matter è nato qui. A proposito, cultura
nera? Check: siamo nella città del blues per antonomasia, dov’è nato e
cresciuto Chuck Berry, dove Miles Davis ha cominciato a suonare la tromba. Insomma,
c’erano un sacco di cose ganze e nuove da scoprire. In quanto alla scena underground, andai a St. Louis ad occhi chiusi dicendomi che diavolo, siamo in una
città nel Midwest che brulica di musica, qualcosa dovrà pur offrire la piazza.
Trust the
process. E mi diede buoni frutti.
***
Sarebbe successo comunque, ma amo pensare che fu un caso se, alla fine,
finii per entrare nello staff della radio di quella Washington University che
frequentavo un po’ all’acqua di rose, com’è giusto che frequenti uno studente
in scambio. Oltre ai corsi un po’ esotici che seguivo, tipo urbanistica
americana, arte contemporanea o teoria dell’improvvisazione jazz, mi dilettavo
ogni giorno in svariate attività divertenti ed interessanti: coi miei
coinquilini andavo a spaccarmi di cibo locale, dagli italo-americani del
quartiere The Hill (hanno inventato i ravioli fritti: geni) o in ristoranti BBQ
o messicani iconici nel movimentato Delmar Loop (una sorta di Sunset Boulevard
dal PIL dimezzato); con la classica banda di matti festaioli che sono gli
studenti internazionali giravamo per discoteche finendo a volte, per puro caso,
in serate di musica elettronica di alto livello (del resto la house l’hanno
inventata 250 miglia più a Nord, la techno 450 a Nord-Est), ma anche in luoghi
più spartani dove nonostante la selezione dei brani non fosse proprio raffinata
potevamo ballare i grandi successi e godere della club culture (“or lack
thereof”) più scialla del mondo (meno Berlino, più US of A!); nel tempo libero,
anche in solitaria, mi dedicavo ad altri intellettualismi: frequentare il club
degli scacchi della città (uno dei più quotati al mondo, frequentato sia da
Masters raffinatissimi che da ruspanti “trash talkers” infernali nel Blitz
5+0), o ancora bazzicare per i concerti jazz che venivano organizzati, da
professori o da sconosciuti, in strutture universitarie o in club sparsi per i
quartieri più “hip” della città. La vita, però, non sarebbe stata completa
senza KWUR, Clayton, 90.3 FM.
Mi sarebbe passato per la testa, a un certo punto, di provare a diventare
un DJ radiofonico per questa piccola emittente gestita dagli studenti che per
carità, diffonde su un raggio abbastanza limitato (mi pare che non arrivasse
nemmeno a Downtown), ma è comunque una “college radio”, e dunque un oggetto
iconico? Forse sì, forse no. Di sicuro fu determinante l’intervento di Dylan,
DJ di KWUR già navigata che un giorno attaccò bottone dal nulla con me e Leon il
tedesco (l’unica altra persona che, dalla mia università, aveva scelto St.
Louis) perché, a detta sua, “avevamo l’aspetto di gente che ascolta indie rock”.
Fu lei a dirmi di venire negli studi della radio, dove mi innamorai della leva
del volume del mixer (l’unico strumento che uso nei miei saltuari cosiddetti
“DJ-set”), dove mi accorsi che le frasi a effetto per parlare di musica non mi
mancavano e, insomma, dove scoprii una vocazione di breve durata per la radio. Ma
non si diventa DJ a KWUR così, da un giorno all’altro: non basta chiedere,
bisogna dimostrare. Per avere il mio semestre di programma radiofonico prima
dovevo riuscire a finirne uno pieno di obiettivi da raggiungere, missioni da
completare e lavoretti da eseguire per conto di KWUR. Affare fatto.
Inutile a dirsi, i vari piccoli compiti che l’emittente proponeva ai
cadetti mi divertivano tantissimo. Osservazione e assistenza ai DJ durante le
loro trasmissioni? Momenti gradevolissimi di reciproca compagnia e condivisione
musicale, condita magari dalla lettura di “public service announcements”
(obbligatori per legge: io di solito sceglievo quelli in spagnolo per le
comunità latine), e magari a volte il residente ti lasciava anche lo spazio per
mettere un paio di pezzi (prima canzone suonata alla radio in vita mia?, Baby Soldato durante il programma di Dylan). Andare agli eventi di KWUR? Una
bellezza: mi capitò di presenziare a concerti memorabili nelle venue
“istituzionali” della città, tipo i Ratboys che suonarono nel sotterraneo di
uno dei diner di fiducia, il Blueberry Hill, ad ottobre 2019 (sì, gli stessi
Ratboys che quest’anno si sono beccati un bel 7+ in pagella al Primavera
Sound), anche se in realtà i miei preferiti erano i “basement shows”: piccole band
itineranti che a Firenze avrebbero potuto riempire le sale storiche della
città, talmente il loro sound era speciale e coinvolgente, che suonavano in dei
letterali scantinati e alla fine chiedevano cinque dollari per la benzina e se
ne andavano via in furgone. Vidi dei gruppi fantastici: ne cito tre, in ordine
di successo crescente: da Chicago, Illinois, The Roof Dogs, il punto di
congiunzione tra Wire e Beach Boys (volete la prova? Stuart Hugues (And All His Blues)); da Austin, Texas, TC Superstar (dove TC sta per Toyota Corolla), l’unico
gruppo dance-pop che conosce i segreti della levitazione; da Boston,
Massachusetts, Horse Jumper of Love, pochi mesi prima di diventare uno dei più
grandi fenomeni slowcore mondiali (ironia della sorte: mi piacquero molto ma
non da diventarne matto, e di quel concerto ormai ricordo solo Bagel Breath
che dal vivo comunque mi frastornò). Anche le “local bands”, relegate al ruolo
di opener o protagoniste di concerti ancora più piccoli ed intimi, spesso e
volentieri regalavano gioie immense. Ne cito tre, in ordine sparso: Dewdrop, il
gruppo indie pop lo-fi più jazzettoso che esista (qualcuno trasformi Sofa Blues
in uno standard, vi prego); Kids, che si definivano “clean punk” e mai
definizione fu più giusta per la loro musica raffinata e violenta (in un mondo
giusto The Explosion è la canzone-manifesto dell’indie punk tutto);
Pealds, dove suona Dylan, una band di shoegaze contemporaneo come piacciono a
me: su disco piacevoli sottotesti digitali, dal vivo invece solo sconquasso
(all’epoca mi piaceva tanto Melted, ma segnalo una Petition to Cancel Capitalism che, ad agosto inoltrato, è stabile nel mio podio di migliori
singoli del 2024).
Mi accorsi dunque che per diventare DJ di KWUR bisognava soprattutto conoscere
i suoi membri, la scena musicale di St. Louis, i gusti della gente che
frequentava quell’humus culturale straordinariamente florido, in sostanza essere
un minimo “inseriti”. Ci riuscii con estremo piacere, mosso da quell’attitudine
da straniero sbarazzino che ancora oggi alla bisogna rispolvero quando voglio integrarmi.
Ma non bastava: bisognava anche rispettare le regole. E una di queste,
purtroppo, mi stava stretta: una volta diventati DJ, bisognava suonare almeno
due pubblicazioni recenti all’ora, e io volevo avere un programma di sola
musica degli anni ‘90. Come avrei potuto derogare a questo diktat? Uno,
pregando in ginocchio di esserne esentato. Due, facendo capire che me lo
meritavo.
Tra le corvée che l’aspirante radiofonico incontra nella sua scalata verso
la gloria ce n’è una che riguarda proprio le “new releases”. Le etichette,
perlopiù quelle importanti e influenti, e gli artisti, perlopiù quelli
sconosciuti e autoprodotti, mandano alle radio i loro dischi più recenti con la
speranza di essere ritrasmessi, ma i DJ risparmiano tempo se qualcuno li ha già
informati brevemente sugli album in questione, ed ovviamente questo compito
spettava a noi tirocinanti. Durante il semestre, dovevamo passare dallo studio,
prendere un CD dalla cassetta della posta in entrata, ascoltarlo a dovere e
rimetterlo nella scatola dei recensiti, non prima di aver riempito il succinto
formulario che gli era allegato. A quel punto, il DJ ha vita facile quando deve
suonare una new release. Fruga nel cesto, tira fuori Anak Ko di Jay Som (che
meteora che fu ‘sta qua…) e legge:
“Genere
-> Indie pop.
Commento -> Personalmente, oramai mi rifiuto di fare commenti
positivi a queste musichette finto intimiste con la produzione finto bedroom.
Non ha bassi, ma non ha nemmeno alti. Monocorde e lagnoso.
Consigliato se già ti piacciono -> Mac DeMarco, Soccer Mommy, Boy
Pablo.
Traccia migliore -> Nessuna, ma la 2 ha un po’ di brio.
Firmato, Reric”
e a quel punto sa benissimo che il suo pubblico a caccia di indie vibez
apprezzerà la traccia 2, perciò la mette. Al contempo, se tira fuori Echo di
Glimr (chi?) e legge:
“Genere
-> Alternative rock.
Commento -> Se la jam band del dopolavoro dei papà, invece dei
Grateful Dead, avesse come pilastro del suo suono il post-hardcore dissonante. Eroico
e commovente.
Consigliato se già ti piacciono -> Hot Snakes e Hüsker Dü ma suonati
con l'attitudine dei Pink Floyd.
Traccia migliore -> 1, 3.
Firmato, Reric"
sa già che gli conviene evitare di bruciare "air time" con i sei
minuti e trentasette di un pezzo come And My Head Hit the Walkside,
talmente lungo, rumoroso e di nicchia che farà cambiare stazione radiofonica
alla metà della gente all'ascolto (scherzo, spacca).
Capii subito che, per evitare la tassa delle nuove uscite al secondo
semestre, durante il primo sarei dovuto essere il capo, che dico, il re,
l'imperatore delle new releases. Per diventare un DJ di KWUR bastava coprirne
4. Ne recensii 19. Tra tutta la roba che capitava lì in mezzo c'era veramente
di tutto: i nuovi cavalli di scuderie come Merge e Sub Pop accanto a CD
strapieni di brani techno che duravano sempre almeno il doppio in più del
necessario, dischi nu-metal sconosciuti e repellenti con grafiche dettagliatissime accanto
a gruppi jazz ancora più sconosciuti con copertine fatte su MS Paint in quattro
minuti ma che suonavano come Chick Corea. Estraevo i dischi dal lotto un po’ a
casaccio, a volte basandomi sull’aspetto estetico, a volte sulla fama
dell’artista o dell’etichetta, a volte frugando con le mani a occhi chiusi e
prendendo quel che capitava. Una regola personale però la avevo: mai prendere i
dischi che stavano in una sleeve bianca con il nome scritto sopra con la penna.
Era una regola di buon senso, dopotutto: nel 90% dei casi, tanto, avrei pescato
un tizio che ragiona mentre suona accordi banali alla chitarra, avrei scritto
che non ha niente di speciale e nessuno l’avrebbe mai suonato alla radio. Low
risk, low reward.
Capita, però, un giorno poco ispirato. Il piacevole calore estivo del
Midwest se ne sta andando, e la fine della stagione del baseball annuncia solo
una cosa: l’inverno più freddo della mia vita (“It often gets below zero
here!”, dicevano; vabbè, che sarà mai; Fahrenheit). Ancora non siamo affatto ai
livelli siberiani che mi si preannunciano ma i primi grigiori autunnali, le
giornate un po’ più brevi, forse anche un ennesimo hangover dopo una serata
dalle troppe bottiglie di Bud in posti tipo Mike Talayna’s Juke Box Restaurant
(per gli amici, “T’s”), mi portano ad approcciare il cassetto delle new release
con addosso un po’ di sfavo. Non ho voglia né dell’ennesimo indie rock innocuo
che le etichette blasonate mi avevano già anche troppo propinato, né tantomeno del
piattume di dischi elettronici professionali ma a destinazione degli addetti ai
lavori. Fu questa congiuntura che mi portò, una volta per tutte, a posare gli
occhi con più attenzione del solito sull’annotazione a penna di uno dei tanti
CD amatoriali bianchi. Leggo la scritta in stampatello: “DEMON LOVER - ROOKIE
TECHNIQUE” e mi dico: ma sì, un album a sorpresa, perché no.
Prendo e torno a casa. Infilo il disco nel computer, estraggo in wav,
carico sul lettore mp3. Dal mio dormitorio al supermercato Schnucks sono 25
minuti a piedi, per fare la spesa me ne bastano 20 e il disco dura 45 minuti,
perfetto. Metto su e comincio a camminare per il campus, poi giù per il Big
Bend Boulevard, mentre la musica ritma i miei passi in questo spazio suburbano rassicurante, tra i parchi e i fili del telefono.
***
Primo ascolto: c’è qualcosa che non va. La batteria è fuori tempo? Non
riesco a capirlo. C’è una chitarra o no? Non lo so. L’overdose di suoni
digitali è calcolata o aleatoria? Non sono sicuro. Le drum machine sono
raffinate o scadenti? Difficile a dirsi. E ancora, quanto sono strani questi
testi? Hanno una struttura sensata ‘ste canzoni? Che genere di musica è? Mi
piace o no? Il disco finisce e non ci ho capito niente. Esco da Schnucks e passo
da Walgreens, la farmacia. Mi faccio controllare la data di nascita sul
passaporto, chiedo al commesso di allungarmi quattro pacchetti di Pall Mall Red
e lui me le estrae da uno scaffale pieno di sigarette che troneggia
insolentemente in mezzo alle medicine. Esco, me ne accendo una, rilancio Rookie
Technique e risalgo il vialone alberato. Secondo ascolto: è uno dei dischi più
strani che abbia mai ascoltato. Arrivo nella mia stanza, mi siedo sul letto, la
schiena appoggiata contro il muro. Terzo ascolto: è uno dei dischi più geniali
che abbia mai ascoltato.
Nei giorni a seguire riascolto Rookie Technique varie volte. Soprattutto,
provo a informarmi riguardo ai Demon Lover, senza successo: non c'è niente al
di fuori di un paio di pagine social media riempite di post insensati sputati
con nonchalance, spesso contenenti due parole soltanto (“Double Funeral”, “Dim
Sum”, “Trop Rock”, “Oh Ya”, “Rookie Technique”). Persino gli annunci degli
sparuti concerti (l’ultimo data del 2016) sono scritti con una sciatteria
talmente esagerata da risultare frutto dello sforzo di una non-direzione
artistica. Su chi siano questi personaggi sconosciuti, dopo il mio primo
“digging”, ne so ancora meno di prima (tranne che sono di St. Louis: quello lo
dicono dappertutto). Confesso la mia nuova ossessione a Dylan, che nel
mentre è diventata un po’ una sorella maggiore del mio soggiorno statunitense (con
tanto di posto a tavola pronto per thanksgiving, ancora grazie <3) e persino lei, una
St. Louisian fatta e finita, mi dà una risposta quasi elusiva, una roba tipo:
“Oh, yeah, Demon Lover’s cool”, per poi cambiare argomento. Perciò, alla fine,
non mi resta molto: soltanto la loro musica, e ovviamente il loro Bandcamp,
l’uno a immagine e somiglianza dell’altro: entrambi strani e misteriosi, ma
anche giocosi e sfrontati.
I Demon Lover di Rookie Technique sono Rage Hamon (che canta) e Andy
Lashier (che smaneggia), accompagnati dal batterista Mike Herr, e si raccontano così:
“Check
out the sounds of the future rock.
October: Let your headlights shine
November: It will all be over in a flash
December: Maybe don't get out of bed today, but if you do, wondrous things must
surely happen
January: etc”
Cose da annotare su questa descrizione: uno, se consideriamo che l’anno era
il 2019 e che da gennaio 2020 si cominciò a parlare di un coronavirus che per
qualche mese sembrò la frattura finale della contemporaneità, questa sorta di
haiku sbagliato colpisce nel segno; due, che inventare il nome di un nuovo
genere musicale era necessario anche a detta degli stessi autori. Arriviamo
dunque al nocciolo del discorso: come sono le canzoni di questo benedetto
album? Per prima cosa, sono canzoni. E sono tutte abbastanza orecchiabili. Lo
dico perché, al primissimo impatto, è impossibile non vedere Rookie Technique
come un esercizio di poliedricità post-modernista.
Prendiamo KOOL GOOD, l’opener nonché unico singolo del disco (con
tanto di video-clip, uno strano collage acquatico). Pur avendo una sensibilità
melodica degna di un grande successo indie rock radiofonico, con tanto di vocalist
suadente e una linea di basso ombelicale, la canzone mantiene un impianto
sonoro molto destrutturato e lontano dalle norme della musica pop tutta. Sarà
l’effetto di finto feedback che apre la canzone e si disperde in una
pioggerellina di synth che suonano come un cabinato arcade mai esistito, sarà,
soprattutto, la batteria suonata live (non ce n’era bisogno, ma ce lo dice
anche Bandcamp), che ha un effetto “wonky” quantomeno bislacco… tutto mi
riportò, anche solo implicitamente, al microcosmo degli artisti della nuova,
futuristica, ondata di glitch e IDM dell’epoca: gente come Ash Koosha e
Oneothrix Point Never, di cui epopee elettroniche come GUUD o Garden of Delete
(entrambi del 2015) mi avevano recentemente espanso il cervello senza alcun
bisogno di molecole di sintesi. In compenso, Demon Lover apportava due cose
nuove a questa sensazione di fine della storia: un impianto rock accattivante e
una musica che, a differenza di quella dei visionari sopracitati, non sembrava
suonata da macchine costose ma, anzi, da mani destabilizzantemente umane. ROOKIE TECHNIQUE, title-track liminale (come poteva essere all’epoca la musica, ad esempio, di un James
Ferraro), esplicita benissimo questo concetto: le drum-machine e la batteria
acustica giocano a faticare a starsi dietro l’una all’altra, mentre il sample vocale
che articola il titolo dell’album, ossessivo e istantaneamente iconico (nonché
unico elemento che ritorna più volte durante tutta la durata dell’album),
martella fino a disumanizzarsi. La dichiarazione di intenti è chiara: “Please
believe concrete musique, with my rookie technique”, dicono i ragazzi di St.
Louis strizzando l’occhio alle tradizioni di musica intellettuale che
interrogarono il rapporto tra uomo e macchina (in sottofondo, registrazioni di
voci di bambini: un omaggio-sberleffo a Karlheinz Stokhausen?), rivendicando un’amatorialità
che è anche finezza e lasciando al contempo la tensione del groove alta, tra
stoppate e finti finali, per rendere l’ascolto coinvolgente.
Ciò che è speciale di Rookie Technique, per l’appunto, è che appare
concettuale e sofisticato ma è in realtà divertente e piacevole. E il comparto
strumentale riflette quest’essenza: sembra che ci siano tantissimi elementi, ma
in realtà, anche se i dettagli da carpire sono pressoché infiniti, non ci sono poi
molti strati sonori. È il caso della festiva UH HUH YA, un finto,
forsennato math-rock, suonato da due synth e una batteria contorta come
potrebbe essere quella di Greg Saunier dei Deerhoof, che sfocia in una danza
sintetica quasi talking-headsiana (“We get loose like this!”), o ancora di DREAM CONTROL (feat. RA CHILD), favolosa discesa in reami dove la psichedelia e
gli stilemi dell’hip-hop e R&B si abbracciano, in una cavalcata sensuale,
sognante e arricchita da ottoni dal retrogusto soul che, pur restando nel pieno
stile sghembo e allucinato della band, anticipa di molti anni un’ondata che
solo oggi è molto alla moda (per capirsi quella di Let’s Start Here di Lil
Yachty, o di molte sezioni dell’ultimo, fotonico, I LAY MY LIFE DOWN FOR YOU di
JPEGMAFIA).
Le canzoni si susseguono con grande naturalezza e, pur avendo una loro
parte di “shock value”, finiscono sempre per essere amichevoli, pezzi che, dopo
ripetuti ascolti, si è grati di conoscere bene: ogni fill di batteria, linea di
basso, coro femminile o effetto sonoro della rilassante NOKIA (feat. DUBB NUBB), ad esempio, è talmente idiosincratico da comunicare un sentimento di
simpatia e intimità, in una dolce virata su lidi adiacenti alla downtempo o
persino alla chillwave (parola che all’epoca andava molto) non privi tuttavia
di stranezze e abrasione. Persino gli interludi, abbondanti in tutto l’album e
soprattutto nella sua frammentaria fase finale, hanno il valore di canzoni a sé
stanti: è stupefacente la maestria con cui melodie pop di classe troneggiano
sulla dissonanza in TERRAFORMER (feat. ANTONIO LEONE) (chi sarà mai
questo tizio che fa le doppie voci in italiano?, magari un “exchange student”
come lo ero io), o ancora il dadaismo post-adolescenziale della micro-jam di SK8RZ IN LOVE. Persino il brevissimo SUCK A FREE INTERLUDE (feat. SAMMO), un
passaggio electro elegantissimo che non sfigurerebbe in un album dei
Disclosure, irride, mostrando a che punto la Tecnica dei Principianti nasconda,
dietro alle volute stortezze, una vera maestria.
La chiusa dell’album è una lectio magistralis di sfrontatezza: dopo densi
minuti di scontro tra l’umano e l’elettrico, arriva XUXA, una bossa nova
acustica, anch’essa ricca di elementi, ma questa volta tutti analogici, che
porta l’ascoltatore da atmosfere quasi distopiche direttamente su una spiaggia
deserta in Brasile. La dolcezza straordinaria di questa canzone
inaspettatamente retrò e dai numerosi riferimenti alla cultura popolare (non
solo la citazione a Mas que Nada di Sergio Mendes, ma anche alla stessa
Xuxa, controversa diva della TV brasiliana) sembra quasi suggerire che la
famosa e intraducibile “saudade” è un sentimento tipico del tardo capitalismo.
Neanche il tempo di riprendersi da questo schiaffo di delicatezza che il ROOKIE INTERLUDE viene a ricordare con insolenza anche solo l’esistenza del
concetto di concept album, prima di lasciare spazio al capolavoro finale SOFT
& WET che, come l’opener, ha un’orecchiabilità e una potenza rock
esagerate (anche delle eco di Casablancas, più Voidz che Strokes) e al contempo
un sostrato di stranezza e pastosità che danno una perversione subdola al
sottotesto erotico della voce e del testo. Per un’ultima volta e come non mai
prima d’ora, Demon Lover ti prendono per lo stomaco con il loro sound contorto e il groove maestosamente imperfetto della batteria, fil rouge di sregolatezza
controllata che percorre tutto l’album, e alla fine resta da solo a ritmare gli ultimi colpi di un’esperienza
sonora unica nel suo genere.
Ho ascoltato Rookie Technique fino allo sfinimento, fino a conoscerlo come le
mie tasche, e nonostante ciò è rimasto, nel mio immaginario, un disco quasi
intimidatorio. Lo trovo talmente creativo, intelligente e ben calibrato che per
molto tempo l’ho in un certo senso “sovraumanizzato”. L’ho sempre visto infatti
come un disco a sé stante, un monolito che esiste perché esiste, generato non
creato, uscito da un big bang immaginario che ha avuto luogo, per l’appunto, nelle
profondità di Bandcamp in cui da sempre vive. Non solo ho accantonato per anni
il mio spirito investigativo, evitando di cercare informazioni supplementari
sulla band, ma addirittura ho disdegnato, se non per un paio di tentativi, l’ascolto
della produzione di Demon Lover che ha preceduto il disco del 2019.
Depths of Bandcamp è perciò la buona occasione che concedo a me stesso per
donare una dimensiona più concreta e umana ai Demon Lover. Ad esempio, ho riascoltato
di recente i primi due lavori con Sammo Meyer alla batteria, Spooky Routine del
2013 e il suo “sister album” Moody Future del 2014. Il primo è un disco di
garage rock lo-fi fulminato, elettrico e dalla consecutio temporum claudicante,
l’altro una collezione di quadretti sonori cubisti ancora più allucinogeni e
sparpagliati, dalla vena a volte sintetica a volte punk e scassona. Non mi
convincono del tutto: a tratti sanno essere interessanti ma mai coinvolgenti
come il microcosmo ai limiti del fantascientifico di Rookie Technique. Alla
fine, decido anche di scavare un po’ più a fondo e viene fuori che, anche se
criptici, i Demon Lover sono tutto tranne che misteriosi: se uno vuole e sa
fare lo stalker, può trovare persino materiale audiovisuale delle spartane sessioni
di registrazione di Rookie Technique. L’unico vero punto interrogativo è che
cosa ne sia stato (o ne sia) della band al giorno d’oggi: non ci sono né
concerti né comunicazioni, ma nemmeno un’ufficialità di scioglimento. Non escludo il ritorno.
***
Sono passati cinque anni da St. Louis, cinque anni da Rookie Technique, e sembra
ancora ieri. Cinque anni che questo album mi stupisce ogni volta. La musica
cambia, evolve ed ogni tanto, quando mi capita di ascoltare qualcosa che suona nuovo,
mi accorgo che in questo album c’era già. Pochissimi oggetti musicali mi hanno mai
fatto questo effetto: il set di Aphex Twin al Primavera Sound del 2017, che
anticipava di un lustro abbondante la musica elettronica e l’hyperpop degli
anni ’20; l’incredibile storia dell’emersione degli Slint, che Lance Bangs ha
raccontato così bene nel documentario Breadcrumb Trail del 2014; Velvet
Underground & Nico, da sempre e per sempre.
Anche io, del resto, ancora cambio e cresco ma, quando penso di essermi
emancipato da quel ragazzetto europeo nel college americano, che in retrospettiva
mi sembra un po’ uno scemo, mi accorgo che molto di quello che sono adesso lo
devo a quel che ero a St. Louis. Soprattutto per ciò che riguarda la musica: senza quei
mesi nel Midwest non sarei mai stato così curioso di cercare dischi casuali e
infrattati, non avrei mai sviluppato una tale passione per i concerti in sale
microscopiche, non avrei la naturalezza che ho di andare a parlare con gli
artisti dopo un set, non avrei la comprensione e la sensibilità per la club
music che ho adesso, e non andrei mai a festival relativamente remoti perché “ma
sì, faccio la mattata”. Probabilmente, senza St. Louis, non scriverei nemmeno
di musica.
Forse però, senza accorgermene, quello che di più importante ho imparato dal
mio soggiorno statunitense, prematuramente stroncato dal covid, è stato il
concetto stesso di “rookie technique”. In un mondo che ci impone slogan del
tipo “less is more” e che vuole farci credere che “la bellezza stia nelle cose
semplici”, o ancora che “le cose semplici sono anche le più difficili da fare
bene”, i Demon Lover mi hanno insegnato che non ascoltare queste ingiunzioni, avere la sfacciataggine di andare per la propria strada e seguire la propria pulsione
per l’arzigogolatezza è spesso la mossa vincente.
Perché la fortuna del principiante non è mai dovuta al caso. Ci vuole
tecnica.
Ratings
1. Inculatezza. Ragazzi, stiamo parlando di un album che non è su nessuna piattaforma di streaming. Il formato fisico non esiste e anche se i Demon Lover nel 2019 millantavano una “cassette coming soon from Grown Up Music” l’esistenza della stessa etichetta non è registrata da nessuna parte. Insomma, è un album nascosto nelle profondità più oscure dell’etere. Se non fosse stato per una serie di folli coincidenze, non l’avrei scoperto nemmeno vivendo dieci vite di frequentazione assidua di Bandcamp.
⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐
2. Innovatività. Rookie Technique non inventa la luna, ma al
contempo riunisce e rielabora gli stilemi dell’indie rock e dell’elettronica
sperimentale in una maniera talmente coesa da rendere quasi impossibile la
missione di affibbiargli un genere (“future rock” funziona benissimo). Tutte le intuizioni, dalla scelta dei suoni
al missaggio della batteria, fino al songwriting a volte discontinuo, a volte squisitamente
pop, sono vincenti e hanno persino il potenziale per influenzare pesantemente il mainstream.
⭐ ⭐ ⭐ ⭐
3. Esoticità. Se in qualche luogo poteva esistere musica del
genere, quello è St. Louis, Missouri. Ho già raccontato la mia breve esperienza
della scena musicale di quel luogo e, scavando ancora di più nella “lore” nascosta-ma-non-troppo
di Demon Lover, mi accorgo che l’humus culturale per far nascere un progetto
simile non è poi sorprendente. Ogni grande città americana ha la sua maniera di
fare musica indipendente, e lo stile di St. Louis è così: svergognatamente competente.
⭐ ⭐
4. Finezza. La produzione dell’album fin dall’inizio sembra confusionaria,
storta, finanche zoppa, ma è talmente pulita che ognuno, dopo qualche tentativo, arriverà a comprendere che le scelte ritmiche e narrative più disorientanti o frustranti di Rookie Technique sono
in realtà intenzionali. La ricerca del suono è favolosa, la batteria è tangibile
e i sintetizzatori strabilianti. Persino nella volontaria immissione di suoni “economici”,
come le drum-machines della title-track, le decisioni finiscono per essere
vincenti. Niente male per un disco dove la sensazione di un approccio “buona la
prima” e DIY la fa da padrona.
⭐ ⭐ ⭐ ⭐
5. Aderenza. Rookie Technique ha semplicemente una
replay value infinita. Ogni ascolto non solo svela più dettagli, ma rivela ancora di più il valore della sua filosofia di fondo. Pure i testi, per quanto siano astratti
e strani, non solo funzionano ma piano piano penetrano nell’anima e crescono. Dopo
cinque anni di ascolto costante quest’album non solo non mi ha stancato, non
solo non è invecchiato di una virgola, ma ha addirittura guadagnato in
modernità. Non mi stupirebbe se, nel 2029, sentissi qualcuno dire: “È uscito
dieci anni fa? Non ti credo”.
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